Mohammad Hannoun (Ansa)
Grazie alla beneficenza per 7 milioni gestita dalle associazioni italiane pro Gaza, un fedelissimo di Hannoun avrebbe, secondo gli inquirenti, partecipato ad aste giudiziarie acquistando 90 immobili. «Zaini e contanti».
Scene da un patrimonio. La banda di presunti terroristi che, dall’Italia, avrebbe foraggiato a suon di milioni la jihad islamica di Hamas, maneggiava denaro, ma, soprattutto, investiva nel mattone. Una scelta che dimostra quanto fosse mal riposta la fiducia di chi affidava a questi signori gli oboli per Gaza.
Gli specialisti dell’Antiterrorismo, in queste ore, stanno cercando di capire con quali soldi uno degli arrestati nell’operazione Domino della Procura di Genova abbia acquistato, negli ultimi mesi, decine di immobili. Il sospetto è che siano stati utilizzati i fondi degli aiuti per Gaza.
Il che dimostrerebbe che questi denari non erano destinati a una rapida consegna nelle mani dei bisognosi, ma a tutt’altri fini.
Nell’ordinanza di arresto per nove persone, il gip Silvia Carpanini dedica un approfondimento a uno dei soggetti finiti in manette, Adel Ibrahim Salameh Abu Rawwa, accusato di concorso esterno in associazione terroristica, avendo dato «un rilevante contributo all’organizzazione». Ufficialmente l’uomo risulta dipendente dell’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese (presieduta dal coindagato Mohammad Hannoun), di cui era il «referente per la raccolta delle donazioni nelle regioni del Nordest»: «Dal monitoraggio del Sistema informativo valutario, è emerso che l’indagato è stato oggetto di segnalazione da parte della Uif, in merito all’acquisto all’asta, in un lasso temporale ristretto, di oltre 40 immobili senza peraltro accedere ad alcuna linea di finanziamento», scrive la Carpanini. Un vero e proprio immobiliarista che sulla carta era, però, un semplice impiegato dell’Abspp.
In realtà, consultando l’archivio del catasto, si scopre che Rawwa risulta intestatario, a seguito di decreti di trasferimento immobiliari (successivi a fallimenti) emessi dall’autorità giudiziaria, di 90 immobili complessivi: 55 in provincia di Modena (decreto del tribunale di Modena, 24 maggio 2021) e 35 in provincia di Reggio Emilia (decreto del tribunale di Reggio Emilia, 21 dicembre 2023). Si tratta di 48 fabbricati divisi tra appartamenti di varie categorie (da quelle di tipo civile a quelle di tipo economico), un ufficio, 14 autorimesse, otto tra magazzini, cantine e depositi, cinque fabbricati da ultimare (e quindi non classificati) e 14 terreni agricoli. Il patrimonio a mosaico è concentrato in piccoli e medi comuni emiliani.
L’indagine, portata avanti dalla Digos e dal Nucleo di polizia economico-finanziaria di Genova, oltre che dal Nucleo speciale di polizia valutaria, ha approfondito il ruolo di Rawwa.
Nell’ordinanza viene descritto come l’uomo chiave della raccolta fondi, la cerniera tra Italia e Gaza. Con un peso specifico che emerge dai numeri. Quelli che Hannoun, senza retorica, gli riconosce: «Tu da solo in otto mesi (hai raccolto, ndr) quello che non si è mai raccolto in tre o quattro anni». La risposta di Rawwa è secca: «Sì, è vero, senza contare quelli del Pos e altre cose, sono arrivato a quasi 1 milione e 900.000 euro». Denaro che non resta fermo. E Rawwa non è solo il collettore. È anche lo spallone, l’uomo delle valigie e degli zaini. Le intercettazioni lo collocano più volte nelle sedi dell’associazione. O in giro per le consegne. In un’occasione affida a un complice «la somma di 250.000 euro in contanti» al casello autostradale di Lodi («Non li posso tenere tutti da me», è la giustificazione). Oltre ai contanti aveva raccolto altri 56.000 euro tramite Pos e 22.000 euro in bonifici, «per un totale di 340.000 euro», ricostruiscono gli inquirenti. In un’intercettazione spiega la suddivisione dei soldi: «Ogni pacchetto contiene 5 e sono 30, quindi 150.000». Durante le indagini gli investigatori lo hanno pizzicato mentre porta «uno zaino contenente 180.000 euro» proprio ad Hannoun. Sempre al telefono Rawwa rivendica: «Noi siamo l’unica associazione in Italia che raccoglie fondi per Gaza». Ed è in contatto diretto con Osama Alisawi, ex ministro dei Trasporti di Hamas e cofondatore della Abspp. Rawwa spiega anche che per far passare dall’Egitto una carovana di 28 camion, l’associazione di Hannoun ha dovuto distribuire «86.000 euro di mazzette» ai soldati del Cairo: 2.500 per mezzo, più 400 euro per ogni militare di scorta. E quando la «beneficenza» rischia di diventare un problema, Rawwa lo intuisce. Durante una conversazione invita l’interlocutore a «non parlare di queste cose».
Poi detta la linea: «Noi siamo per gli aiuti umanitari». Subito dopo ammette la pressione: «I nostri telefoni al milione per cento sono intercettati». Quando i conti correnti vengono chiusi, Rawwa trova la soluzione. La strategia è semplice: una nuova associazione «con persone che non devono essere già registrate con la vecchia e che non abbiano nulla a che fare con le manifestazioni (e quindi con le posizioni prese pubblicamente a favore della resistenza palestinese), ma che si occupino esclusivamente di volontariato».
Le foto arricchiscono il quadro indiziario. Nel materiale acquisito compaiono immagini di un anniversario di Hamas, con striscioni delle Brigate al Qassam, e Rawwa è lì, presente. In una delle annotazioni si segnala anche il suo like a un post del già citato Alisawi che esprime soddisfazione per l’eccidio del 7 ottobre.
Nella caccia ai denari di Hamas è entrata anche una storia curiosa, quella di un vaglia postale bloccato dagli investigatori. Nel corso delle indagini finanziarie, è stato scoperto che le maggiori risorse erano state depositate sui conti di Poste italiane Spa, compreso 1 milione di euro dell’associazione Cupola d'oro.
Quando gli indagati hanno mangiato la foglia e hanno capito di essere sotto inchiesta hanno provato a spostare quel denaro da Poste ad altri istituti bancari, utilizzando il vaglia. Ma le banche, allertate dalle forze di polizia, non hanno accettato il versamento. Per questo i soggetti arrestati si sono rivolti all’autorità giudiziaria e hanno ottenuto un decreto ingiuntivo emesso da tribunale di Milano a favore della stessa Cupola d’oro. La parola fine al contenzioso l’ha messa il gip di Genova, con le manette.
Nell’inchiesta, al momento, si contano circa 25 indagati, compresi i famigliari di Hannoun, la moglie e i due figli, che sarebbero stati consapevoli della destinazione reale dei fondi. Gli eredi si sarebbero anche prestati al trasporto di denaro. Tra le persone coinvolte anche la giornalista e orientalista torinese Angela Lano, a cui è contestato il concorso in associazione con finalità terroristica. A casa sua, sarebbero state trovate bandiere con i simboli di Hamas. Nelle carte è citato, anche se non risulta indagato, pure Mohamed Shahin, l’imam di Torino, destinato all’espulsione e poi salvato dalla Corte d’appello. Era in contatto con Mahmoud El Shobky, referente piemontese della raccolta fondi, indagato, ma non arrestato. In una telefonata del 26 luglio 2025, un altro arrestato, Yaser Elasaly, lo rassicura: «El Shobky non sa niente, sa che prendiamo la amana (beneficenza, ndr) e la consegniamo agli sfollati e ai bisognosi».
Shanin, invece, probabilmente sapeva la verità.
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Vi avverto: questo podcast è fatto in due puntate perché la persona di cui parliamo ha avuto una vita veramente avventurosa. Le sue incredibili abilità la resero una pilota più brava delle sue celebri colleghe come Amy Johnson o Ameia Earhart ma dietro la sua bellezza si nascondevano spietatezza e determinazione.
Laura Boldrini e Nicola Fratoianni (Ansa)
La sinistra ha sempre girato a braccetto con soggetti in odore di rapporti con le milizie. Adesso però sono spariti tutti...
Più passano le ore, anzi i giorni, e più diventa imbarazzante il silenzio degli amici di Mohammad Hannoun. Ma come? Fino all’altro ieri erano sempre pronti a sposarne la causa, facendosi fotografare al suo fianco, ben lieti di abbracciarne la lotta per la Palestina libera, invocando una soluzione per Gaza e una condanna per genocidio nei confronti di Israele. E ora che l’architetto giordano è finito in manette, con l’accusa di aver finanziato i terroristi di Hamas e di essere a capo di un’associazione che agiva da collettore di fondi per il movimento armato dei fondamentalisti islamici, i compagni di piazza e piazzate che fanno? Si voltano dall’altra parte, facendo finta di niente, anzi di non conoscerlo?
Da molti anni l’attività del presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia era oggetto di indagini della magistratura, alcune delle quali erano note. E da molto tempo era oggetto di inchieste giornalistiche, per le sue dichiarazioni estreme e per le sue discutibili frequentazioni. Già ieri ricordavo gli articoli apparsi su questo giornale a firma del nostro Giacomo Amadori. E Fausto Biloslavo l’altro ieri mi ricordava almeno una decina di servizi pubblicati su Panorama da quando ne sono direttore. Insomma, si sapeva o per lo meno di sospettava, che Hannoun avesse forti collegamenti con Hamas. E ci si immaginava che alcune delle associazioni di beneficenza da lui fondate per sostenere la causa palestinese non servissero a finanziare le famiglie in difficoltà, la costruzione di scuole, ospedali, acquedotti, come sarebbe stato giusto che fosse e come avrebbe dovuto essere se le promesse di Hannoun e dei suoi compagni fossero state veritiere. In realtà, da tempo si riteneva che quel denaro venisse usato per cause ben meno nobili, ovvero per armare i terroristi e pagare le famiglie dei miliziani finiti in carcere o al cimitero dopo gli attentati contro gli israeliani. In altre parole, quei fondi erano fondi investiti non per ragioni umanitarie, ma destinati a scopi bellici, compresa la strage del 7 ottobre 2023.
Di fronte a tutto ciò, al fiume di quattrini passato nelle mani di Hannoun e della holding immobiliare di Hamas (solo in Italia sarebbero una novantina gli edifici comprati allo scopo di impiegare la liquidità prima di consegnarla ai miliziani di Hamas), ci saremmo aspettati una presa di distanza e almeno qualche mea culpa da parte di chi, in questi anni, ha sposato la causa del «profugo» giordano-palestinese senza andare troppo per il sottile.
Invece, approfittando delle vacanze di Natale, da Laura Boldrini a Nicola Fratoianni, da Francesca Albanese ad Alessandro Di Battista paiono tutti in silenzio stampa. Desaparecidos. Tanto erano loquaci fino all’altro ieri, tanto sono silenziosi ora, forse annichiliti per aver abbondato con il panettone o intorpiditi per aver ecceduto nei brindisi. Alzare i calici a volte annebbia la mente, ma forse nel caso di Hannoun la mente dei compagni che con lui amavano scattarsi selfie era già annebbiata.
Anzi, su certi argomenti probabilmente lo è sempre stata. Al punto che oggi, di fronte agli arresti, non sanno che dire e preferiscono nascondersi, sperando che la Befana insieme alle feste si porti via anche la memoria degli italiani. Ma dimenticarsi di chi ha scambiato dei finanziatori di terroristi per nuovi rivoluzionari è difficile, se non impossibile.
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Ansa
Rio de Janeiro ha una delle riserve più ricche al mondo, che apre anche a capitali americani. Però è costretta a esportare le materie prime in Cina perché siano lavorate. I piani nazionali di investimento vanno a rilento.
Il Brasile possiede quella che è stimata, come la seconda riserva mondiale di terre rare, con circa 21 milioni di tonnellate metriche (pari al 23,3% delle riserve globali, ma secondo sondaggi recenti anche di più), a pari merito col Vietnam e superato solo dalla Cina che ne detiene 44 milioni. Questi 17 elementi sono un po’ la spina dorsale della civiltà industriale moderna. Senza di essi non esistono magneti per turbine eoliche, motori per veicoli elettrici, semiconduttori o sistemi di guida per missili e jet. Energia, trasporti, elettronica e difesa sono i settori che più di tutti hanno estrema necessità di questi componenti.
Ad oggi, la Cina controlla il 70% della produzione mineraria e oltre il 90% della lavorazione di questi minerali. Questa posizione di quasi-monopolio permette a Pechino di esercitare un’influenza enorme sui prezzi e sulle catene di fornitura globali, una vulnerabilità che gli Stati Uniti considerano una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. Il Brasile, grazie ai suoi depositi di argille ioniche (più facili, economici e meno inquinanti da estrarre rispetto alle rocce dure di Australia e Usa) rappresenta il tassello mancante per il de-risking perseguito dall’Occidente.
Ma in anni di disinteresse di Washington, la Cina è diventata il primo partner commerciale del Brasile, assorbendo volumi enormi di soia, minerali di ferro ed energia. Ma l’influenza cinese va ben oltre il semplice scambio commerciale. Grandi compagnie minerarie come China Molybdenum (Cmoc) sono già profondamente radicate nel Paese attraverso joint venture strategiche.
Il simbolo della rinascita mineraria del Brasile è la città di Minaçu, nello stato di Goiás. Qui, dove un tempo si estraeva amianto, la società Serra Verde (controllata dal fondo americano Denham Capital) ha avviato nel 2024 la produzione commerciale di concentrato contenente le quattro terre rare più ambite per i supermagneti: neodimio, praseodimio, disprosio e terbio.
Tuttavia, emerge un paradosso tipico di questo settore. Nonostante il capitale sia statunitense, i primi carichi di minerali estratti a Minaçu sono stati esportati proprio in Cina per la raffinazione. Pur avendo il minerale, il Brasile manca di un’industria di trasformazione completa, rendendolo di fatto un fornitore di materie prime per il suo principale partner commerciale, Pechino. Neppure gli Stati Uniti, del resto, hanno una industria sviluppata che permetta di raffinare le terre rare, dunque la Cina, che controlla il 90% del mercato mondiale della raffinazione, è la destinazione obbligata dei minerali estratti.
Donald Trump sta adottando una tattica antica ma sempre efficace, il bastone e la carota. Mentre impone dazi pesanti, gli Stati Uniti stanno usando anche incentivi finanziari diretti. La U.S. International Development Finance Corporation (Dfc) ha stanziato fino a 465 milioni di dollari per espandere Serra Verde, mentre la Export-Import Bank (Ecim) ha manifestato interesse per finanziare con 250 milioni di dollari il progetto Caldeira della australiana Meteoric Resources nel Minas Gerais. L’obiettivo di Washington è costruire una catena di fornitura di terre rare che escluda Pechino, spingendo le aziende brasiliane a verticalizzare la produzione internamente o in Paesi alleati.
Il governo Lula ha risposto con il piano Nova Indústria Brasil (Nib), una strategia di neo industrializzazione che mira a stanziare oltre 50 miliardi di dollari per sviluppare settori tecnologici sovrani. Recentemente, la Finep (Financiadora de Estudos e Projetos) e il Bndes (Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social) hanno selezionato 56 progetti, per un valore potenziale di 8 miliardi di dollari, di cui 10 progetti specificamente dedicati alle terre rare.
Tuttavia, il Consiglio Nazionale di Politica Mineraria (Cnpm), istituito formalmente nel 2022, è rimasto inattivo per anni e solo recentemente è stato installato per aggiornare un Piano minerario nazionale fermo al 2011. Inoltre, il settore soffre per un’agenzia regolatrice (Anm) definita fragile e sottofinanziata, e per tempi di autorizzazione che possono durare un decennio. Le piccole compagnie minerarie si sono recentemente unite nell’Associazione dei Minerali Critici (Amc) per chiedere al governo garanzie finanziarie reali, poiché senza flussi di cassa immediati rischiano di dover cedere la produzione futura a investitori stranieri.
Sullo sfondo rimangono i conflitti socio-ambientali. Sebbene l’estrazione dalle argille ioniche sia definita sostenibile da Serra Verde, le comunità locali vicino alla miniera denunciano la contaminazione dei corsi d’acqua e impatti sulla salute. Il Brasile rischia di ripetere la sua traiettoria storica, cioè esportare minerali grezzi e restare dipendente dalle tecnologie estere. Sarebbe necessario creare un polo di raffinazione nazionale che rassicuri sia i militari, desiderosi di autonomia per il loro programma di sottomarini nucleari, sia gli investitori internazionali.
In conclusione, il Brasile ha tra le mani le chiavi di una importante cassaforte di preziose materie prime. Molto dipende da come il governo Lula saprà agire. Se in maniera pragmatica, cercando un compromesso tra le opposte spinte di Cina e Stati Uniti, o se sceglierà di gettarsi da una parte e in questo modo determinare uno squilibrio che sarà da valutare nella sua portata. Il rischio è che il grande Paese imploda sotto la pressione dei dazi di Trump o finisca per diventare una semplice colonia estrattiva per la fame di risorse della Cina.
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