2020-11-20
Ruggeri: «Io, aristocratico del dissenso, non baratto
la mia libertà con la salute»
Enrico Ruggeri (Getty images)
Il cantautore e scrittore: «“Pensa alla salute" è un monito subdolo perché ti fa rimanere zitto e buono. Ma se fossimo stati sempre allineati non avremmo avuto nemmeno il 25 aprile e “Bella ciao". Ho usato il punk per scandalizzare la sinistra borghese di Milano».Parte piano il nuovo swing in Un gioco da ragazzi, l'ultimo libro scritto da Enrico Ruggeri: un uomo e una donna sotto la pioggia in un cimitero. «Mi raccomando, non spoileriamo troppo» e ride nell'usare, parodisticamente, un neologismo ( esterofilo 2.0. Ruggeri - 63 anni, cantautore, musicista, scrittore, conduttore radiotelevisivo, 35 album e due vittorie al festival di Sanremo - è arrivato al suo sesto romanzo prima del previsto: «Quando mi sono ritrovato recluso in casa per il lockdown, avevo a disposizione almeno sei ore al giorno per scrivere, così mi sono portato avanti».Allora il lockdown a qualcosa è pure servito, visto che lei ha avuto parole di fuoco contro la «retorica dell' #iorestoacasa»«Aggiungiamo pure #andràtuttobene e #neusciremomigliori, tutti sui balconi a fare una cantatina, oppure in diretta ma solo sui social, una società che ha barattato la libertà con un'idea rassicurante e confortevole di salute».Non la facevo negazionista.«Io non nego nulla. È chiaro che c'è stata e c'è un'emergenza, ma non essendo uno degli innumerevoli virologi (ormai si moltiplicano per partenogenesi), mi astengo dal parlare del virus. Anche se poi mi chiedo se non potevamo prepararci un po' meglio, a livello di sanità, se non nella prima ondata, almeno nella seconda, visto che avevamo sperimentato la precedente. Basta vedere cosa ha combinato il governo in Calabria...».Puro avanspettacolo da Ambra Jovinelli, il mitico teatro romano.«Bernard-Henry Lévy ha scritto che il virus ci ha reso folli. Bene: la nostra follia è stata accettare la logica di controllo imposta dal Palazzo di pasoliniana memoria a livello globale. Tutti allineati e coperti, asserragliati tra le nostre quattro mura, dissenso azzerato - non sia mai ci scappasse la perdita di qualche follower o di qualche like sui social -, nessuna possibilità di dire la propria, o di abbozzare una riflessione alternativa. Ma io sono un essere umano, non lo scarafaggio de La Metamorfosi di Kafka».Intubato in terapia intensiva la vedrebbe allo stesso modo?«Domanda che sottintende un ricatto emotivo. E allora replico: sì, perfino in punto di morte per Covid 19 le risponderei così. “Pensa alla salute" è sempre stato un invito che mi fa accapponare la pelle, non perché non sia giusto, ma perché è un monito subdolo: “Stai zitto e buono, non ti esporre, metti la testa sotto la sabbia, accetta tutto in nome della sopravvivenza". Ma se così fosse, la storia sarebbe rimasta al palo. E non ci sarebbero neppure stati il 25 aprile e Bella Ciao».E mo' che c'entrano?«Se i partigiani avessero “pensato alla salute", avrebbero detto loro “ciao" alla Resistenza, non sarebbero andati in montagna a rischiare o a rimetterci la vita. E poi: se perfino il superconsulente del governo Walter Ricciardi ha bollato, in un documento Oms, il lockdown come “misura di cieca disperazione" - cioè: tiriamo su il ponte levatoio, chiudiamoci nel castello come nel medioevo, aspettando che la peste passi - significa che non siamo messi benissimo».Tutte affermazioni che alimenteranno la leggenda di Ruggeri «bastian contrario».«Perché mi ostino a ragionare con la mia testa, non seguendo la corrente - qualunque corrente, sia chiaro - solo perché “vuole così la maggioranza", che poi non è vero: si sentono solo le minoranze strepitanti, come sui social di cui sopra, dove ciascuno è chiuso nella propria comfort zone, cerca e rilancia solo i messaggi che rispecchiano le proprie convinzioni o i propri pregiudizi, mai il tentativo di andare dall'altra parte del muro a vedere cosa c'è. Perché in realtà si ha paura di scoprire che oltre alla propria fazione rumorosa, c'è magari una maggioranza silenziosa che giudica in modo diverso». «Maggioranza silenziosa» è espressione che rimanda agli anni di piombo, quindi a questo suo ultimo romanzo. La storia di due fratelli divisi dalle barricate ideologiche nella stagione degli opposti estremismi. «Ho frequentato il liceo Berchet di Milano, l'istituto più caldo d'Italia negli anni Settanta. Alla notizia dell'assassinio del commissario Luigi Calabresi partì l'applauso corale, anche dei professori. Nell'aula accanto alla mia, c'erano due che si chiamavano Marco Barbone e Paolo Morandini, che nel 1980 ammazzeranno Walter Tobagi. Figli della meglio borghesia editoriale, illuminata e di sinistra. L'ambiente, i personaggi, o meglio: i personaggetti, erano quelli. Il più perbene era Gad Lerner». Invoco il quinto emendamento perché se commentassi mi autoincriminerei. «Per dire del clima: io mi mettevo i Ray-ban perché li usava Lou Reed. Solo che quegli occhiali erano identificati come di destra. Sa quante volte me li sono dovuti togliere per far verificare che erano lenti da vista?».Poteva schitarrare anche lei sul proletariato in lotta, come molti cantautori, anziché fare il punk. «Non ho mai voluto omologarmi e essere omologato. Mi rifiutavo di ossequiare l'establishment che, opprimente come una cappa, all'epoca governava Milano. Siccome suonavo e non m'interessavo di politica - io volevo scandalizzare i benpensanti borghesi, épater les bourgeois, ma fuori dalla camicia di forza delle ideologie, solo con la musica - già questo bastava per farmi incasellare come di destra». Forma mentis radicata: se non sei di sinistra sei automaticamente un fascista.«Appunto. Io venni minacciato perché avevo i dischi di David Bowie, e ho detto tutto. In più, quegli artisti -lui, Lou Reed, i Roxy Music - vestivano in modo appariscente, scorrazzavano su belle macchine, oggi li definiremmo glam. Ma il dandismo, mischiato all'ambiguità sessuale, non piaceva alla sinistra militante, più sessuofoba e omofoba di quanto sia stata la destra negli anni successivi». Addirittura...«Ai miei primi concerti le femministe volevamo tirarmi giù dal palco perché secondo loro il mio modo di aggrapparmi all'asta del microfono, che era un po' la mia coperta di Linus, costituiva una manifestazione fallocratica». L'idiozia come contropotere. Lei per distinguersi si fece biondo, con occhiali dalla montatura bianca. Un alieno.«E difatti uno, per guardarmi, ha tamponato l'auto che lo precedeva, quando corso Vittorio Emanuele a Milano non era ancora zona pedonale».Lei e i Decibel avete fatto irruzione sulla scena musicale con una fake news.(ride) «Lo show fantasma. Riempimmo Milano di manifesti che annunciavano un nostro concerto punk in un locale chiamato la Piccola Broadway».Tutto finto. Bei bufalari.«La sera del non-evento ci godemmo la scena dalla terrazza di un amico. Da una parte arrivarono 200 o 300 punk, dall'altra i miliziani di Avanguardia Operaia: finì a botte, com'era prevedibile. Il giorno dopo i giornali parlavano di disordini al concerto dei Decibel e noi avevamo la fila di discografici disposti a produrre il nostro primo album, cosa che avvenne un paio di mesi dopo».I suoi genitori come la presero? Un figlio musico, e pure punk. «Vengo da due famiglie nobili e ricche che hanno pensato di perdere tutto quando sono venuto al mondo io. Mia madre, insegnante di musica, tutti i giorni tirava su le tapparelle ripetendo: “Questa casa non è un albergo". Ma non ha mai interferito. Anzi: fu orgogliosa di vedermi a Sanremo nel 1980, l'essere su quel palco certificava che non ero un fallito».Cantaste Contessa. Qualcuno insinuò: «Si riferiscono a Renato Zero», e i sorcini insorsero. «Non c'entrava nulla, ma l'accostamento faceva parlare, era tutta pubblicità e non mi dispiaceva, così non smentii». Ringrazi che Il Fatto Quotidiano non c'era ancora, sennò il suo direttore - che si diletta con il repertorio di Zero al karaoke - l'avrebbe messa in croce. I rapporti con suo padre, invece?«Mio padre era come se non ci fosse, stava a casa tutto il giorno in pigiama, veniva reputato eccentrico, oggi forse diremmo che era depresso. Però una volta mi spiazzò: venne a un mio concerto. Non me lo confessò né prima né poi, l'ho scoperto solo anni dopo. E il ricordo ancora mi commuove».Comunque anche questo ha incentivato il suo furore e la sua volontà di farcela. Anche economicamente. «Dalla mia famiglia ho ereditato il disprezzo del denaro tipico dei ricchi e la rabbia dei poveri. Per fortuna negli anni d'oro di soldi ne ho fatti tanti, sprecandone altrettanti». Pure in cocaina. «Meno di altri, ma sì, in quegli anni era difficile evitare le tentazioni, sniffavano tutti. Ciò che mi dà fastidio oggi è immaginare il coglione che vedendomi magari in tv, dà di gomito al vicino: “Io con Ruggeri ho tirato di coca". La droga ti fa ritrovare con persone con cui non hai nient'altro da condividere, tutto tempo sprecato».Già, è il problema di noi sessantenni. Come dice Jep Gambardella ne La Grande bellezza: «La più consistente scoperta dei miei 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare». «Esatto, e siccome noi ci pensiamo eterni ma in realtà, non sapendo (con tanto di scongiuri) quanto tempo abbiamo ancora a disposizione, sarebbe meglio investirlo bene. Facendo le cose in cui si crede. Nel mio caso, quando posso: musica, libri, radio, tv. Ma sempre a modo mio». My way, per dirla con Frank Sinatra.«Sì, ma nella versione di Sid Vicious». Così in chiusura la dovrei dipingere come «l'eterno punk». Invece le lascio il compito: la definizione che meglio la rappresenta? «Un aristocratico del dissenso».Non un influencer?«Per carità. Sono cresciuto quando gli influencer si chiamavano Ennio Flaiano e Pasolini. Oggi sono Cristiano Ronaldo, Chiara Ferragni e quello che ti insegna a impiattare la verza. Capisce? Non è che non vorrei, è che non me lo posso permettere».
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)