Nel riquadro Nathan Trevallion, il papà della cosiddetta famiglia nel bosco, firma il contratto della nuova casa (Ansa)
Il Tribunale dei minorenni prende tempo sul caso della famiglia nel bosco, nonostante le due relazioni presentate in udienza ieri, che descrivono i tre bimbi della coppia come assolutamente sereni. I legali: «È stata recepita la disponibilità dei genitori».
Il Tribunale dei minorenni dell’Aquila si è riservato sul caso della «famiglia del bosco». I giudici hanno preso tempo per valutare le due nuove relazioni che decideranno il futuro dei figli della famiglia Trevallion, che vivevano in casolare di Palmoli in provincia di Chieti, affidati due settimane fa a una struttura dal Tribunale dei minori dell’Aquila.
I documenti sono stati depositati nell’udienza di ieri pomeriggio, dove avrebbero dovuto essere ascoltati Catherine Birmingham e Nathan Trevallion. Si tratta della coppia anglo-australiana che viveva con i tre figli minori, nella casa nel bosco, ma la coppia non era presente in aula. I genitori stanno combattendo per riottenere i bambini, lontani dalla casa nel bosco ormai da 14 giorni. Le importanti relazioni esaminate in aula sono una della casa-famiglia in cui i minorenni sono ospitati dal 20 novembre e l’altra dei servizi sociali. I ragazzi, dall’inizio della loro permanenza nella casa-famiglia in cui sono ospitati, sarebbero tranquilli e non avrebbero subito traumi, incontrano spesso la madre che viene considerata punto di riferimento dei piccoli e che sarebbe anche molto empatica. E anche il padre, pur vivendo ancora nella casa nel bosco, si prende cura dei figli.
Secondo la relazione, i bambini Trevallion hanno mostrato sorpresa davanti ai comfort moderni che trovano nella casa famiglia come l’acqua corrente sempre disponibile, il riscaldamento, gli elettrodomestici. Tutte cose che per i coetanei sono la normalità, ma per loro rappresentano una scoperta. All’udienza di comparizione, iniziata ieri verso le 15.30, erano presenti i due avvocati della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas. Sono loro che hanno chiesto un ricongiungimento urgente al tribunale minorile per la famiglia, presentando delle nuove argomentazioni alla luce di nuovi elementi che non erano conosciuti al tempo dell’ordinanza che ha separato genitori e figli. Anche i minori hanno un loro avvocato, Marica Bolognese. Maria Luisa Palladino è la tutrice provvisoria dei tre bambini.
I genitori hanno anche presentato ricorso, sulla decisione di allontanare i figli minori, alla Corte d’appello che dovrà decidere il 16 dicembre. Intanto, ieri si è iniziato a valutare l’impegno della coppia per garantire quanto disposto dal magistrato in termini di adeguatezza dell’ambiente domestico. La coppia ha deciso di cambiare abitazione per tre mesi, gli è stata messa a disposizione una casa colonica, sempre a Palmoli, immersa nel verde, dove resterà il tempo necessario per sistemare il casolare in cui abitava. A quanto sembra, però, si attende ancora un progetto di ristrutturazione della vecchia abitazione e in Comune a Palmoli non è stata ancora avviata alcuna procedura in merito. «Abbiamo fiducia nella magistratura, speriamo nel ricongiungimento, forniremo altri elementi utili, ma per ora non possiamo dire nulla», ha spiegato l’avvocato Solinas, assediata dai cronisti, all’ingresso del Tribunale per i minorenni dell’Aquila. «Stiamo lavorando bene», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti riferite alla strategia difensiva da attuare in udienza.
E anche all’uscita, i toni della Solinas e di Femminella erano distesi: «È stato un momento di colloquio, di confronto, di chiarimento e quindi di condivisione di un percorso. La decisione spetta al tribunale. L’udienza è il luogo deputato all’interlocuzione, al confronto è stata un’udienza assolutamente proficua, lunga. Si prospetta una proficua collaborazione». «Tra gli elementi che sono valutati in maniera positiva dal tribunale c’è sicuramente la disponibilità dei genitori in questi giorni», hanno aggiunto i due legali, che però non hanno potuto nemmeno ipotizzare quando i giudici scioglieranno la riserva. «Le tempistiche non le posso prevedere», ha risposto la Solinas ai cronisti. Non è chiaro, quindi, se la decisione del Tribunale dei minori arriverà prima o dopo quella della Corte d’appello.
Nelle due ore di udienza sono stati valutati su richiesta degli avvocati dei Trevallion i nuovi aspetti non conosciuti al momento dell’ordinanza di allontanamento del 20 novembre, questo per ottenere l’accoglimento della richiesta di ricongiungimento urgente per la famiglia, che sarà decisa nei prossimi giorni.
Intanto ieri il portavoce di Pro vita & famiglia, Jacopo Coghe, ha consegnato oltre 50.000 firme al ministero della Giustizia, raccolte dalla onlus con una petizione popolare rivolta al ministro Carlo Nordio per chiedere l’immediato ricongiungimento della famiglia Trevallion. «Il caso è diventato il simbolo di una deriva pericolosa, ovvero quando lo Stato, invece di sostenere i genitori, si sostituisce a loro. Così facendo calpesta il diritto dei minori a crescere con il proprio padre e la propria madre e lede il primato educativo che spetta alla famiglia», ha spiegato Coghe.
«In attesa di novità, speriamo positive, dall’udienza al Tribunale dei minori dell’Aquila di oggi pomeriggio (ieri, ndr)», aggiunge Coghe, «chiediamo al ministro Nordio di fare tutto quanto in suo potere affinché questa famiglia venga riunita e simili casi non si ripetano più. Non esiste tutela dei bambini senza rispetto dei loro genitori».
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La famiglia Trevallion-Birmingham
Il tribunale «si riserva» sul caso di Chieti. Ma il report dalla casa famiglia dice che i bambini nel bosco stavano benissimo coi genitori. Allora perché li hanno sottratti? Non è il giudice che decide qual è lo stile di vita «giusto».
Un amico mi chiede: ma il giudice che ha deciso di togliere i bambini ai legittimi genitori perché la casa in cui vivevano non ha luce né acqua corrente, lo sa che in America ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono in quelle condizioni? Non si tratta di famiglie povere, che non hanno la possibilità di pagare la bolletta della luce o di allacciarsi all’acquedotto, ma di Amish, appartenenti a una comunità religiosa cristiana, che hanno scelto la vita semplice e rifiutano la tecnologia. Secondo gli ultimi dati, sono più di 300.000 e in 25 anni sono raddoppiati. Che facciamo con loro, gli togliamo i figli perché non guidano né auto né moto, ma si muovono su un calesse trainato dai cavalli e le loro mogli si vestono con delle lunghe sottane? Il mio amico insiste: a chi facciamo decidere se il progetto di vita che si sono scelti gli Amish e la famiglia Trevallion è sbagliato e il nostro è giusto? A un giudice?
Il ragionamento non fa una grinza: i bambini sottratti ai propri genitori non erano maltrattati ed erano in regola con il programma scolastico nonostante non frequentassero una scuola (proprio come gli Amish). Il loro unico «difetto» è che vivevano nel bosco, senza i servizi igienici dei loro coetanei a disposizione. Lasciamo perdere il fatto che molti italiani fino agli anni Sessanta, e alcuni anche dopo, sono cresciuti nelle stesse condizioni, ma se vale il principio che i bambini devono vivere in un’abitazione adeguata, che facciamo con i figli dei rom? Crescere in una baracca o in una roulotte senza servizi igienici è meglio che vivere in una casupola nel bosco? Se il problema è la qualità dell’alloggio, perché ai rom non tolgono i bimbi ma, anzi, servizi sociali e giudici li lasciano crescere in condizioni a dir poco precarie, senza tutele né istruzione? Tra le accuse che pare siano state mosse ai genitori dei piccoli c’è la mancata socializzazione. Ne deduco che, se i minori rom non vengono tolti ai rispettivi papà e mamma, ci sono assistenti sociali e giudici secondo cui vivere a fianco di chi ruba il portafogli o la catenina è un modo di socializzare.
Ho letto la relazione degli educatori della casa-famiglia di Vasto in cui, dal 20 novembre, vivono i bambini della famiglia Trevallion. A quanto ho capito, i minori sottratti per ordine del giudice ai legittimi genitori non mostrano affatto i segni di un degrado educativo o affettivo. Sono bambini normali, cresciuti con mamma e papà in mezzo al bosco. Sono stupiti dall’acqua corrente o dalla luce elettrica. E allora? Con la madre hanno un approccio sereno e con il padre pure. Quando lui li va a visitare porta con sé frutta, oggetti utili, piccoli pensieri per moglie e figli. E quando i bimbi rivedono il papà, «sono momenti di gioia autentica». «I figli lo accolgono con grande calore» e, dopo i saluti, tornano a giocare con naturalezza. «Una dinamica che suggerisce autonomia e assenza di quell’ansia da separazione tipica dei contesti traumatici». E allora, perché portarli via ai genitori? Perché vivono in una comunità neo rurale a cui l’opinione pubblica (o, forse, qualche assistente sociale e magistrato) non è abituata?
Ma chi decide quale progetto domestico sia giusto applicare? Chi, soprattutto, stabilisce se uno stile di vita debba essere distrutto perché non rientra nella norma? I quesiti non sono cosa da poco, perché aprono lo spazio a diverse riflessioni. Alle bambine che crescono in alcune comunità islamiche è consentita la socializzazione? E nel caso fossero costrette a vivere in un ambiente chiuso, che non si relaziona con bambine di altre culture, sarebbe giusto sottrarle ai genitori prima che si ripeta un caso Saman Abbas? Aggiungo anche questa ulteriore considerazione: dato che ci sono figli che crescono in ambienti malsani, non per via dei servizi igienici ma per la contiguità criminale, perché assistenti sociali e giudici non se ne occupano prima che qualche minorenne educato alla violenza accoltelli un coetaneo?
Le mie potrebbero sembrare provocazioni, ma non lo sono. Sono semplici osservazioni: se deleghiamo allo Stato la scelta di come e dove crescere i figli, la logica conseguenza è che i bimbi non saranno più nostri, ma dello Stato. Come in ogni regime.
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2025-12-05
Non Sparate sul Pianista | Mattioli: «Shostakovich? La perla più preziosa per la Prima della Scala»
Carlo Melato dialoga con il critico musicale Alberto Mattioli sulle attese suscitate dal titolo scelto dal Piermarini per il 7 dicembre: Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Un capolavoro che ha sofferto la censura staliniana e che dev’essere portato al grande pubblico, anche televisivo, scommettendo sulla sua potenza e non sul boom di ascolti.
Marina Terragni (Imagoeconomica)
Marina Terragni, che guida l’organismo: «Posso esprimere solo auspici, ricevo molte segnalazioni su diritti dei più piccoli non rispettati. Non riesco ad avere atti di un processo. Ho chiesto almeno delle facoltà ispettive».
Mamma Giovanna, nome di fantasia, può solo sperare di avere notizie sulla salute del figlio Marco, 9 anni, operato un mese fa per un medulloblastoma, tumore primario del sistema nervoso centrale a crescita rapida. Ha chiesto di vederlo «ma dai servizi sociali non arriva risposta. Continuo ad avere diritto unicamente a incontri in modalità protetta, come con l’altro figlio Luca di 10 anni, secondo quanto ha disposto un anno fa la Corte di appello di Venezia che mi ha tolto la potestà genitoriale».
Tira il fiato per un attimo, poi è nuovamente un fiume in piena di rabbia, sconcerto, preoccupazione. «Qualcuno mi può spiegare come si fa a vedere in questo modo un bimbo che, da referto medico, non cammina, non parla e, uscito dall’ospedale, è tornato dal padre secondo quanto ha stabilito il tribunale? Padre che nemmeno mi informa su come stanno i figli?». La signora è stata esclusa dalla vita dei suoi bambini e di Marco ha unicamente un Pec datata 17 novembre, inoltrata senza intestazione, dalla quale apprende che il piccolo, con tumore al IV stadio, dovrà sottoporsi a radioterapia e chemioterapia. Il piccolo sarebbe stato trascurato per mesi, malgrado segnalasse continui mal di testa, vomito, disturbi alla vista.
La mamma, che già vive l’assurdità di essere passata dalla parte dei «cattivi» per aver portato via nel 2019 i figli dalla casa dell’ex compagno a Venezia, sospettando abusi sulle creature («La causa penale e quella civile sono state archiviate») e che solo quest’anno ha potuto avere un riscontro ai suoi timori («I bambini sono stati visti da due psicologi e psicoterapeuti che dichiarano che hanno probabilmente subito abusi sessuali e sono in uno stato di rischio pericolo», documento della deuropsichiatria della Aulss3 di Venezia mai segnalato né alla Procura né alla Corte d’appello territoriale), dovrebbe adesso rassegnarsi a stare lontana.
«Mentre il padre dei miei figli non si è preoccupato della loro salute. Il più grande è diventato apatico, mostra sintomi di depressione. Marco è stato più volte male e solo a ottobre il genitore l’ha portato al pronto soccorso, dove si è capito che aveva un tumore», spiega affranta la mamma, tornata a vivere nella sua città natale, Brescia. Il complesso iter giudiziario di separazione dall’ex compagno ha segnato duramente i bambini. Strappati due volte dalla madre, la prima nel novembre del 2022 con modalità vergognose riprese dalle telecamere di Fuori dal Coro, la trasmissione di Mario Giordano su Rete 4. Mamma ammanettata, nonni impotenti, una trentina tra assistenti sociali, poliziotti e vigili del fuoco impegnati a buttare giù la porta di casa per portare via bambini non in pericolo di vita, ma terrorizzati dal prelievo violento. Finirono in una comunità, poi nuovamente vennero restituiti alla madre.
Il secondo allontanamento un anno fa, quando li andarono a prendere a scuola per portarli a 200 chilometri di distanza da nonni e mamma, separandoli pure tra di loro in due diverse case famiglia. Disposizioni dettate dalla Sezione quarta della Corte di appello di Venezia presieduta dal giudice Guido Marzella, che il 9 ottobre 2024 dichiarava la signora «decaduta dalla potestà genitoriale». Inoltre, disponeva il «temporaneo affidamento» dei bambini «ai servizi sociali del Comune di Venezia per la durata di nove mesi, con la previsione che le decisioni di maggiore importanza siano assunte dai servizi affidatari, previa interlocuzione con il padre, senza la preventiva autorizzazione di questa Corte».
Senza entrare nel merito del decreto, sul quale sta intervenendo il legale di Giovanna e che sembra stravolgere i ruoli di accusato e di accusatore (non dimentichiamo che la signora è uno dei 36 casi esemplari di vittimizzazione secondaria denunciati nel 2022 dalla Commissione parlamentare di inchiesta del Senato sul femminicidio), di fatto il Tribunale del riesame lasciava carta bianca al padre dei piccoli e ai servizi sociali. Perché, allora, non si sono accorti che il più piccolo stava molto male e necessitava di controlli?
Marina Terragni, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, ha chiesto «che si accerti se vi siano effettivamente stati ritardi e negligenze nell’intervento medico, se i servizi sociali e la struttura in cui il bambino era collocato abbiano efficacemente tutelato la sua salute - e così il padre, presso il quale i minori risiedono da luglio 2025 - e se l’iter giudiziario presenti eventuali irregolarità». Di più, l’Autorità garante non può fare malgrado l’enormità della situazione. «Posso esprimere solo auspici», spiega. «Ricevo decine di segnalazioni di bambini i cui diritti non sono rispettati ma non ho il potere di chiedere nemmeno gli atti di un procedimento. Ho chiesto di avere almeno poteri ispettivi, spero che me li diano».
Occorrono decisioni rapide, non è tollerabile che un bimbo malato non possa stare con la sua mamma, mai sfiorata dall’accusa di maltrattamenti nei confronti dei figli. Ministro della Giustizia Carlo Nordio: disponga indagini per accertare se due minori e la loro mamma sono stati davvero tutelati. Nel frattempo, non si perda tempo a interrogarsi che cosa è bene per una creatura che lotta contro il cancro.
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