2024-01-29
«Ora la Meloni non ha rivali. È lei l’erede di Berlusconi»
Giovanni Orsina (Imagoeconomica)
Il politologo Giovanni Orsina: «A differenza di Renzi e Salvini è destinata a durare. E col premierato può stabilizzare il bipolarismo fondato dal Cav. Parla poco? Fa bene, oggi la gente è stanca».«Giorgia Meloni continuerà a dare le carte: per il momento non ci sono alternative». Giovanni Orsina, storico e politologo, direttore della School of Government della Luiss Guido Carli, effettua una radiografia approfondita degli attuali leader: «Nonostante gli scossoni, la leadership meloniana è integra. Con ogni probabilità, il premier non resisterà alla tentazione di candidarsi alle Europee: difficilmente un politico rinuncia alla possibilità di rafforzare il proprio potere». «L’eredità di Berlusconi oggi è in capo al presidente del Consiglio, il premierato ne rappresenterebbe la certificazione». Professore, nel suo libro Il Berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio) ha raccontato luci e ombre di 25 anni di storia politica italiana. Qual è il principale lascito di Berlusconi nella politica di oggi? «Anzitutto, dobbiamo riconoscere che Silvio Berlusconi è stata una figura di primaria grandezza, emblema di una fase storica – gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Se oggi siamo ciò che siamo, lo dobbiamo a lui, nel bene e nel male. Con l’esperienza berlusconiana il modo di fare politica è cambiato per sempre: nella centralità della leadership e nelle forme della comunicazione. Innovazioni che continuano a svilupparsi, a destra in maniera più naturale, a sinistra con maggior fatica». Al Cavaliere si deve la fondazione del bipolarismo, che negli anni sembra essersi smarrito?«Sì, ma dopo un decennio di pausa, adesso il bipolarismo si sta ricostituendo. Inizia ad esserci di nuovo una chiara contrapposizione tra due schieramenti. Peraltro, fondando il bipolarismo, Berlusconi ha “scoperto” e al contempo costruito l’elettorato di destra. Un elettorato che esisteva già prima del ’94, ma non aveva trovato un’espressione politica. Era presente nei media, semmai – Il Giornale di Montanelli, ad esempio, o il Giornale Radio 2 di Gustavo Selva». Che vuoti ha lasciato il Cav? «Ha alimentato l’antipolitica, facendone – paradossalmente – uno strumento politico. Ma poi l’antipolitica gli è sfuggita di mano e ha fatto parecchi danni. Poi, non siamo ancora stati in grado di completare il nostro edificio costituzionale, in modo che il bipolarismo abbia un ancoraggio normativo».Dunque se il governo Meloni introdurrà il premierato, possiamo dire che l’eredità berlusconiana verrà pienamente messa a frutto?«Sarebbe un passo in avanti in quella direzione. Da questo punto di vista, oggi Giorgia Meloni è indiscutibilmente l’erede di Berlusconi. Del resto, un buon pezzo dell’elettorato berlusconiano dei tempi che furono oggi vota Fratelli d’Italia. E questo è un fatto, nonostante le innegabili, notevolissime differenze politiche e stilistiche che sussistono tra i due personaggi». Berlusconi era considerato un federatore, Meloni no. «Berlusconi non è mai stato un uomo di partito. Anche grazie alle sue notevolissime risorse extrapolitiche – aziendali, finanziarie, mediatiche – poteva permettersi di essere leader della coalizione almeno tanto quanto lo era di Forza Italia. Meloni è una politica di professione, e politica di partito, molto più che di coalizione. Questa differenza poi è rafforzata dall’indole diversissima dei due. Berlusconi era figlio degli anni Ottanta, trasudava ottimismo, apertura e libertà; oggi il mondo è cambiato, la parola d’ordine non è più “libertà” ma “sicurezza”».Dopo un anno e tre mesi di governo, con alti e bassi tra alleati e pochi spazi di manovra sul bilancio, la leadership del premier non rischia di appannarsi?«Sì. Ma, ciò nonostante, Meloni continuerà a dare le carte. Almeno fin quando non emergerà un’alternativa per i suoi elettori. Alternativa che oggi non è all’orizzonte». Perché pensa che il consenso della Meloni non si sgonfierà, come accaduto a Renzi o Salvini?«Perché negli altri casi c’era un’alternativa. Renzi nasceva egli stesso come alternativa, ai 5 Stelle. Salvini si è trovato in casa l’alternativa Meloni. Ma oggi Meloni non ha avversari. È vero che l’elettorato si sposta in fretta, ma attualmente non saprebbe dove spostarsi». Ma i leader che hanno già governato non potrebbero prendersi la rivincita?«No, perché la regola del gioco, oggi, è che non si torna indietro. Se hai governato in passato e hai fallito, sei consegnato alla storia. Un fiammifero bruciato, difficilmente lo si può riaccendere. Dunque è improbabile, ad esempio, che i voti transitati da Salvini a Meloni possano fare il percorso inverso. Improbabile non vuol dire impossibile, certo. Però è proprio difficile».Dunque Meloni è «condannata» a governare?«Almeno finché non nascerà una nuova leadership adeguata ai nostri tempi che sappia parlare ai suoi elettori. Magari, tra qualche anno, potrebbe essere – che so – un Vannacci, un personaggio che in questo momento rappresenta un fenomeno politico allo stato embrionale. Oppure potrebbe emergere qualcuno sul versante di centro destra».Sono operazioni che richiedono tempi lunghi?«Anche nei nostri tempi frenetici, un fenomeno politico ha comunque bisogno di qualche anno per affermarsi. Dal primo Vaffa Day del 2007 all’esplosione elettorale dei 5 stelle, nel 2013, passano sei anni. E anche Salvini, che diventa segretario federale della Lega nel 2013, impiegherà sei anni a fare il pieno di voti, alle Europee del 2019. Se oggi ci fosse un embrione di alternativa potremmo dunque aspettarcene la maturazione intorno al 2030. Campa cavallo. Detto questo, certamente un’alternativa a Meloni servirebbe eccome, nell’interesse di tutti».Parliamo di leadership personali, come se non ci fossero partiti a sostenerle. Crede che a Fdi manchi una classe dirigente all’altezza?«È vero, ed è naturale e inevitabile. Un partito identitario che parte dal 4% e cresce a velocità molto sostenuta, non può avere la forza né il tempo necessari a costruirsi una classe dirigente adeguata a un Paese di sessanta milioni di abitanti». Vale anche per gli altri?«Sì, anche Renzi non aveva personale politico, perché del Pd non si fidava: e infatti è andato a pescarlo nel suo mondo fiorentino. Lo stesso “salvinismo” non coincide affatto con il vecchio “leghismo”. Il punto è proprio questo: queste leadership, anche se emergono da partiti strutturati, nascono più “contro” il partito che non “attraverso” di esso. E dunque non hanno in dote professionalità accettabili intorno a loro». Risultato? «Il risultato è che anche oggi il personale politico al governo è insufficiente, in termini di qualità ma anche numerici. Questo per il momento non è un problema per il mantenimento del consenso, ma in futuro potrebbe diventarlo».Il premier resisterà alla tentazione di candidarsi alle Europee?«Credo che alla fine farà il grande passo, perché il richiamo dei voti è troppo forte. È vero, ci sono dei rischi, ma è nella natura di un politico cercare di massimizzare il proprio potere. È come indicare a un cercatore d’oro un immenso giacimento poco distante, insomma: quello cerca di mettere le mani sul bottino, è il suo lavoro. Poi, se emergeranno dei problemi, li affronterà volta per volta». Sul piano comunicativo, qual è la pagella del premier?«Se la sta cavando bene. Anzitutto parla poco. Questo fa infuriare i giornalisti, ma è una buona scelta: negli ultimi anni c’è stata una bulimia comunicativa della politica, abbiamo visto leader perennemente sullo schermo. Poteva funzionare qualche anno fa: oggi la gente è stanca. Meloni lo ha capito: adotta uno stile pragmatico, cercando di evitare esagerazioni da “ganassa”». E poi ha dalla sua il vento europeo, che pare a favore delle destre.«Se in Germania – ad esempio – l’estrema destra cresce, se il populismo fa proseliti, è perché i partiti moderati non sono più in grado di dare risposte. Se le persone sono preoccupate per i flussi migratori non regolati, o perché vedono in pericolo le proprie tradizioni, non si può rispondere loro soltanto accusandole di razzismo o di chiusura o di esser rimaste ferme al Medioevo. Se i partiti moderati non sanno più affrontare il malessere di vasti strati di popolazione scontenta, è ovvio che quelli si rivolgono altrove». In Italia torna l’allarme democratico: l’autonomia e il premierato sono l’anticamera dell’abisso?«Dell’autonomia è difficile prevedere le conseguenze, il premierato, per come è stato disegnato dal progetto del governo, non mi convince. Possiamo discutere a lungo di entrambi i provvedimenti. Ma suonare l’allarme democratico da parte dell’opposizione è a mio avviso un errore madornale, autolesionistico, un segno di disperazione. Era un’arma già debole nel ’94: oggi è totalmente spuntata. Non ci crede più nessuno».Le opposizioni – Pd e M5s – potranno diventare maggioritarie? «Allo stato attuale no, neanche se si coalizzassero. Anche insieme, parlano a un mondo naturalmente minoritario. In definitiva, ci stiamo riferendo a un terzo dell’elettorato, quello che storicamente possiamo definire elettorato di sinistra». Il Pd trarrà giovamento dalla linea ideologica di Schlein?«Schlein ha fatto una scelta chiara e identitaria. Ma, come detto, è l’identità di una minoranza: la minoranza progressista, attenta ai diritti, tendenzialmente favorevole al mondo globale – più sul terreno etico e giuridico che economico. È il partito del Frecciarossa: Torino-Milano-Bologna-Firenze-Roma-Napoli. Ma l’Italia è il Paese delle medie e piccole città, dei borghi». Ci vorrebbe un federatore alla Prodi?«Sì, ma mica facile trovarne uno adeguato al nostro tempo. Prodi è figlio di un’altra epoca – il pendant di Berlusconi. Schlein potrebbe sperare in un’ondata di astensionismo che travolga la destra: in assoluto i suoi voti resterebbero quelli, ma in percentuale salirebbero. Ma è un’ipotesi residuale».E il Movimento 5 stelle? «Conte, a differenza di Schlein, ha vita facile. Parla a un altro elettorato di sinistra, arrabbiato, popolare, meridionale, con il quale comunica attraverso messaggi chiari. Gestisce un pacchetto del 15-16%, e sta bene anche se non si allea e non punta alla maggioranza. Del resto, gli sarebbe difficile governare l’Italia, oggi, con quelle posizioni in politica internazionale». Sta seppellendo l’idea di «campo largo» a sinistra?«Se insegue Conte, soprattutto in politica estera – si pensi alla sua ultima uscita su Israele – Schlein si scopre al centro. E dunque, in definitiva, il gioco sarebbe comunque perdente: sempre dentro quel terzo di elettorato di sinistra rimarrebbe, l’alleanza».
Jose Mourinho (Getty Images)