Un'azienda tessile a Prato (Getty Images)
A Prato proliferano le imprese del Dragone. Il loro obiettivo è uno solo: produrre di più, più in fretta e spendendo meno. Si evade il fisco e si risparmia in sicurezza, pagando 2 euro l’ora. Italiani senza scrupoli affittano i capannoni chiedendo la «buona entrata».Il sindacalista: «Lo sfruttamento colpisce pakistani e africani. Nessuno denuncia».Il comandante provinciale della Gdf: «Approvvigionamento di materie prime, manodopera in nero, profitti illeciti per alterare il distretto tessile. Le aziende aprono e chiudono con la complicità dei colletti bianchi».L’imprenditore: «Alla Camera di commercio iscritte 7.000 aziende orientali, ma noi rifiutiamo chi non rispetta il codice etico. La presenza asiatica produce gravi danni».Lo speciale contiene quattro articoli.I panni sporchi si lavano in famiglia. Soprattutto nel distretto parallelo di Prato, dove accanto alle eccellenze vi sono realtà imprenditoriali, per lo più di matrice cinese, che realizzano i loro «panni» in barba a ogni regola. L’unico obiettivo è produrre di più, più velocemente, spendendo meno. Come? Evadendo il fisco, abbassando ogni parametro di sicurezza, aumentando le ore di lavoro e diminuendo la paga, facendola sprofondare fino a 2 euro l’ora. Un unicum, quello di Prato, dove esiste una città nella città, in cui si concentrano le imprese non Ue che rappresentano il settore trainante del manifatturiero a titolarità straniera. Non a caso, la regione italiana con più alta incidenza di aziende straniere è la Toscana (14,4%). E la provincia con la più alta percentuale di imprenditorialità non Ue (prevalentemente cinese) è Prato (30,6%), in particolare nel settore manifatturiero, nel quale il 58,1% delle aziende è a conduzione extra-europea. Seguono quelle del commercio all’ingrosso e al dettaglio (26,5%) e nel settore delle costruzioni (12,8%). Si tratta di un territorio dov’è storicamente presente una folta comunità di persone provenienti dal gigante asiatico. A Prato un abitante su cinque è di origine straniera e uno su 10 è cinese. Accanto al distretto pratese ne è cresciuto uno parallelo cinese: il pronto moda a Prato e nel distretto toscana Nord, non solo parla, ma «agisce» cinese. Il distretto dell’abbigliamento low cost di Prato è il prodotto della più grande comunità cinese d’Italia in rapporto agli abitanti, che oggi conta 4.938 aziende concentrate nel settore manifatturiero. Realtà che aprono e chiudono a ritmo vertiginoso e che in larga parte sfruttano la forma giuridica della ditta individuale. Le imprese straniere più rappresentate in Italia, per cittadinanza, provenienza geografica e appartenenza, sono infatti cinesi e vivono mediamente appena due anni. Di conseguenza, il sistema organizzato di illegalità cinese ha attirato da tempo la criminalità organizzata.In questo contesto le vittime si trasformano in carnefici e acquisiscono forza e liquidità a scapito dei lavoratori che vengono sfruttati e che di lavoro spesso muoiono. Lavoro in nero, sfruttamento, caporalato, risparmio sulle misure di sicurezza sono parte integrante del meccanismo di estrazione di valore che permette a questo distretto «d’eccellenza» di fare profitto. E in questa fitta rete di illegalità va inserita anche la mano italiana.Nel circuito malsano entra, senza troppa fatica, il sistema della buona entrata: una mazzetta che l’imprenditore cinese si vede spesso chiedere e che paga in contanti senza troppa resistenza. La «buona entrata», una pratica tutta pratese prevede un cospicuo esborso in contanti e in nero da parte del confezionista cinese che voglia prendere in affitto un capannone; in particolare nel macrolotto di Iolo o a Tavola, i più ambiti, dove operano i confezionisti e gli imprenditori più facoltosi. Oltre alle «voci» iniziano a fioccare anche le denunce. È accaduto a un confezionista, difeso dall’avvocato Tiziano Veltri, il cui zio avrebbe versato nel 2017 al proprietario italiano del capannone 400.000 euro di buona entrata (estorsione consumata) per poi sentirsi richiedere, nel 2021, la stessa cifra per rientrare nel capannone dopo uno sfratto reso esecutivo per il mancato pagamento di tre mensilità (tentata estorsione). C’è poi la denuncia di un altro imprenditore assistito dall’avvocato Giuseppe Mastro. Stessa logica: 120.000 euro in contanti portati in un sacco nero direttamente nell’ufficio del proprietario dell’immobile. Quindi, lo sfratto e la perdita della somma versata a titolo di buona entrata, di cui non rimane traccia. «La conseguenza di iniziare un’attività con questo tipo di investimento», spiega Mastro, «determina che i soldi vengono presi da qualche altra parte, ecco perché spesso si consumano i reati di evasione fiscale e sfruttamento dei lavoratori». A Prato la forza messa in campo dopo i sette operai morti nel rogo della confezione Teresa Moda (era il 2013) è impensabile in altre realtà italiane. Gli ispettori Asl del progetto Lavoro sicuro destinati alla provincia di Prato sono 44. Devono occuparsi dalla sicurezza alle violazioni di tipo amministrativo, fino al lavoro nero: non c’è una ditta controllata nel distretto industriale di Prato che sia completamente in regola. Ad aprile di quest’anno, il 100% delle imprese controllate dalla task force contro lo sfruttamento lavorativo e il caporalato dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), sono risultate non in regola. A marzo in una maxi operazione nel distretto Prato-Pistoia, sono state trovate una quindicina di ditte manifatturiere cinesi sconosciute al fisco e agli enti previdenziali. I luoghi di lavoro all’interno dei capannoni erano stati adattati anche a dormitori: addirittura 100 i «loculi» contati dagli investigatori, con evidenti carenze non solo in ambito lavoristico, ma anche in materia igienico-sanitaria e di prevenzione incendi. Nel corso delle ispezioni sono stati individuati ben 53 lavoratori di nazionalità cinese sprovvisti di permesso di soggiorno. Cinque i provvedimenti di sospensione ad altrettanti datori di lavoro, per un importo complessivo di 70.000 euro.L’azienda cinese di abbigliamento pronto moda che ha preso fuoco nel 2013 a Prato, con il suo scrigno nascosto di lavoratori, è una delle tante imprese orientali attive nella filiera delle confezioni a basso costo che, in poco più di vent’anni, hanno dato vita nella città toscana all’unico distretto etnico d’Italia alimentato dall’evasione fiscale e dallo sfruttamento della manodopera clandestina che pesa, e non poco, sul sistema Italia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ombre-gialle-2657462063.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="fuggono-la-fame-e-si-ritrovano-a-fare-gli-schiavi" data-post-id="2657462063" data-published-at="1654508639" data-use-pagination="False"> «Fuggono la fame e si ritrovano a fare gli schiavi» Mirko Zacchei, segretario generale Femca Cisl Firenze e Prato, aiuta a capire se e come è cambiata la pelle degli sfruttatori e degli sfruttati in un’area particolare, come quella del distretto parallelo pratese. Che cosa c’è alla radice dello sfruttamento? «In ogni settore, ma soprattutto nell’ambito del fast fashion, c’è l’idea del risparmio, un dumping contrattuale e di diritti che crea un danno alle aziende che stanno nelle regole. Si tratta di una piaga che non risparmia nessuno. Le aziende traggono vantaggio produttivo sulle spalle dei lavoratori e della comunità. Non si tratta solo di un problema di orari di lavoro, ma anche e soprattutto di salute e sicurezza. Il problema nasce però da chi commissiona e acquista merce a basso costo sapendo che per ottenere quei costi ci sono compromessi tacitamente accettati». Chi sono i sottoposti? «Gli ultimi fenomeni che noi viviamo dimostrano che i nuovi schiavi non sono solo cinesi (nella comunità cinese è molto difficile far emergere il problema dello sfruttamento perché nessuno denuncia), ma i datori di lavoro ora sfruttano anche i pakistani, i nigeriani, i somali…». Quindi ci sono persone che fuggono dalle guerre e si trovano schiavi del lavoro in Italia? «Sì, oppure accettano di fare questi sacrifici per un periodo. Spesso queste persone hanno bisogno di un lavoro per rimanere in Italia e per non correre il rischio di tornare nel proprio Paese, e dunque tollerano logiche di sfruttamento al limite dell’umano. Questa è una delle fonti di cui si alimentano queste aziende che così possono produrre molto e spendere poco». Perché non denunciano? «Questo è il problema. Nel 2021 abbiamo firmato un protocollo con la Regione e tutte le forze sociali, per cercare di fermare lo sfruttamento e garantire tutele a chi denuncia, garantendo soprattutto un processo in tempi brevi, creando una rete di protezione attorno a chi denuncia». Come hanno risposto i lavoratori sfruttati? «Non bene quanto volevamo. Però qualcosina si sta muovendo. Il vero problema è che le irregolarità emergono nel momento in cui le aziende vengono controllate. A quel punto viene elevata una sanzione, che in termini economici incide relativamente poco anche perché il proprietario sanzionato, magari giorni e non mesi dopo, riprende a lavorare da un’altra parte, e a sfruttare ancora di più per rientrare dell’ammanco versato». Cosa va fatto? «Intensificare i controlli e intervenire quando le aziende sono attive, ad esempio di notte. I brand devono controllare la filiera e i subappalti e rispondere davanti alla legge di cosa fanno nelle aziende terziste. È un tema che va affrontato con più armi, non c’è una soluzione semplice. Prato è un microcosmo su cui il livello nazionale politico dovrebbe anche porre attenzione, da una parte studiare e dall’altra sostenere: non possiamo essere il fiore all’occhiello del made in Italy e della sostenibilità a giorni alterni». Cos’altro? «Non abbandono l’idea del dialogo: con queste persone e con questo sistema occorre creare relazioni, bisogna parlarci, bisogna trovare il modo di educarle alla legalità: anche l’attualità ci insegna che si può fare la guerra ma non per sempre perché alla fine perdono tutti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ombre-gialle-2657462063.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-triangolazione-delle-irregolarita-che-stravolge-i-prezzi-e-il-mercato" data-post-id="2657462063" data-published-at="1654508639" data-use-pagination="False"> «La triangolazione delle irregolarità che stravolge i prezzi e il mercato» Prato rappresenta un unicum e una vera palestra per chi, ogni giorno, presidia il territorio, cercando di portare anche il distretto parallelo del tessile cinese di Prato sulla strada della legalità, anche sotto l’aspetto economico e finanziario. Ne abbiamo parlato con il comandante provinciale della guardia di finanza di Prato, il tenente colonnello Massimo Licciardello. Dai controlli interforza ai reati contestati: cosa è cambiato nel distretto parallelo cinese? «Nel distretto parallelo cinese, più che in altre aree, riscontriamo un elevato tasso di attività illecite che partono dal sistema delle ditte apri e chiudi che possiamo definire come strumentali a tutta una serie di operazioni illecite». Può spiegarci il sistema? «Si tratta di imprese il cui utilizzo è non di rado strumentale all’evasione fiscale e contributiva, all’emissione di fatture per operazioni inesistenti, alla contraffazione, al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, al riciclaggio e al trasferimento all’estero di proventi illeciti. Soggetti economici che spesso si rivelano scatole vuote, senza alcuna struttura o organizzazione. Altre volte sono destinati a essere sostituiti in tempi brevi da altre analoghe imprese che, sotto nuove e immacolate vesti, continuano a operare nell’illegalità sottraendosi a responsabilità penali e a pretese erariali». Quello delle ditte apri e chiudi non è il solo metodo illecito ai danni dell’erario. «No. Si consideri, a questo proposito, che tutto quello che è frutto di evasione fiscale, sfruttamento del lavoro, evasione contributiva, quotidianamente viene trasferito dal nostro Paese verso Oriente, che comporta un chiaro depauperamento delle nostre risorse economiche. In molti casi i tessuti provengono dalla Cina ed entrano in territorio europeo attraverso i porti della Slovenia e della Grecia, passano per società ungheresi o di altri Paesi dell’Est europeo riconducibili a cittadini cinesi, e poi ripartono per Prato: questa triangolazione consente di attuare grosse evasioni dell’Iva». In questa palude di illegalità può rientrare la pratica della buona entrata? «Sì, è una peculiarità del distretto parallelo pratese. Anche in questo caso si tratta di importanti risorse sottratte alla tassazione in cui i cinesi sono le vittime». Nelle azioni delittuose, si può parlare di complicità tra illegalità cinese e colletti bianchi? «Sì. Alcune inchieste lo hanno dimostrato. Quando un imprenditore cinese sceglie la strada sbagliata conta sempre su professionisti, spesso italiani ma non solo. Sono tre i canali su cui questo fenomeno si sviluppa: approvvigionamento delle materie prime, l’impiego di manodopera irregolare e il capitale che viene generato dall’attività». Qual è la forza di imprese che operano in modo illegale? «Quella di potersi imporre nel mercato, nel settore dell’abbigliamento a livello europeo offrendo prodotti a prezzi assolutamente competitivi». Per farlo a cosa devono rinunciare? «Il prezzo competitivo è frutto di una serie di attività illecite. Però ancora più importante, come presupposto, è l’approvvigionamento delle materie prime che provengono dalla Cina. Nella maggior parte dei casi giungono a Prato attraverso la cessione della merce con operazioni intracomunitarie alle ditte italiane della provincia di Prato. Offrono prodotti finali a prezzi che sono impraticabili per chi rispetta le regole». Quali sono le ultime operazioni effettuate ? «Abbiamo sequestrato 727.000 rotoli di tessuto (pari a circa 170 milioni di metri quadri) nonché 580.000 rocche di filato, per un valore che si aggira sui 50 milioni di euro. La quasi totalità dei rotoli di tessuto accatastati nei depositi è risultata sprovvista delle previste etichette e dei contrassegni, nonché dei dati identificativi . Oltre a costituire un illecito amministrativo in materia di sicurezza, l’origine dei tessuti è spesso propedeutica ad altre violazioni connesse all’illegittimo approvvigionamento delle materie prime, non di rado provenienti dall’Oriente in contrabbando o in evasione dell’Iva. Qualche settimana fa abbiamo sequestrato 1,5 milioni di metri di tessuto di diversa tipologia, per un valore di oltre 2,6 milioni di euro. In questo caso i diritti di confine e l’Iva all’importazione evasi ammontano a poco meno di 1 milione di euro. Nel corso di una terza operazione abbiamo sottoposto a sequestro 8,7 milioni di metri di tessuto di diversa tipologia, proveniente dalla Cina, per un valore di circa 12 milioni di euro. I diritti di confine e l’Iva all’importazione evasi ammontano, rispettivamente, a 1 e 2,5 milioni di euro». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ombre-gialle-2657462063.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="in-confindustria-un-solo-cinese" data-post-id="2657462063" data-published-at="1654508639" data-use-pagination="False"> «In Confindustria un solo cinese» Il distretto di Prato oggi è la più grande concentrazione manifatturiera cinese del Belpaese, che continua a crescere nonostante la crisi e che si affianca, con scarsi punti di contatto, allo storico distretto tessile pratese, votato alla produzione di tessuti e filati e più recentemente anche sull’abbigliamento e tradizionale locomotiva dell’economia cittadina. È un’eccellenza del made in Italy su cui pesa la presenza e l’insistenza del distretto parallelo cinese, con il quale ha in comune solo la posizione geografica. Lo sa bene Francesco Marini, componente del comitato di presidenza di Confindustria Toscana Nord. Quanto nuoce al sistema pratese la presenza cinese? «In termini di fatturato e lavorazione poco, in termini di reputazione e di lavoro scorretto molto, soprattutto per noi che in Confindustria rifiutiamo anche quegli italiani che non rispettano il nostro codice etico e che, dalle verifiche, non sono in linea con gli impegni che devono assumere». Cosa significa? «Significa che delle oltre 7.000 aziende cinesi iscritte alla Camera di commercio pratese, solo una fa parte di Confindustria e questo fa capire immediatamente la differenza tra il sistema pratese e quello parallelo». Qual è il peso di chi fa impresa illegale rispetto a chi segue un codice etico? «Prato, va ricordato, è il distretto tessile più importante d’Europa, un’eccellenza da oltre mille anni. Accanto, dagli anni Novanta, è nato il distretto parallelo cinese che fa altro rispetto al Pratese e spesso viene confuso. Quello cinese non ha con noi punti di incontro, intendo con il nostro mondo tessile: chi vende tessuti non li vende alle confezioni cinesi a Prato ma li vende ad altri clienti. Noi vendiamo eccellenza, loro fast fashion. Nel caso cinese, si parla soprattutto di pronto moda e di un mercato a basso valore aggiunto. Il nostro, invece, punta a livelli alti e ha costi differenti… Parliamo di grandi e importanti griffe. Il problema è soprattutto quello di uno sviluppo del distretto a due velocità e con metodologie di lavoro opposte». Quanto incide e quanto ha inciso anche sul mercato italiano? «Dopo il rogo del 2013, nel quale morirono dei clandestini cinesi, il distretto pratese ha deciso, anche attraverso un’azione sinergica con la Regione, le associazioni di categoria e i sindacati, di fare una sorta di tutoraggio sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, perché all’inizio mancavano, nelle realtà del distretto parallelo, le regole base. Adesso le cose vanno un po’ meglio ma ancora non è abbastanza. Stiamo cercando di fare un’operazione culturale, di far capire che oltre alla sicurezza e al rispetto del lavoratore, c’è anche tutta la parte di regolarità contributiva». A parte le irregolarità nell’ambito lavorativo e della sicurezza, incide negativamente anche l’importazione o l’utilizzo magari di filati o materiali che non sono tracciati? «Certo. Spesso loro importano i tessuti, importano i filati, hanno le loro rifinizioni, le loro stamperie e rivendono il prodotto attraverso quella confezione, creando un indotto a circuito chiuso che difficilmente tocca il nostro. Le mancate dichiarazioni su filati e tessuti fa porre dubbi sul fatto che siano prodotti sani e salubri. In questo ci verranno in aiuto, nei prossimi anni, le nuove regole europee sul tessile e abbigliamento. Si parla di passaporto digitale del prodotto: un aiuto per i consumatori che si recano in negozio che possono distinguere un prodotto che ha una filiera sana da quello che non ha una certezza di tracciabilità. Bisogna dare i mezzi al consumatore per scegliere. Sono convinto che nel futuro, grazie a regole e grazie a misurazioni di sostenibilità standardizzate, comprensibili per il consumatore finale, le differenze che ci sono adesso potranno assottigliarsi, perché chi lavora male dovrà per forza adeguarsi».
Cristian Murianni-Davide Croatto-Andrea Carulli