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2018-08-15
Opacità e favori agli amici degli amici. Così il sistema crea disastri in serie
Ansa
Documenti di gara ridotti all'osso, trasparenza nulla nelle operazioni di gara, strane aggregazioni degli appalti e verifiche di anomalia in pieno stile trattativa privata, sono solo alcune delle opacità nei rapporti tra il concedente, che in passato era l'Anas e che ora è il ministero dei Trasporti, e le società concessionarie. Alla tanto sbandierata (dall'ex ministro Graziano Delrio) desecretazione dei contratti non è seguita un'adeguata trasparenza.
Basta sfogliare le pagine offerte alla consultazione per capire subito che ci sono buchi vistosi: ossia mancano gli allegati fondamentali. Un'opacità nella quale sguazza soprattutto (ma non solo) il duopolio dell'affare autostradale, che si chiama Atlantia e Gavio. Sono le concessionarie che si occupano di quasi il 70% dei chilometri autostradali in Italia. Le percorrenze restanti, ossia un quarto della torta, sono gestite da società controllate da enti pubblici locali e da altri concessionari, come il gruppo Toto.
Bankitalia ha calcolato che ogni chilometro di autostrada rende oltre 1 milione di euro. Di questi, la gran parte (850.000 euro stimati al chilometro) finisce alle concessionarie. Il ponte Morandi, sul tratto autostradale che percorre tutta la Liguria e collega Genova a Ventimiglia, è in concessione ad Autostrade per l'Italia (Atlantia, gruppo Benetton). E pur presentando da tempo pesanti carenze strutturali se lo sono fatto sfuggire dalle mani. Ora è tardi per dire che era una tragedia annunciata e toccherà all'inchiesta aperta dalla magistratura genovese (per omicidio plurimo colposo e disastro colposo) affibbiare a qualcuno le responsabilità penali. La responsabilità morale però è di chi ha creato un meccanismo nel quale la politica ora non può più tardare a mettere le mani. Perché quello di ponte Morandi non un caso unico in Italia. Lo scorso anno franò un ponte lungo la A14, tra Ancona e Loreto, provocando la morte di due persone. Nel 2016 è venuto giù il cavalcavia di Annone, in provincia di Lecco, che passa sopra la Valassina: una vittima. È del 2015 il crollo del viadotto Himera sull'autostrada A19 Palermo-Catania. Nel 2014 toccò al viadotto Scorciavacche, sulla Palermo-Agrigento, sempre in Sicilia. E così via. Sulla bretella autostradale Potenza-Sicignano i crolli sono stati sventati dalla magistratura, che dopo aver sequestrato alcuni viadotti pericolanti, ha messo sotto inchiesta undici persone, tra tecnici e dirigenti dell'Anas. L'accusa: «Attentato alla sicurezza». L'andazzo, insomma, è questo.
E mentre i costi di gestione diminuiscono, perché è cresciuta l'automazione (sono quasi scomparsi i casellanti visto che il 70% degli automobilisti usa il Telepass), gli investimenti complessivi sulla rete sono crollati a 800 milioni di euro, contro una media annuale di 2,4 miliardi all'anno del periodo tra il 2008 e il 2015.
E così anche la spesa per le manutenzioni (gli ultimi dati disponibili risalgono al 2016): 7,5% in meno. Il segno meno sul capitolo degli investimenti per la sistemazione di strutture ormai obsolete, l'opacità nei contratti sulle concessioni e sulle gare e i classici lavori al risparmio in termini di tempo e denaro creano il cortocircuito. Il risultato più grave sono i crolli. Sui misteriosi meccanismi delle concessioni è andato a fondo Mario Giordano, che nel suo Avvoltoi, pubblicato da Mondadori lo scorso marzo, ha dedicato agli affaroni autostradali il capitolo «Il casello dalle uova d'oro». E lì si scopre che la concessione della A22 è stata da poco rinnovata per i prossimi 30 anni. «Fino al 2045», scrive Giordano, «quando forse viaggeremo su auto volanti e ci fermeremo al bar a prendere un caffè con gli alieni. Quando tutto sarà cambiato, insomma, tranne che per l'Autobrennero». La quale attraverso gli introiti dei pedaggi continuerà a produrre quattrini a pioggia. Ben sapendo che piove sempre nelle tasche dei soliti noti. Nel 2016 gli utili sono stati pari a 71,7 milioni. Ma potrebbero essere anche di più. È stato calcolato che mettendo all'asta per 30 anni l'Autobrennero con una gara pubblica lo Stato avrebbe potuto incassare 5 miliardi di euro. Ma ha deciso di rinunciarci. A ringraziare è la società che dal 1961, con un emendamento al decreto fiscale, la gestirà grazie alla solita trattativa privata fino al 2045.
Al gruppo Toto, invece, nessuno ha regalato 5 miliardi di euro. La cordata guidata dall'imprenditore abruzzese si è dovuta accontentare di 121 milioni. Un «Totoregalo» lo ha definito Giordano. Era la notte del 23 maggio 2017 quando nel caos della manovrina economica spuntò l'emendamento giusto: a Toto furono abbuonati i debiti con l'Anas. Sono nelle sue mani la strada dei Parchi, la società che gestisce le autostrade A24 e A25, la Roma-Teramo e la Torino-Pescara: 281 chilometri d'asfalto sui quali transitano ogni giorno 150.000 vetture. Nel 2016 i pedaggi hanno reso 164 milioni di euro. E i Gavio? Leggendo Avvoltoi si scopre che gestiscono 11 concessioni, per un totale di 1.460 chilometri di asfalto. Nell'ultimo anno hanno incassato, solo di pedaggi, 1.239.342.464 euro, cioè quasi 3,5 milioni al giorno. Guadagni quasi sicuri, rischi quasi nulli. Come per tutte le concessionarie.
Un’opera contestata da oltre mezzo secolo. Fior di ingegneri ci avevano avvertito
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Riduci
Sulle autostrade lo Stato investe poco e male, favorendo per lo più pochi gruppi con appalti non trasparenti E mentre per la manutenzione si spende sempre meno, i guadagni vanno in massima parte ai concessionariAntonio Brencich, genovese, nel 2016 aveva criticato il perenne bisogno di lavori. Franco Bontempi (La Sapienza): «Fragilità note».Un'interrogazione parlamentare del 2016 di Maurizio Rossi poneva a Graziano Delrio domande sulle condizioni del ponte Morandi. «Ma l'allora ministro del Pd non mi ha risposto».Lo speciale contiene tre articoli.Documenti di gara ridotti all'osso, trasparenza nulla nelle operazioni di gara, strane aggregazioni degli appalti e verifiche di anomalia in pieno stile trattativa privata, sono solo alcune delle opacità nei rapporti tra il concedente, che in passato era l'Anas e che ora è il ministero dei Trasporti, e le società concessionarie. Alla tanto sbandierata (dall'ex ministro Graziano Delrio) desecretazione dei contratti non è seguita un'adeguata trasparenza. Basta sfogliare le pagine offerte alla consultazione per capire subito che ci sono buchi vistosi: ossia mancano gli allegati fondamentali. Un'opacità nella quale sguazza soprattutto (ma non solo) il duopolio dell'affare autostradale, che si chiama Atlantia e Gavio. Sono le concessionarie che si occupano di quasi il 70% dei chilometri autostradali in Italia. Le percorrenze restanti, ossia un quarto della torta, sono gestite da società controllate da enti pubblici locali e da altri concessionari, come il gruppo Toto.Bankitalia ha calcolato che ogni chilometro di autostrada rende oltre 1 milione di euro. Di questi, la gran parte (850.000 euro stimati al chilometro) finisce alle concessionarie. Il ponte Morandi, sul tratto autostradale che percorre tutta la Liguria e collega Genova a Ventimiglia, è in concessione ad Autostrade per l'Italia (Atlantia, gruppo Benetton). E pur presentando da tempo pesanti carenze strutturali se lo sono fatto sfuggire dalle mani. Ora è tardi per dire che era una tragedia annunciata e toccherà all'inchiesta aperta dalla magistratura genovese (per omicidio plurimo colposo e disastro colposo) affibbiare a qualcuno le responsabilità penali. La responsabilità morale però è di chi ha creato un meccanismo nel quale la politica ora non può più tardare a mettere le mani. Perché quello di ponte Morandi non un caso unico in Italia. Lo scorso anno franò un ponte lungo la A14, tra Ancona e Loreto, provocando la morte di due persone. Nel 2016 è venuto giù il cavalcavia di Annone, in provincia di Lecco, che passa sopra la Valassina: una vittima. È del 2015 il crollo del viadotto Himera sull'autostrada A19 Palermo-Catania. Nel 2014 toccò al viadotto Scorciavacche, sulla Palermo-Agrigento, sempre in Sicilia. E così via. Sulla bretella autostradale Potenza-Sicignano i crolli sono stati sventati dalla magistratura, che dopo aver sequestrato alcuni viadotti pericolanti, ha messo sotto inchiesta undici persone, tra tecnici e dirigenti dell'Anas. L'accusa: «Attentato alla sicurezza». L'andazzo, insomma, è questo.E mentre i costi di gestione diminuiscono, perché è cresciuta l'automazione (sono quasi scomparsi i casellanti visto che il 70% degli automobilisti usa il Telepass), gli investimenti complessivi sulla rete sono crollati a 800 milioni di euro, contro una media annuale di 2,4 miliardi all'anno del periodo tra il 2008 e il 2015.E così anche la spesa per le manutenzioni (gli ultimi dati disponibili risalgono al 2016): 7,5% in meno. Il segno meno sul capitolo degli investimenti per la sistemazione di strutture ormai obsolete, l'opacità nei contratti sulle concessioni e sulle gare e i classici lavori al risparmio in termini di tempo e denaro creano il cortocircuito. Il risultato più grave sono i crolli. Sui misteriosi meccanismi delle concessioni è andato a fondo Mario Giordano, che nel suo Avvoltoi, pubblicato da Mondadori lo scorso marzo, ha dedicato agli affaroni autostradali il capitolo «Il casello dalle uova d'oro». E lì si scopre che la concessione della A22 è stata da poco rinnovata per i prossimi 30 anni. «Fino al 2045», scrive Giordano, «quando forse viaggeremo su auto volanti e ci fermeremo al bar a prendere un caffè con gli alieni. Quando tutto sarà cambiato, insomma, tranne che per l'Autobrennero». La quale attraverso gli introiti dei pedaggi continuerà a produrre quattrini a pioggia. Ben sapendo che piove sempre nelle tasche dei soliti noti. Nel 2016 gli utili sono stati pari a 71,7 milioni. Ma potrebbero essere anche di più. È stato calcolato che mettendo all'asta per 30 anni l'Autobrennero con una gara pubblica lo Stato avrebbe potuto incassare 5 miliardi di euro. Ma ha deciso di rinunciarci. A ringraziare è la società che dal 1961, con un emendamento al decreto fiscale, la gestirà grazie alla solita trattativa privata fino al 2045.Al gruppo Toto, invece, nessuno ha regalato 5 miliardi di euro. La cordata guidata dall'imprenditore abruzzese si è dovuta accontentare di 121 milioni. Un «Totoregalo» lo ha definito Giordano. Era la notte del 23 maggio 2017 quando nel caos della manovrina economica spuntò l'emendamento giusto: a Toto furono abbuonati i debiti con l'Anas. Sono nelle sue mani la strada dei Parchi, la società che gestisce le autostrade A24 e A25, la Roma-Teramo e la Torino-Pescara: 281 chilometri d'asfalto sui quali transitano ogni giorno 150.000 vetture. Nel 2016 i pedaggi hanno reso 164 milioni di euro. E i Gavio? Leggendo Avvoltoi si scopre che gestiscono 11 concessioni, per un totale di 1.460 chilometri di asfalto. Nell'ultimo anno hanno incassato, solo di pedaggi, 1.239.342.464 euro, cioè quasi 3,5 milioni al giorno. Guadagni quasi sicuri, rischi quasi nulli. Come per tutte le concessionarie.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/opacita-e-favori-agli-amici-degli-amici-cosi-il-sistema-crea-disastri-in-serie-2595911678.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="unopera-contestata-da-oltre-mezzo-secolo-fior-di-ingegneri-ci-avevano-avvertito" data-post-id="2595911678" data-published-at="1765428523" data-use-pagination="False"> Un’opera contestata da oltre mezzo secolo. Fior di ingegneri ci avevano avvertito Per alcuni era l'opera spettacolare di un genio: Riccardo Morandi, ovverosia l'ingegnere razionalista che aveva brevettato un sistema di precompressione del calcestruzzo. Per altri era soltanto un ponte vecchio, e soprattutto pericoloso. Costruito a partire dal 1963 e inaugurato il 4 settembre 1967, il viadotto di Morandi divideva i tecnici anche prima della sua caduta. Figurarsi ora. Antonio Brencich, docente di Costruzioni in cemento armato e cemento armato precompresso all'università di Genova, era da tempo fra i critici più severi. Due anni fa, aveva lanciato i suoi strali sul lungo viadotto, contestandone la qualifica di capolavoro e definendolo (testualmente) «un fallimento»: «Quell'opera», aveva dichiarato Brencich, «ha presentato aspetti problematici fin da subito. Era stata sbagliata la valutazione della viscosità del calcestruzzo, e questo ha reso non perfettamente orizzontale il piano viario del ponte. Ancora nei primi anni Ottanta, chi lo percorreva era costretto a fastidiosi alti e bassi: solamente ripetute correzioni hanno creato le attuale accettabili condizioni di semiorizzontalità». A Brencich era stato chiesto (per la cronaca, la data dell'intervista era il 19 luglio 2016) se esistessero problemi di stabilità. Il tecnico si era schermito con la solidarietà di categoria: «Della manutenzione si occupano altri ingegneri», aveva risposto, «e penso non ci siano problemi». Ma poi aveva anche ricordato che negli anni Novanta erano stati necessari «lavori enormi». In particolare, su una delle tre campate del ponte Morandi gli stralli erano stati affiancati da nuovi cavi. «Quell'intervento», aveva concluso Brencich, «era indice di una corrosione più elevata e più veloce del previsto». Un ponte deve durare almeno 70-100 anni, aveva ricordato l'ingegnere; se dopo 30 si rende necessario un rifacimento così imponente, qualcosa non va. Brencich aveva anche gettato una luce inquietante sul futuro del ponte: avrebbe dovuto essere «sostituito», aveva detto, «quando la manutenzione costerà più della sua sostituzione». E a quel punto l'ingegnere aveva segnalato un dato allarmante: alla fine degli anni Novanta, dopo appena un trentennio di vita, la spesa nella manutenzione del viadotto aveva già raggiunto «l'80% del suo prezzo di realizzazione». Decisamente troppo. Più clemente, se non nei confronti dell'opera sicuramente almeno verso il suo progettista, è uno dei massimi esperti italiani di tecnica delle costruzioni: il professor Franco Bontempi, docente alla Sapienza di Roma. «Non conosciamo ancora i motivi del crollo», dice alla Verità, «ma va riconosciuto che il viadotto Morandi era un tipico ponte concepito negli anni Sessanta: bello ed elegante, un capolavoro strutturale. Mezzo secolo fa, però, si dava grande attenzione all'equilibrio delle strutture, mentre si sottovalutavano i loro movimenti, e anche la corrosione. Soprattutto, si pensava che il calcestruzzo fosse un materiale eterno. Invece nel ponte si crearono presto fessurazioni. E va riconosciuto che la struttura aveva sue effettive fragilità di congruenza, cioè nel campo che attiene a deformazioni e spostamenti». Anche Pier Giorgio Malerba, docente del Politecnico di Milano e tra i massimi tecnici di ponti, in qualche modo «difende» la memoria del progettista Morandi: «Dopo mezzo secolo, è facile criticare. Ma negli anni Sessanta i calcoli venivano fatti ancora con il regolo a mano, e perfino quando si disponeva di macchine avveniristiche una divisione poteva durare 30 secondi». Ma lo stesso Malerba riconosce la vulnerabilità e i punti deboli della struttura crollata: «Le campate, come in tutti i ponti dell'epoca costruiti con quella tecnica, erano tenute da pochi tiranti. Ma anche questo è un potente fattore di fragilità: perché ne “parte" uno, e tutto cade. Oggi invece gli stralli sono decine, si compensano tra loro, e sono realizzati in resistentissimi trefoli d'acciaio». Gli stralli del viadotto genovese, invece, erano stati fatti in calcestruzzo precompresso, proprio la tecnologia ideata da Morandi. «Ma circa 25 anni fa, su una campata del viadotto, quegli stralli erano stati disattivati», conferma Malerba, «ed era stato creato una specie di esoscheletro per rafforzarli». Così il problema si sposta inevitabilmente sulla manutenzione. E a leggere la storia anche recente del ponte crollato emerge con piena evidenza che interventi e rifacimenti erano praticamente continui. Proprio ieri, subito dopo il disastro, Autostrade per l'Italia ha comunicato che «erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto» e che era stato installato anche un carro-ponte «per consentire lo svolgimento delle attività di manutenzione». E sempre di recente, lo scorso 3 maggio, Autostrade per l'Italia aveva annunciato l'ennesima ristrutturazione. Sul sito della società si legge che la spesa per le opere stradali appaltate «a procedura ristretta» ammonta a 20,1 milioni di euro: per l'esattezza, 14.758.000 euro per «lavori parte a corpo e parte a misura» e 5.401.000 euro «per oneri di sicurezza, non soggetti a ribasso». Le domande di partecipazione alla gara, si legge, «dovranno pervenire entro l'11 giugno 2018». È da ipotizzare che, soltanto due mesi dopo, le procedure per avviare quell'appalto non fossero ancora state concluse. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/opacita-e-favori-agli-amici-degli-amici-cosi-il-sistema-crea-disastri-in-serie-2595911678.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-senatore-disse-i-giunti-cedono" data-post-id="2595911678" data-published-at="1765428523" data-use-pagination="False"> Il senatore disse: «I giunti cedono» Nella sua interrogazione era contenuta una denuncia che è caduta nel vuoto, ma è stata profetica. È finita in un limbo, al Senato, senza alcuna risposta. Snobbata. Il 28 aprile 2016 il senatore genovese Maurizio Rossi, imprenditore, titolare dell'emittente locale Primocanale, aveva messo nero su bianco quello che doveva suonare come un campanello d'allarme: «Recentemente il ponte Morandi è stato oggetto di un preoccupante cedimento dei giunti che hanno reso necessaria un'opera straordinaria di manutenzione senza la quale è concreto il rischio di una sua chiusura». Il suo commento, al telefono con La Verità proprio mentre in auto sta rientrando nella sua Genova, è amaro: «Il ministro Graziano Delrio non mi ha mai risposto». Era una grande occasione per avviare controlli specifici. Il senatore Rossi è da sempre un sostenitore della Gronda, la nuova infrastruttura autostradale di 61 chilometri che doveva cambiare completamente registro al traffico del nodo genovese e scaricarlo, «sgrondarlo», dalla quota molto rilevante che, in realtà, oggi passa da Genova diretta a Nord o a Ponente. La Gronda avrebbe sgrondato dal traffico extraurbano proprio il tratto della A10 che comprende il ponte Morandi (libero da pedaggio) e che è decisamente sovraccaricato. E quindi il senatore Rossi, solo qualche mese dopo, è tornato alla carica, questa volta in Commissione: «Abbiamo un ultimo punto, il ponte Morandi, il ponte autostradale sopra Genova. Voi purtroppo sapete che ne è crollato uno recentemente. Quando si vedono 100 tir in coda su quel ponte viene da chiedersi per quanti anni potrà reggere?». Fu proprio durante una discussione nella trasmissione Macaia di Primocanale che il Comune in qualche modo ammise di essere a conoscenza dei problemi del ponte Morandi: un ex assessore ricordò in diretta tv di quando, per motivi di stabilità vennero aggiunti gli stralli, i tiranti, le parti più scenografiche che conferivano al ponte quell'aria vagamente americana. Ma che servivano in realtà per tenerlo in piedi. Da allora la tv di Rossi si è occupata delle difficoltà della viabilità genovese e del ponte centinaia di volte. E la questione del ponte era all'ordine del giorno. «Fummo i primi», ricorda il senatore, «a intervistare un ingegnere che già parlava di pericoli». «La situazione di Genova», aggiunge, «la conosco estremamente bene e purtroppo la criticità del ponte Morandi ci è nota da sempre. È stato realizzato quando i traffici non erano abbondanti come adesso. Sono aumentati di centinaia di migliaia i tir che attraversano la città e su quel viadotto si vedevano spesso le code ferme». E ricorda ancora una volta che «il progetto della Gronda, fermo da 18 anni, avrebbe dovuto risolvere questo snodo fondamentale: sul ponte Morandi, ora crollato, passava tutto il traffico, soprattutto quello commerciale, in arrivo dalla Francia e da Savona verso Genova, e da lì sia in direzione Milano, sia giù per la costa tirrenica verso La Spezia e Roma. Immagina di che mole stiamo parlando?». Messa in archivio la profezia, ora, resta la rabbia: «Si pensi che la Gronda è stata approvata nel 2001. C'è da chiedersi perché non si sia voluto capire per tempo la necessità di costruire un'alternativa».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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