
La vicenda di Vincent Lambert, paziente condannato alla morte atroce di nove giorni di agonia, senza cibo e senz'acqua, segna un passaggio epocale: il trasferimento delle decisioni sulla vita e sulla morte dalla famiglia allo Stato. Ed è l'abisso dell'umanità.Prima di tutto c'è l'orrore. Poi c'è il silenzio che circonda l'orrore. E che forse è anche peggio. Nella civilissima Francia, patria dei diritti umani e maestra di etica mondiale, un uomo viene condannato a una morte atroce: nove giorni di agonia, senza cibo e senz'acqua. I suoi genitori, che farebbero di tutto per salvarlo, sono costretti a osservare impotenti. Un tribunale impedisce loro il gesto più naturale e antico del mondo: quello di dare da mangiare e da bere al figlio. Lo guardano mentre muore di fame e di sete. Che cosa c'è di più terribile? Siamo arrivati all'abisso dell'umanità. E ciò che fa più impressione è che ci siamo arrivati come se fosse naturale, come se fosse un elemento meteorologico, il frutto del cambiamento del clima. C'è stata la grandine a Pescara, hai visto? E c'è Vincent Lambert che muore di fame e di sete. Non può essere così. Questa morte non può fare a meno di scuoterci fin nel midollo della nostra umanità. Vincent, lo sapete, non era malato terminale. Non aveva una di quelle malattie degenerative che portano rapidamente una fine dolorosa. Non era nemmeno in stato vegetativo, come è stato erroneamente scritto. Aveva quello che i medici definiscono uno stato di «minima coscienza vigile»: apriva gli occhi, li chiudeva, piangeva, respirava da solo. Non c'era nessuna forma di accanimento nei suoi confronti, non era «attaccato alle macchine». Certo: aveva bisogno di acqua e cibo. Ma si può negare acqua e cibo a chi sta morendo di fame? È una responsabilità enorme quella che si è presa il tribunale. Così enorme che, forse, bisognerebbe cominciare a chiedersi se è giusto che siano i tribunali a prendere decisioni come queste. Abbiamo già vissuto altre volte, negli ultimi anni, lo stesso tragico copione. È stato un tribunale a stabilire, contro la volontà dei genitori, che bisognava staccare il respiratore al piccolo Charlie Gard nel 2017. È stato un tribunale a stabilire, contro la volontà dei genitori, che bisognava staccare il respiratore al piccolo Alfie Evans nel 2018. Così come è stato, per l'appunto, un tribunale a stabilire, contro la volontà dei genitori, che bisognava smettere di dare da mangiare a Vincent Lambert, il quale non aveva neppure bisogno di un ventilatore per respirare. Il ripetersi di eventi simili in forma sempre più drammatica, non deve stupire. Come sempre, quando si parla di valori etici, il piano s'inclina verso l'abisso: se uno comincia a scivolare non si ferma più. Il dibattito sull'eutanasia era stato introdotto in Italia attraverso casi strazianti, con genitori che chiedevano la morte per la figlia (Eluana Englaro) o con malati che addirittura chiedevano la morte per loro stessi (Dj Fabo). E le storie tragiche di quelle vite spezzate, la determinazione dei protagonisti, l'ineluttabilità delle vicende trasformate in casi simbolo, sembravano studiate apposta per spingere tutti a pensare: come si fa a dire di no? Ma, come abbiamo appena ricordato, sulle questioni etiche bisogna fare attenzione: quando si cede sui principi, poi crolla tutto. Parte un sassolino (che male può fare il sassolino?) e diventa una valanga (che di male ne fa un sacco). Così dalla libera scelta di morire, si passa alla scelta di morire affidata a un tribunale. Non è un passaggio irrilevante. Anzi, è un passaggio drammaticamente epocale. Perché, a questo punto, non c'è più soltanto in questione, come nel classico tema dell'eutanasia, il diritto di ciascuno di scegliere come e quando morire (che pure è già argomento meritevole di ampia discussione): c'è qualcosa di più grave. Di più serio. C'è il trasferimento della propria vita dalle mani della famiglia a quelle di un tribunale. E questo, oltre a essere un altro aspetto del multiforme e ormai impressionante attacco della società contemporanea alla famiglia (ma dove vogliono arrivare?), apre anche ulteriori e drammatici interrogativi. Per esempio: chi deciderà sulla nostra vita, lo farà in nome del bene nostro o di quello dei conti economici? Il dubbio l'ha sollevato Michel Houellebecq proprio a proposito di Lambert: «Vincent è stato ucciso», ha detto lo scrittore in un'intervista a Le Monde, «perché l'ospedale aveva altre cose da fare. Lo Stato lo ha ucciso perché costava troppo». In effetti, il problema esiste: la medicina oggi consente di curare molti malati che una volta sarebbero morti. Ma ce lo possiamo permettere? Ci sono i soldi per assistere tutti? O le persone meno utili e meno produttive, quelle che rappresentano solo un costo netto per la società, come Vincent, devono essere eliminati in nome del Dio Bilancio? Ho il vago sospetto che questo passaggio epocale, cioè questo trasferimento delle decisioni sulla vita e sulla morte dalla famiglia allo Stato, non sia casuale né innocente. Ma miri proprio a questo. A dare allo Stato la possibilità di scegliere chi può continuare a vivere e chi no. Non potranno essere curati tutti. Non potranno essere assistiti tutti. Se si lasciasse la possibilità di scegliere alle famiglie, pochi accetterebbero l'eliminazione a cuor leggero del proprio caro. Ed è per questo che intervengono i tribunali, i giudici, le autorità costituite, cui viene attribuito un potere quasi divino. Saranno loro, infatti, a dire: «Questo lo salviamo e questo no». «Questo non conviene curarlo, questo sì». «Questo disabile merita un sostegno, per quest'altro non vale la pena spendere soldi». «A questo anziano si possono dare medicine, con questo sarebbero sprecate». Saranno loro a fare una selezione naturale non basata sulla razza ma sulla presunta «utilità» di ciascuna persona. Attenzione: non è uno scenario apocalittico futuro, quello che stiamo descrivendo. È l'oggi. L'oggi eugenetico e un po' nazista in cui siamo entrati accompagnando alla tomba Vincent. Senza nemmeno accorgersi di quel che voleva dire tutto ciò.
Mattia Furlani (Ansa)
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