2021-07-17
Orlando scopre le delocalizzazioni e ignora che siamo un inferno fiscale
Il ministro propone come al solito una soluzione ideologica. Ma per non perdere investitori servono imposte eque, giustizia efficiente e meno burocrazia. Non a caso l'Irlanda fa guerra alla tassa globale.Intervistato ieri sulla Stampa, il ministro del Lavoro Andrea Orlando si è presentato in una doppia veste. La prima è quella di utilizzatore di un «cacciavite», l'autore di un costante bricolage, di interventi per tentare di tamponare alcune situazioni, a onor del vero senza una particolare visione strategica. Primo esempio: Embraco, a cui il governo ha deciso di dare più tempo, consentendo «al curatore fallimentare di accedere con più facilità e meno oneri alla cassa per cessazione in modo di avere una ulteriore finestra». Obiettivo dichiarato: «Non abbandonare la speranza di un processo di reindustrializzazione». Secondo esempio: l'acciaio, dove si è deciso «di estendere all'ex Ilva le 13 settimane già previste dal precedente decreto modificando i requisiti», visto che altrimenti non sarebbe stato possibile utilizzare la cassa ordinaria. Contestualmente, secondo Orlando, l'ad dovrebbe «ritarare la richiesta degli ammortizzatori sociali». Terzo esempio: il tentativo di attivare un «tavolo sull'automotive» perché «la transizione ecologica non lascerà tutto invariato». Fin qui, come si vede, siamo all'inseguimento dei singoli casi e delle singole crisi, più che altro tamponando e guadagnando tempo.La seconda veste in cui Orlando si è presentato appare invece più ideologica, e legata al tentativo di darsi un profilo attraente agli occhi della sinistra radicale, del sindacato, e di quanti hanno sempre preferito il massimalismo al pragmatismo riformista. Ed è questa nuance che dà il titolo all'intervista: «Ora basta delocalizzazioni: sanzioni alle multinazionali in fuga».Qui Orlando mescola un richiamo ragionevole (ma già noto, oggetto di mille convegni e anche di strumenti già esistenti) e una tirata da politicante fuori dal tempo, che cerca l'applauso della curva di sinistra non rendendosi conto di come vada davvero il mondo. Il richiamo ragionevole è quello - ripete Orlando - volto a «responsabilizzare di più le imprese e legarle con più forza al Paese nel quale operano e dal quale ricevono sussidi». Effettivamente, se scattano aiuti pubblici, ha senso chiedere che alcuni impegni occupazionali e di investimento privato vengano rispettati. In questo senso, alcune risorse del Recovery plan potrebbero tornare buone: se c'è un impegno pubblico, si può chiedere un impegno dei soggetti privati, al di là della loro nazionalità. Ma ciò che invece non torna nel ragionamento di Orlando, e semmai mostra la mentalità statalista, dirigista, anti mercato, propria di un dirigente politico di formazione comunista, è l'idea di poter applicare agli attori del mercato una logica punitiva, afflittiva, quasi sanzionatoria: come se si trattasse di premiare o di punire qualcuno, di rieducarlo, di imporgli codici etici e moraleggianti. Spiace dover ricordare al ministro del Lavoro che il mercato non funziona così, e che gli investitori - italiani e stranieri - non sono disposti a venire o a restare in Italia per farsi accarezzare o invece bacchettare dal governo pro tempore, a seconda di come tira il vento. Non è questo il compito della politica. Semmai, il dovere di un buon governo sarebbe quello di creare le condizioni fiscali e regolatorie che incoraggino gli operatori privati a venire qui e a rimanerci. Siamo alle solite: si catoneggia contro veri o presunti «paradisi fiscali» all'estero, anziché preoccuparsi di evitare che l'Italia sia percepita dagli investitori come un inferno fiscale (oltre che burocratico e giudiziario). Il mercato globale è fatto di aerei (capitali e imprese) che viaggiano e devono decidere dove atterrare: il compito dei governi è creare «aeroporti» accoglienti: tasse basse, regolazione leggera, giustizia veloce ed equa. Non a caso in questi giorni l'Irlanda si batte per mantenere la sua tassazione (anche dei grandi operatori del big tech) più bassa del 15% appena concordato da G7 e G20. E perché lo fa? Perché vuole conservare gli investimenti sul suo territorio. La sinistra (e anche settori della destra) farebbero bene a concentrarsi su questo: poderose riduzioni di tasse, un salutare scossone antiburocratico (snellendo procedure e semplificando tutto il semplificabile), e una incisiva riforma dei processi per evitare che la giustizia (sia civile sia penale) appaia come una feroce e tragica roulette. Le delocalizzazioni (di chi stava in Italia e tende ad andarsene) o i mancati arrivi (di chi magari avrebbe voluto investire qui, ma sceglie di farlo altrove) si evitano così: non con le prediche, non con un'incancellabile attitudine moralistica, e meno che mai con velate minacce improntate a un'antica incomprensione di cosa guidi davvero le scelte delle imprese.
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)