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2018-08-15
Opacità e favori agli amici degli amici. Così il sistema crea disastri in serie
Ansa
Documenti di gara ridotti all'osso, trasparenza nulla nelle operazioni di gara, strane aggregazioni degli appalti e verifiche di anomalia in pieno stile trattativa privata, sono solo alcune delle opacità nei rapporti tra il concedente, che in passato era l'Anas e che ora è il ministero dei Trasporti, e le società concessionarie. Alla tanto sbandierata (dall'ex ministro Graziano Delrio) desecretazione dei contratti non è seguita un'adeguata trasparenza.
Basta sfogliare le pagine offerte alla consultazione per capire subito che ci sono buchi vistosi: ossia mancano gli allegati fondamentali. Un'opacità nella quale sguazza soprattutto (ma non solo) il duopolio dell'affare autostradale, che si chiama Atlantia e Gavio. Sono le concessionarie che si occupano di quasi il 70% dei chilometri autostradali in Italia. Le percorrenze restanti, ossia un quarto della torta, sono gestite da società controllate da enti pubblici locali e da altri concessionari, come il gruppo Toto.
Bankitalia ha calcolato che ogni chilometro di autostrada rende oltre 1 milione di euro. Di questi, la gran parte (850.000 euro stimati al chilometro) finisce alle concessionarie. Il ponte Morandi, sul tratto autostradale che percorre tutta la Liguria e collega Genova a Ventimiglia, è in concessione ad Autostrade per l'Italia (Atlantia, gruppo Benetton). E pur presentando da tempo pesanti carenze strutturali se lo sono fatto sfuggire dalle mani. Ora è tardi per dire che era una tragedia annunciata e toccherà all'inchiesta aperta dalla magistratura genovese (per omicidio plurimo colposo e disastro colposo) affibbiare a qualcuno le responsabilità penali. La responsabilità morale però è di chi ha creato un meccanismo nel quale la politica ora non può più tardare a mettere le mani. Perché quello di ponte Morandi non un caso unico in Italia. Lo scorso anno franò un ponte lungo la A14, tra Ancona e Loreto, provocando la morte di due persone. Nel 2016 è venuto giù il cavalcavia di Annone, in provincia di Lecco, che passa sopra la Valassina: una vittima. È del 2015 il crollo del viadotto Himera sull'autostrada A19 Palermo-Catania. Nel 2014 toccò al viadotto Scorciavacche, sulla Palermo-Agrigento, sempre in Sicilia. E così via. Sulla bretella autostradale Potenza-Sicignano i crolli sono stati sventati dalla magistratura, che dopo aver sequestrato alcuni viadotti pericolanti, ha messo sotto inchiesta undici persone, tra tecnici e dirigenti dell'Anas. L'accusa: «Attentato alla sicurezza». L'andazzo, insomma, è questo.
E mentre i costi di gestione diminuiscono, perché è cresciuta l'automazione (sono quasi scomparsi i casellanti visto che il 70% degli automobilisti usa il Telepass), gli investimenti complessivi sulla rete sono crollati a 800 milioni di euro, contro una media annuale di 2,4 miliardi all'anno del periodo tra il 2008 e il 2015.
E così anche la spesa per le manutenzioni (gli ultimi dati disponibili risalgono al 2016): 7,5% in meno. Il segno meno sul capitolo degli investimenti per la sistemazione di strutture ormai obsolete, l'opacità nei contratti sulle concessioni e sulle gare e i classici lavori al risparmio in termini di tempo e denaro creano il cortocircuito. Il risultato più grave sono i crolli. Sui misteriosi meccanismi delle concessioni è andato a fondo Mario Giordano, che nel suo Avvoltoi, pubblicato da Mondadori lo scorso marzo, ha dedicato agli affaroni autostradali il capitolo «Il casello dalle uova d'oro». E lì si scopre che la concessione della A22 è stata da poco rinnovata per i prossimi 30 anni. «Fino al 2045», scrive Giordano, «quando forse viaggeremo su auto volanti e ci fermeremo al bar a prendere un caffè con gli alieni. Quando tutto sarà cambiato, insomma, tranne che per l'Autobrennero». La quale attraverso gli introiti dei pedaggi continuerà a produrre quattrini a pioggia. Ben sapendo che piove sempre nelle tasche dei soliti noti. Nel 2016 gli utili sono stati pari a 71,7 milioni. Ma potrebbero essere anche di più. È stato calcolato che mettendo all'asta per 30 anni l'Autobrennero con una gara pubblica lo Stato avrebbe potuto incassare 5 miliardi di euro. Ma ha deciso di rinunciarci. A ringraziare è la società che dal 1961, con un emendamento al decreto fiscale, la gestirà grazie alla solita trattativa privata fino al 2045.
Al gruppo Toto, invece, nessuno ha regalato 5 miliardi di euro. La cordata guidata dall'imprenditore abruzzese si è dovuta accontentare di 121 milioni. Un «Totoregalo» lo ha definito Giordano. Era la notte del 23 maggio 2017 quando nel caos della manovrina economica spuntò l'emendamento giusto: a Toto furono abbuonati i debiti con l'Anas. Sono nelle sue mani la strada dei Parchi, la società che gestisce le autostrade A24 e A25, la Roma-Teramo e la Torino-Pescara: 281 chilometri d'asfalto sui quali transitano ogni giorno 150.000 vetture. Nel 2016 i pedaggi hanno reso 164 milioni di euro. E i Gavio? Leggendo Avvoltoi si scopre che gestiscono 11 concessioni, per un totale di 1.460 chilometri di asfalto. Nell'ultimo anno hanno incassato, solo di pedaggi, 1.239.342.464 euro, cioè quasi 3,5 milioni al giorno. Guadagni quasi sicuri, rischi quasi nulli. Come per tutte le concessionarie.
Un’opera contestata da oltre mezzo secolo. Fior di ingegneri ci avevano avvertito
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Sulle autostrade lo Stato investe poco e male, favorendo per lo più pochi gruppi con appalti non trasparenti E mentre per la manutenzione si spende sempre meno, i guadagni vanno in massima parte ai concessionariAntonio Brencich, genovese, nel 2016 aveva criticato il perenne bisogno di lavori. Franco Bontempi (La Sapienza): «Fragilità note».Un'interrogazione parlamentare del 2016 di Maurizio Rossi poneva a Graziano Delrio domande sulle condizioni del ponte Morandi. «Ma l'allora ministro del Pd non mi ha risposto».Lo speciale contiene tre articoli.Documenti di gara ridotti all'osso, trasparenza nulla nelle operazioni di gara, strane aggregazioni degli appalti e verifiche di anomalia in pieno stile trattativa privata, sono solo alcune delle opacità nei rapporti tra il concedente, che in passato era l'Anas e che ora è il ministero dei Trasporti, e le società concessionarie. Alla tanto sbandierata (dall'ex ministro Graziano Delrio) desecretazione dei contratti non è seguita un'adeguata trasparenza. Basta sfogliare le pagine offerte alla consultazione per capire subito che ci sono buchi vistosi: ossia mancano gli allegati fondamentali. Un'opacità nella quale sguazza soprattutto (ma non solo) il duopolio dell'affare autostradale, che si chiama Atlantia e Gavio. Sono le concessionarie che si occupano di quasi il 70% dei chilometri autostradali in Italia. Le percorrenze restanti, ossia un quarto della torta, sono gestite da società controllate da enti pubblici locali e da altri concessionari, come il gruppo Toto.Bankitalia ha calcolato che ogni chilometro di autostrada rende oltre 1 milione di euro. Di questi, la gran parte (850.000 euro stimati al chilometro) finisce alle concessionarie. Il ponte Morandi, sul tratto autostradale che percorre tutta la Liguria e collega Genova a Ventimiglia, è in concessione ad Autostrade per l'Italia (Atlantia, gruppo Benetton). E pur presentando da tempo pesanti carenze strutturali se lo sono fatto sfuggire dalle mani. Ora è tardi per dire che era una tragedia annunciata e toccherà all'inchiesta aperta dalla magistratura genovese (per omicidio plurimo colposo e disastro colposo) affibbiare a qualcuno le responsabilità penali. La responsabilità morale però è di chi ha creato un meccanismo nel quale la politica ora non può più tardare a mettere le mani. Perché quello di ponte Morandi non un caso unico in Italia. Lo scorso anno franò un ponte lungo la A14, tra Ancona e Loreto, provocando la morte di due persone. Nel 2016 è venuto giù il cavalcavia di Annone, in provincia di Lecco, che passa sopra la Valassina: una vittima. È del 2015 il crollo del viadotto Himera sull'autostrada A19 Palermo-Catania. Nel 2014 toccò al viadotto Scorciavacche, sulla Palermo-Agrigento, sempre in Sicilia. E così via. Sulla bretella autostradale Potenza-Sicignano i crolli sono stati sventati dalla magistratura, che dopo aver sequestrato alcuni viadotti pericolanti, ha messo sotto inchiesta undici persone, tra tecnici e dirigenti dell'Anas. L'accusa: «Attentato alla sicurezza». L'andazzo, insomma, è questo.E mentre i costi di gestione diminuiscono, perché è cresciuta l'automazione (sono quasi scomparsi i casellanti visto che il 70% degli automobilisti usa il Telepass), gli investimenti complessivi sulla rete sono crollati a 800 milioni di euro, contro una media annuale di 2,4 miliardi all'anno del periodo tra il 2008 e il 2015.E così anche la spesa per le manutenzioni (gli ultimi dati disponibili risalgono al 2016): 7,5% in meno. Il segno meno sul capitolo degli investimenti per la sistemazione di strutture ormai obsolete, l'opacità nei contratti sulle concessioni e sulle gare e i classici lavori al risparmio in termini di tempo e denaro creano il cortocircuito. Il risultato più grave sono i crolli. Sui misteriosi meccanismi delle concessioni è andato a fondo Mario Giordano, che nel suo Avvoltoi, pubblicato da Mondadori lo scorso marzo, ha dedicato agli affaroni autostradali il capitolo «Il casello dalle uova d'oro». E lì si scopre che la concessione della A22 è stata da poco rinnovata per i prossimi 30 anni. «Fino al 2045», scrive Giordano, «quando forse viaggeremo su auto volanti e ci fermeremo al bar a prendere un caffè con gli alieni. Quando tutto sarà cambiato, insomma, tranne che per l'Autobrennero». La quale attraverso gli introiti dei pedaggi continuerà a produrre quattrini a pioggia. Ben sapendo che piove sempre nelle tasche dei soliti noti. Nel 2016 gli utili sono stati pari a 71,7 milioni. Ma potrebbero essere anche di più. È stato calcolato che mettendo all'asta per 30 anni l'Autobrennero con una gara pubblica lo Stato avrebbe potuto incassare 5 miliardi di euro. Ma ha deciso di rinunciarci. A ringraziare è la società che dal 1961, con un emendamento al decreto fiscale, la gestirà grazie alla solita trattativa privata fino al 2045.Al gruppo Toto, invece, nessuno ha regalato 5 miliardi di euro. La cordata guidata dall'imprenditore abruzzese si è dovuta accontentare di 121 milioni. Un «Totoregalo» lo ha definito Giordano. Era la notte del 23 maggio 2017 quando nel caos della manovrina economica spuntò l'emendamento giusto: a Toto furono abbuonati i debiti con l'Anas. Sono nelle sue mani la strada dei Parchi, la società che gestisce le autostrade A24 e A25, la Roma-Teramo e la Torino-Pescara: 281 chilometri d'asfalto sui quali transitano ogni giorno 150.000 vetture. Nel 2016 i pedaggi hanno reso 164 milioni di euro. E i Gavio? Leggendo Avvoltoi si scopre che gestiscono 11 concessioni, per un totale di 1.460 chilometri di asfalto. Nell'ultimo anno hanno incassato, solo di pedaggi, 1.239.342.464 euro, cioè quasi 3,5 milioni al giorno. Guadagni quasi sicuri, rischi quasi nulli. Come per tutte le concessionarie.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/opacita-e-favori-agli-amici-degli-amici-cosi-il-sistema-crea-disastri-in-serie-2595911678.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="unopera-contestata-da-oltre-mezzo-secolo-fior-di-ingegneri-ci-avevano-avvertito" data-post-id="2595911678" data-published-at="1765052120" data-use-pagination="False"> Un’opera contestata da oltre mezzo secolo. Fior di ingegneri ci avevano avvertito Per alcuni era l'opera spettacolare di un genio: Riccardo Morandi, ovverosia l'ingegnere razionalista che aveva brevettato un sistema di precompressione del calcestruzzo. Per altri era soltanto un ponte vecchio, e soprattutto pericoloso. Costruito a partire dal 1963 e inaugurato il 4 settembre 1967, il viadotto di Morandi divideva i tecnici anche prima della sua caduta. Figurarsi ora. Antonio Brencich, docente di Costruzioni in cemento armato e cemento armato precompresso all'università di Genova, era da tempo fra i critici più severi. Due anni fa, aveva lanciato i suoi strali sul lungo viadotto, contestandone la qualifica di capolavoro e definendolo (testualmente) «un fallimento»: «Quell'opera», aveva dichiarato Brencich, «ha presentato aspetti problematici fin da subito. Era stata sbagliata la valutazione della viscosità del calcestruzzo, e questo ha reso non perfettamente orizzontale il piano viario del ponte. Ancora nei primi anni Ottanta, chi lo percorreva era costretto a fastidiosi alti e bassi: solamente ripetute correzioni hanno creato le attuale accettabili condizioni di semiorizzontalità». A Brencich era stato chiesto (per la cronaca, la data dell'intervista era il 19 luglio 2016) se esistessero problemi di stabilità. Il tecnico si era schermito con la solidarietà di categoria: «Della manutenzione si occupano altri ingegneri», aveva risposto, «e penso non ci siano problemi». Ma poi aveva anche ricordato che negli anni Novanta erano stati necessari «lavori enormi». In particolare, su una delle tre campate del ponte Morandi gli stralli erano stati affiancati da nuovi cavi. «Quell'intervento», aveva concluso Brencich, «era indice di una corrosione più elevata e più veloce del previsto». Un ponte deve durare almeno 70-100 anni, aveva ricordato l'ingegnere; se dopo 30 si rende necessario un rifacimento così imponente, qualcosa non va. Brencich aveva anche gettato una luce inquietante sul futuro del ponte: avrebbe dovuto essere «sostituito», aveva detto, «quando la manutenzione costerà più della sua sostituzione». E a quel punto l'ingegnere aveva segnalato un dato allarmante: alla fine degli anni Novanta, dopo appena un trentennio di vita, la spesa nella manutenzione del viadotto aveva già raggiunto «l'80% del suo prezzo di realizzazione». Decisamente troppo. Più clemente, se non nei confronti dell'opera sicuramente almeno verso il suo progettista, è uno dei massimi esperti italiani di tecnica delle costruzioni: il professor Franco Bontempi, docente alla Sapienza di Roma. «Non conosciamo ancora i motivi del crollo», dice alla Verità, «ma va riconosciuto che il viadotto Morandi era un tipico ponte concepito negli anni Sessanta: bello ed elegante, un capolavoro strutturale. Mezzo secolo fa, però, si dava grande attenzione all'equilibrio delle strutture, mentre si sottovalutavano i loro movimenti, e anche la corrosione. Soprattutto, si pensava che il calcestruzzo fosse un materiale eterno. Invece nel ponte si crearono presto fessurazioni. E va riconosciuto che la struttura aveva sue effettive fragilità di congruenza, cioè nel campo che attiene a deformazioni e spostamenti». Anche Pier Giorgio Malerba, docente del Politecnico di Milano e tra i massimi tecnici di ponti, in qualche modo «difende» la memoria del progettista Morandi: «Dopo mezzo secolo, è facile criticare. Ma negli anni Sessanta i calcoli venivano fatti ancora con il regolo a mano, e perfino quando si disponeva di macchine avveniristiche una divisione poteva durare 30 secondi». Ma lo stesso Malerba riconosce la vulnerabilità e i punti deboli della struttura crollata: «Le campate, come in tutti i ponti dell'epoca costruiti con quella tecnica, erano tenute da pochi tiranti. Ma anche questo è un potente fattore di fragilità: perché ne “parte" uno, e tutto cade. Oggi invece gli stralli sono decine, si compensano tra loro, e sono realizzati in resistentissimi trefoli d'acciaio». Gli stralli del viadotto genovese, invece, erano stati fatti in calcestruzzo precompresso, proprio la tecnologia ideata da Morandi. «Ma circa 25 anni fa, su una campata del viadotto, quegli stralli erano stati disattivati», conferma Malerba, «ed era stato creato una specie di esoscheletro per rafforzarli». Così il problema si sposta inevitabilmente sulla manutenzione. E a leggere la storia anche recente del ponte crollato emerge con piena evidenza che interventi e rifacimenti erano praticamente continui. Proprio ieri, subito dopo il disastro, Autostrade per l'Italia ha comunicato che «erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto» e che era stato installato anche un carro-ponte «per consentire lo svolgimento delle attività di manutenzione». E sempre di recente, lo scorso 3 maggio, Autostrade per l'Italia aveva annunciato l'ennesima ristrutturazione. Sul sito della società si legge che la spesa per le opere stradali appaltate «a procedura ristretta» ammonta a 20,1 milioni di euro: per l'esattezza, 14.758.000 euro per «lavori parte a corpo e parte a misura» e 5.401.000 euro «per oneri di sicurezza, non soggetti a ribasso». Le domande di partecipazione alla gara, si legge, «dovranno pervenire entro l'11 giugno 2018». È da ipotizzare che, soltanto due mesi dopo, le procedure per avviare quell'appalto non fossero ancora state concluse. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/opacita-e-favori-agli-amici-degli-amici-cosi-il-sistema-crea-disastri-in-serie-2595911678.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-senatore-disse-i-giunti-cedono" data-post-id="2595911678" data-published-at="1765052120" data-use-pagination="False"> Il senatore disse: «I giunti cedono» Nella sua interrogazione era contenuta una denuncia che è caduta nel vuoto, ma è stata profetica. È finita in un limbo, al Senato, senza alcuna risposta. Snobbata. Il 28 aprile 2016 il senatore genovese Maurizio Rossi, imprenditore, titolare dell'emittente locale Primocanale, aveva messo nero su bianco quello che doveva suonare come un campanello d'allarme: «Recentemente il ponte Morandi è stato oggetto di un preoccupante cedimento dei giunti che hanno reso necessaria un'opera straordinaria di manutenzione senza la quale è concreto il rischio di una sua chiusura». Il suo commento, al telefono con La Verità proprio mentre in auto sta rientrando nella sua Genova, è amaro: «Il ministro Graziano Delrio non mi ha mai risposto». Era una grande occasione per avviare controlli specifici. Il senatore Rossi è da sempre un sostenitore della Gronda, la nuova infrastruttura autostradale di 61 chilometri che doveva cambiare completamente registro al traffico del nodo genovese e scaricarlo, «sgrondarlo», dalla quota molto rilevante che, in realtà, oggi passa da Genova diretta a Nord o a Ponente. La Gronda avrebbe sgrondato dal traffico extraurbano proprio il tratto della A10 che comprende il ponte Morandi (libero da pedaggio) e che è decisamente sovraccaricato. E quindi il senatore Rossi, solo qualche mese dopo, è tornato alla carica, questa volta in Commissione: «Abbiamo un ultimo punto, il ponte Morandi, il ponte autostradale sopra Genova. Voi purtroppo sapete che ne è crollato uno recentemente. Quando si vedono 100 tir in coda su quel ponte viene da chiedersi per quanti anni potrà reggere?». Fu proprio durante una discussione nella trasmissione Macaia di Primocanale che il Comune in qualche modo ammise di essere a conoscenza dei problemi del ponte Morandi: un ex assessore ricordò in diretta tv di quando, per motivi di stabilità vennero aggiunti gli stralli, i tiranti, le parti più scenografiche che conferivano al ponte quell'aria vagamente americana. Ma che servivano in realtà per tenerlo in piedi. Da allora la tv di Rossi si è occupata delle difficoltà della viabilità genovese e del ponte centinaia di volte. E la questione del ponte era all'ordine del giorno. «Fummo i primi», ricorda il senatore, «a intervistare un ingegnere che già parlava di pericoli». «La situazione di Genova», aggiunge, «la conosco estremamente bene e purtroppo la criticità del ponte Morandi ci è nota da sempre. È stato realizzato quando i traffici non erano abbondanti come adesso. Sono aumentati di centinaia di migliaia i tir che attraversano la città e su quel viadotto si vedevano spesso le code ferme». E ricorda ancora una volta che «il progetto della Gronda, fermo da 18 anni, avrebbe dovuto risolvere questo snodo fondamentale: sul ponte Morandi, ora crollato, passava tutto il traffico, soprattutto quello commerciale, in arrivo dalla Francia e da Savona verso Genova, e da lì sia in direzione Milano, sia giù per la costa tirrenica verso La Spezia e Roma. Immagina di che mole stiamo parlando?». Messa in archivio la profezia, ora, resta la rabbia: «Si pensi che la Gronda è stata approvata nel 2001. C'è da chiedersi perché non si sia voluto capire per tempo la necessità di costruire un'alternativa».
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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