L’uomo, senza biglietto, voleva evitare la multa. A parti invertite (controllore autoctono su passeggera) fu contestato l’abuso.
Molestatori di tutto il mondo: venite in Italia. Se provvisti della pigmentazione giusta, potrete sbizzarrirvi. Pare essere questa l’atroce morale che è possibile trarre da una recente sentenza che arriva dal Veneto, dove un nigeriano che ha molestato una capotreno è stato assolto perché in fondo baciare con la forza un’estranea non è tutto questo dramma.
I fatti risalgono all’ottobre 2023: una capotreno, dipendente di Trenitalia, sta effettuando un controllo biglietti di routine su un treno regionale mentre il convoglio si trova nel territorio di Meolo, Comune della città metropolitana di Venezia. Alla vista del controllore, un trentenne di origini nigeriane, regolare in Italia e lavoratore dipendente (alla faccia delle bufale sull’integrazione che limiterebbe certi comportamenti), cerca di allontanarsi, cambiando carrozza e addirittura scendendo in varie stazioni e risalendo su altri vagoni. Quando finalmente il nigeriano si trova a tu per tu con la capotreno, quest’ultima chiede conto all’uomo del suo comportamento elusivo. Per tutta risposta, l’immigrato la abbraccia e le dà un bacio sul collo. Ovviamente senza neanche l’ombra di uno straccio di consenso. Da qui scatta la denuncia e parte il processo, che si svolge con il rito abbreviato.
Il pm chiede un anno e due mesi di reclusione per violenza sessuale. Il giudice per l’udienza preliminare, Lea Acampora, decide però di derubricare l’accusa da violenza sessuale a violenza privata. E poi di assolvere l’imputato con la formula prevista dall’articolo 131 bis del Codice penale, quello che prevede, nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, l’esclusione della pena se l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Insomma, la molestia c’è stata, ma che vuoi che sia. È stato se non altro disposto un risarcimento di 5.000 euro alla donna, che si era costituita parte civile nel processo. I sindacati sono subito scesi sul piede di guerra: i rappresentanti di categoria di Cgil, Cisl e Uil hanno denunciato «la valutazione riduttiva dell’abuso di una libertà fisica volta a denigrare la figura femminile, a valle proprio del mese e della data dedicata alla lotta alla violenza sulle donne». La decisione del giudice, aggiungono, «ci sembra sminuisca la gravità del fatto e si ponga in controtendenza alle politiche di tutela di genere che si cercano di introdurre con difficoltà».
Il richiamo al contesto culturale è in effetti sacrosanto, anche se andrebbe approfondito oltre i generici riferimenti dei sindacati alle «politiche di tutela di genere». Una prima contestualizzazione riguarda le violenze sistematiche al personale ferroviario, spesso per mano di non italiani. Una «moda» decisamente spiacevole e che a quanto pare qualcuno tende a sminuire. Una seconda contestualizzazione riguarda però il doppio standard «etnico» che si registra ormai riguardo alla violenza sulle donne. Esistono, pare di capire, due binari (tanto per restare in tema ferroviario): per gli italiani vige la morale della colpevolizzazione a prescindere, quella in cui persino battute innocue, sguardi insistenti, desinenze sbagliate diventano violenza; per gli stranieri, invece, un abbraccio e un bacio diventano azioni di tenue gravità, pose machiste e retoriche misogine appaiono come esotici tratti culturali da comprendere, stupri veri e propri non sono ritenuti ragion sufficiente per espulsioni dal territorio nazionale. Lo si evince anche da sentenze come quella della Cassazione che, nel 2023, condannò per violenza sessuale proprio un capotreno che, in un ribaltamento della situazione, aveva tentato un approccio con una passeggera, riuscendo a darle un bacio sulla guancia, cui i supremi giudici hanno dato valenza di atto sessuale, senza sofismi sulla tenuità. Due molestie in ambito ferroviario, decisioni opposte. A cosa si deve la disparità? Un leggerissimo sospetto sorge. Ricordate campagne come quella «se ti dice “dove sei?” è violenza»? Ecco, nasce il dubbio che non fossero rivolte a tutti i maschi, ma solo a quelli di una certa tonalità cromatica. Ci sono, ovviamente, rari casi in cui le ipotesi di rieducazione del maschio sono state applicate anche a gruppi extra europei; è successo dopo gli stupri di Colonia, quando si pensò che la soluzione fossero i corsi di educazione sessuale per stranieri, ma pensiamo anche a quel magistrato salernitano per cui «non possiamo pretendere che un africano sappia che in Italia, su una spiaggia, non si può violentare». In quei casi, tuttavia, il corso assume sempre tratti bonari, paternalistici, giustificazionisti: poverini, è che non lo sapevano. Siamo ben lungi dalle connotazioni maoiste dei trattamenti rieducativi per maschi tossici autoctoni, dove l’abusatore o presunto tale deve decostruirsi, annullarsi, aprirsi a una radicale messa in questione di sé. E nessuna tenuità è concepibile.
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Zerocalcare e il presidente dell’Associazione italiana editori Innocenzo Cipolletta (Ansa)
L’Aie non cede ai ricatti dei letterati progressisti per cacciare Passaggio al bosco da «Più libri più liberi»: «Quando si inizia con la censura non si sa dove si finisce». Smacco a chi si atteggia a padrone della Cultura.
Questa volta tocca erigere un piccolo monumento a Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Associazione italiana editori che ha avuto il fegato di tenere duro. E non è affatto cosa scontata quando si tratta di esponenti delle istituzioni culturali: i più sono solitamente pronti a piegarsi al pensiero prevalente. Cedono alle imposizioni di questo o quel gruppuscolo intellettuale progressista o addirittura sono i primi a schierarsi sul bastione sinistrorso. Cipolletta, invece, dice parole semplici che oggi suonano quasi incredibili: ribadisce che non intende censurare nessuno. Anche se un centinaio tra autori e editori gli hanno chiesto per lettera di cacciare l’editore Passaggio al bosco dalla fiera editoriale romana «Più libri più liberi».
«Abbiamo preso posizione molto forte quando c’è stata la censura di Scurati alla Rai. Abbiamo preso posizione quando il commissario italiano per la fiera di Francoforte ha dichiarato di aver censurato Saviano», ci dice Cipolletta. «Abbiamo preso posizione contro la censura, anzi l’arresto di uno scrittore come Boualem Sansal in Algeria. Siamo contro le censure. Ora che c’è una proposta di censura nei confronti di una casa editrice, anche se non condividiamo nulla del pensiero che porta avanti, non possiamo essere a favore di questa censura. Perché se censuriamo qualcuno di cui non condividiamo l’opinione, poi alla fine dovremo anche ammettere la censura nei confronti di quelli di cui condividiamo le opinioni. Quindi assolutamente siamo contro le censure». Cristallino. E Cipolletta rincara pure la dose: «Quando si comincia con la censura non si sa più bene dove si finisce. Oggi magari si censura qualcosa che non ci piace, ma domani si cominceranno a censurare anche opinioni che invece condividiamo, e rischiamo di prendere una china molto pericolosa. Se gli editori commettono reati, devono essere denunciati alla Procura. Noi non censuriamo».
Mentre il presidente dell’Aie dà lezioni di liberalismo, a sinistra si scatena lo psicodramma consueto. Zerocalcare ha mollato il colpo e non andrà alla fiera perché, sostiene, ha i suoi paletti. Lo scrittore Christian Raimo invece i paletti vorrebbe piantarli nel cuore dei fascisti e rivendica il tentativo di censura, spiegando che la sua pratica è «sedersi accanto ai nazisti e dire “voi vi alzate io resto qui”». Qualcuno forse dovrebbe dire a Raimo che i nazisti li vede solo lui, e non se ne andranno perché sono voci nella sua testa, amici immaginari che gli fanno compagnia così che si senta anche lui un coraggioso militante pronto al sacrificio per l’idea.
C’è poi chi non rimane a combattere ma se ne va, tipo la casa editrice Orecchio Acerbo, che ha comunicato la sua fuoriuscita dall’Aie «in assoluto e totale disaccordo» con la decisione «di accogliere tra gli espositori di “Più libri più liberi” l’editore Passaggio al Bosco, il catalogo del quale è un’esaltazione di concetti e valori in aperto contrasto con quelli espressi dalla Costituzione antifascista del nostro Paese. Abbiamo deciso», scrivono da Orecchio Acerbo, «di uscire dall’associazione. Decisione presa a malincuore, ma consolidata dopo la davvero risibile argomentazione del presidente Cipolletta: l’Aie non sceglie chi sì e chi no».
Cipolletta risponde con chiarezza: «Ci dispiace, ma ripeto, come associazione di editori cerchiamo di non censurare nessuno e penso che gli editori potrebbero apprezzare, dopodiché se qualcuno non apprezza...». Se qualcuno non apprezza vada per la sua strada: sacrosanto.
In tutto questo bailamme figurarsi se poteva mancare il sindacato.
Slc Cgil e Strade (sezione dei traduttori editoriali) ci hanno tenuto a esprimere «ferma condanna e profonda preoccupazione» per la presenza dell’editore di destra alla kermesse romana. «Consentire la diffusione di narrazioni che celebrano ideologie discriminatorie rappresenta una minaccia per il patrimonio comune di libertà e pluralismo», dice la Cgil. «La libertà di espressione non deve diventare un veicolo per l’apologia del fascismo. Questo non è un semplice dibattito culturale, ma una questione cruciale che misura la capacità della società di respingere ogni tentativo di riabilitazione dell’ideologia fascista. La cultura non può essere un terreno per il travestimento del fascismo come opinione legittima».
In buona sostanza, la Cgil chiede di bandire una casa editrice indipendente tenuta in piedi da ragazzi che lavorano guadagnando poco e faticando molto, che non sono nazisti né fascisti e che hanno regolarmente chiesto e ottenuto uno spazio espositivo. Dunque il sindacato - invece di occuparsi dei diritti di chi lavora - opera per danneggiare persone oneste che fanno il loro mestiere. Il tutto allo scopo di obbedire ai diktat di un gruppetto di autori che masticano amaro perché costretti a riconoscere l’esistenza di una cultura alternativa alla loro. Il succo della storia è tutto qui: non vogliono concedere «spazi ai fascisti» semplicemente perché temono di perdere i propri. Si atteggiano a comunisti ma difendono con i denti la proprietà privata della cultura che vorrebbero dominare con piglio padronale. Stavolta però gli è andata male, perché persino l’associazione degli editori ha capito il giochino e si tira indietro.
I padroncini dell’intelletto vedono sfumare la loro autoattribuita primazia e allora scalciano e strepitano, povere bestie.
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