Matteo Salvini (Ansa)
La Cassazione rigetta il ricorso della Procura di Palermo e assolve definitivamente il ministro per i fatti dell’agosto 2019.
Con il rigetto del ricorso della Procura di Palermo «per saltum», ovvero dribblando l’appello, la Corte di Cassazione, dopo circa quattro ore di camera di consiglio, ha messo una pietra tombale sul caso Open Arms. Ieri i giudici della Quinta sezione penale hanno confermato l’assoluzione di Matteo Salvini. Sentenza definitiva. Le accuse erano quelle che hanno attraversato anni di dibattito politico e giudiziario: sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Alla fine resta una formula che già in primo grado pesava come un macigno: assolto «perché il fatto non sussiste».
«Cinque anni di processo, difendere i confini non è reato». Per commentare la decisione dei giudici Salvini sceglie di accompagnare queste parole con una foto in cui è sorridente e col pugno destro verso l’alto, in segno di vittoria. All’epoca, da ministro dell’Interno, era finito a processo per quello che era passato come lo sbarco negato a 147 migranti (tra i quali c’erano dei minorenni), soccorsi nell’agosto 2019 dalla Ong Open Arms nel corso di tre operazioni. Una vicenda che per anni è stata raccontata come il simbolo di una questione politica, prima ancora che come un fatto giuridico. Ora, però, il piano politico esce dall’aula. Resta il diritto. E il diritto, certifica la Cassazione, afferma che il reato non c’è. Nonostante il tentativo della Procura di mantenere in vita il procedimento con il ricorso arrivato direttamente in Cassazione, «per saltum», senza passare dalla Corte d’appello. Una scelta processuale che esponeva il ricorso a un vaglio ancora più rigido, proprio perché la Cassazione non è un terzo giudice del fatto. E per questo è stata duramente contestata dalla difesa. Anche la Procura generale della Cassazione aveva chiesto di rigettare il ricorso. Le argomentazioni erano state anticipate con una memoria di circa 50 pagine, depositata alcune settimane fa. I sostituti procuratori generali Luigi Giordano e Antonietta Picardi hanno ritenuto corretto il verdetto di primo grado, sostenendo che il ricorso della Procura palermitana si era «soffermato esclusivamente sulla condotta privativa della libertà personale (l’azione), senza affrontare i profili ricostruttivi dell’elemento della colpevolezza e ciò senza tener in considerazione che fossero presenti e valorizzati, nella sentenza impugnata, elementi di esclusione (o, quantomeno di forte dubbio) del dolo relativi alle contestazioni di accusa». Per i sostituti procuratori generali ciò valeva a configurare «un deficit dimostrativo della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati ascritti all’imputato». La sentenza di Palermo, d’altra parte, aveva già messo nero su bianco un punto chiave: il Pos (Place of safety, ovvero un porto sicuro) non doveva essere concesso. Un nodo giuridico decisivo, perché senza l’obbligo di indicare un porto sicuro viene meno la base stessa dell’accusa. Il passaggio ha retto anche al vaglio della Suprema Corte. Era quello il tallone d’Achille dell’inchiesta palermitana. Se il Pos non è dovuto cade il presupposto del sequestro di persona. Cade l’idea di una condotta arbitraria. L’ipotesi di dolo non regge. L’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di Salvini, aveva insistito su un punto preciso: «Siamo di fronte alla completa infondatezza di un ricorso generico che contesta a raffica qualsiasi violazione di legge e chiede di fare un processo completamente diverso. Non è affatto un ricorso per saltum». Il cuore della critica era nel metodo. Secondo la difesa, la Procura non contestava errori di diritto, ma cercava di riscrivere i fatti. Un’operazione che in Cassazione non è consentita. «Tutte le presunte violazioni di legge sono ancorate a circostanze di fatto che sono state stravolte», aveva spiegato Bongiorno. C’era poi il confronto con il caso Diciotti, spesso evocato nel dibattito pubblico come se fosse sovrapponibile. Ma, anche qui, la difesa aveva messo un paletto netto: «La Diciotti è una nave della Guardia costiera italiana, l’altra è di una Ong spagnola». La differenza di bandiera e di status giuridico cambia radicalmente il quadro delle responsabilità. Contesti giuridici diversi, responsabilità diverse, cornici normative che non si possono confondere senza forzature. Nella sentenza impugnata, aveva ricordato ancora Bongiorno, «ci sono precise indicazioni di tutte le opzioni che aveva Open Arms e i report (acquisiti già in primo grado, ndr) sono la prova che non c’è stato sequestro di persona». Un punto centrale. Perché il sequestro presuppone l’assenza di alternative, una costrizione, una privazione illegittima della libertà. «Nel ricorso si dice l’opposto di quello che è scritto nella sentenza», aveva concluso l’avvocato. Una frattura che la Cassazione non ha ricomposto, ma certificato. Dall’altra parte, le parti civili hanno insistito fino all’ultimo per l’accoglimento del ricorso dei pm. Hanno chiesto l’annullamento della sentenza di assoluzione, sostenendo che «la prova dell’esistenza del dolo c’era nei fatti e nelle testimonianze». I legali delle parti civili hanno parlato di una violazione delle norme internazionali e costituzionali, sostenendo che «a 140 naufraghi che si trovavano di fronte alle coste italiane non era stato permesso di sbarcare per giorni, violando le norme internazionali e costituzionali oltre che la loro dignità». Già in primo grado, però, era stato stabilito che l’obbligo di tutelare i profughi, fatti sbarcare al termine di un braccio di ferro solo dopo l’intervento dei pm di Agrigento, lo aveva la Spagna. Perché il suo Centro di coordinamento e soccorso marittimo aveva «operato, sin da subito, un sia pur minimo coordinamento da “primo contatto”»; perché Malta, «nel declinare la propria responsabilità per i primi due eventi di salvataggio aveva chiaramente indicato la Spagna (Stato di bandiera) quale unica autorità che avrebbe dovuto assistere il natante». E ora la Cassazione chiude il cerchio.
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Vincenzo Onorato (Imagoeconomica)
La Procura etichettò come corruzione alcuni biglietti regalati dalle compagnie Moby, Tirrenia e Cin. I giudici ora impongono la restituzione della corrispondenza: ci vuole una notizia di reato solida prima del sequestro.
Non c’è miglior sponsor per il Sì al referendum sulla riforma della Giustizia dell’attività dei pm. Che ogni giorno vengono bacchettati dai giudici della Cassazione per la loro tendenza a debordare e a non rispettare i diritti degli indagati e delle loro difese. Ieri è arrivata la bocciatura alla pervicace insistenza (in diritto) della Procura di Palermo che voleva mandare in ceppi il vicepremier Matteo Salvini. Ma nelle stesse ore gli ermellini hanno spedito dietro la lavagna anche i pm della Procura di Genova, considerata un fortino delle toghe progressiste.
L’inchiesta è conosciuta a livello mediatico come Traghettopoli e ruota intorno ai biglietti regalati dalle compagnie Moby, Tirrenia e Cin a vip di vario genere. Per gli avvocati si tratta di banali regalie, magari punibili con semplici sanzioni amministrative e procedimenti disciplinari per i pubblici ufficiali. Per la Procura ci troveremmo di fronte a deprecabili casi di corruzione. Al centro dello scontro una questione giuridica: il sequestro del materiale informatico contenente messaggi di posta privati in assenza di una notizia di reato. O, meglio, secondo le difese, è stato prima disposto il sequestro e poi è stato cercato il reato. A ritroso.
In un procedimento che era iniziato per tutt’altre ipotesi: alcune navi dell’armatore Vincenzo Onorato non avrebbero rispettato i requisiti previsti dalla normativa internazionale in materia ambientale. Ma anche in questo caso l’ipotesi iniziale di frode in pubbliche forniture è definitivamente caduta. E, così, la Corte di Cassazione, che già in procedimenti passati di paletti ne aveva fissati parecchi, annullando l’ordinanza «senza rinvio», ha fatto saltare definitivamente il sequestro informatico disposto dalla Procura di Genova, imponendo l’«immediata restituzione del materiale in sequestro» alle compagnie. Compresa la copia forense. È qui entra in gioco la questione decisiva della proporzione. Non si può trovare un regalo (in questo caso un elenco di biglietti gratuiti), etichettarlo, senza prove, come mazzetta e cercare, successivamente, la dimostrazione del proprio assunto, rovistando in cellulari e caselle di posta. Perché quando si sequestra della corrispondenza privata bisogna indicare con precisione che cosa si stia cercando. Bisogna circoscrivere. Non solo usando le parole chiave. È necessario delimitare anche un preciso arco temporale per la caccia. Ma per farlo bisogna avere una pista solida, una notizia di reato con un corrotto e un corruttore. E magari occorre conoscere l’atto contrario ai doveri d’ufficio che ha determinato il regalo. Altrimenti si sta solo rovistando.
Era accaduto di recente a Brescia, con i sequestri all’ex procuratore aggiunto Mario Venditti. A Genova, però, l’annullamento della Cassazione viene considerato un colpo secco al cuore dell’indagine, perché riguardava il materiale prelevato dalle caselle di posta elettronica di 14 dirigenti del Gruppo Moby. File che, secondo gli investigatori, avrebbero contenuto le tracce di oltre 34.000 viaggi omaggio sui traghetti di Vincenzo Onorato. Tra chi ha viaggiato almeno una volta senza pagare sui traghetti del gruppo Onorato ci sono anche un paio di giudici, l’ex presidente di Regione Sardegna Christian Solinas, l’ex numero uno dei porti di Genova e Savona Paolo Signorini, il fondatore del Movimento 5 stelle Beppe Grillo. Per le difese (il ricorso era stato presentato dagli avvocati Pasquale Pantano, Oreste Dominioni, Angelo Paone, Nicola Zanobini e Luca della Casa) è una vittoria piena. Il nodo dei dati era emerso già ai primi di dicembre, quando a Genova, si erano confrontati con il pm Walter Cotugno sull’utilizzabilità di quel materiale gli avvocati degli oltre 120 indagati. Un elenco lungo e trasversale: ufficiali della Guardia costiera, direttori marittimi, manager del gruppo armatoriale, funzionari pubblici, politici, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine.
La decisione della Cassazione ora ridisegna i confini dell’inchiesta, già divisa in due tronconi. Da una parte quello per l’ipotesi di corruzione che coinvolge i pubblici ufficiali che, secondo il pm, avrebbero beneficiato degli omaggi in cambio di favori per gli armatori, addolcendo i controlli e le ispezioni sulle navi. Secondo gli inquirenti esisteva un vademecum sul trattamento «Vip»: dai direttori marittimi e comandanti del porto fino agli addetti di Capitaneria (ai quali sarebbe stato destinato uno sconto del 30%). L’altro filone, quello che ha, come detto, dato il via all’indagine, con le ipotesi di falso e frode (caduta), riguardava i motori di tre traghetti (sequestrati e poi dissequestrati dal Riesame). Ed è proprio mentre si indagava sulle forniture che è saltata fuori la storia dei viaggi in saldo. Nasce così il sequestro del materiale informatico, confermato dal Riesame. Gli avvocati si sono opposti e hanno presentato ricorso in Cassazione. Ma il pm ha deciso di andare avanti. E ha fissato per lo scorso 3 dicembre un accertamento tecnico irripetibile per estrarre le mail di suo interesse (attraverso una procedura regolamentata dall’articolo 360 del codice). In attesa della decisione del Palazzaccio i legali hanno preso tempo chiedendo che la ricerca nei dispositivi elettronici fosse effettuata davanti a un giudice terzo, con tutte le garanzie dell’incidente probatorio che è un vero e proprio istituto giuridico, in cui il gip nomina un proprio perito. Un passaggio che, in gran parte, adesso, non sarà più necessario svolgere. Con buona pace della Procura.
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Beppe Sala (Ansa)
Un marocchino è stato aggredito di notte, un egiziano ferito da connazionali inferociti.
Due accoltellamenti in poche ore, uno nella notte alla Barona e uno in pieno giorno davanti a una scuola a Sesto San Giovanni. È il segnale più chiaro di una violenza che ormai caratterizza sempre di più Milano e che oggi si mostra nei luoghi e negli orari in cui dovrebbe esserci maggiore sicurezza. Il capoluogo lombardo e la sua area metropolitana fanno i conti con un fenomeno che non è più episodico, ma strutturale.
Il primo episodio avviene poco dopo la mezzanotte di ieri in via Ovada, periferia Sud-Ovest della città. Un uomo viene aggredito da più persone, colpito con bastonate e diverse coltellate a testa, spalle e braccia. Poi la rapina. All’arrivo dei soccorsi perde i sensi e viene trasportato in codice rosso al Policlinico. Ha 24 anni, è di origine marocchina, ha precedenti.È fuori pericolo, ma resta ricoverato. Agli investigatori racconta di non conoscere i suoi aggressori, fuggiti subito dopo l’assalto.
Poche ore più tardi, la violenza cambia scenario ma non le modalità. A Sesto San Giovanni, davanti al liceo artistico De Nicola, uno studente di 18 anni di origine egiziana viene accoltellato all’addome all’uscita da scuola. Tre coetanei, anche loro egiziani, lo avvicinano e lo colpiscono, poi scappano. Alla base ci sarebbe una lite avvenuta il giorno prima su un autobus. Il ragazzo viene portato in codice rosso al Niguarda. È grave, ma non in pericolo di vita.
Questi due episodi si inseriscono in un quadro che i numeri ufficiali rendono difficile da minimizzare. Milano è oggi la Provincia con il più alto tasso di reati denunciati in Italia: quasi 7.000 ogni 100.000 abitanti. Secondo i dati del Viminale, nel 2024 in Italia sono stati denunciati circa 2,4 milioni di reati, con un aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. Milano, insieme a Roma e Firenze, concentra da sola quasi il 24% del totale nazionale.
Dentro questa massa di denunce, la voce che cresce di più è quella della violenza di strada. Le analisi presentate nei tavoli per l’ordine e la sicurezza in prefettura indicano che rapine e aggressioni restano elevate, soprattutto nelle aree urbane più dense e nei nodi della mobilità. Un dato pesa più degli altri: circa un reato predatorio su cinque, tra furti, rapine e aggressioni in strada, è commesso da minorenni o giovanissimi.
È in questo spazio che prende forma il fenomeno dei cosiddetti maranza. Non un’organizzazione strutturata, spiegano da tempo questura e prefettura, ma gruppi fluidi, spesso composti da adolescenti, che usano il coltello come strumento di intimidazione e affermazione. Nell’ultimo anno, nella sola area milanese, sono state segnalate quasi cento rapine commesse da minorenni con l’uso di lame: una ogni pochi giorni. Le lesioni aggravate tra under 18, in alcune zone, hanno registrato aumenti vicini al 50%. Il coltello diventa così un oggetto «normale», facile da portare, rapido da usare, difficile da controllare. Non sempre c’è l’intenzione di uccidere, ma spesso c’è l’illusione di poter gestire la violenza. Un’illusione che finisce in pronto soccorso.
A Sesto San Giovanni l’accoltellamento davanti alla scuola ha acceso lo scontro politico. L’opposizione parla di punto di non ritorno e accusa l’amministrazione di centrodestra di negare una realtà fatta di baby gang, aggressioni e paura quotidiana. Una distanza crescente tra la percezione dei cittadini e le risposte istituzionali. Il paradosso, sottolineano gli analisti della sicurezza, è evidente. Mentre alcuni reati tradizionali calano, la violenza di prossimità cresce. È più giovane, più impulsiva, più imprevedibile.
Due feriti, due storie diverse, una stessa città. E in messo una Milano che deve decidere se continuare a raccontare questi episodi come cronaca isolata o leggerli per quello che sono diventati: un segnale persistente di fragilità urbana e sociale, sottovalutata dalla giunta di centrosinistra di Beppe Sala.
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Giorgia Meloni in Aula rassicura: la decurtazione progressiva, dai sei mesi per chi maturerà i requisiti nel 2031 fino ai 30 per chi li raggiungerà nel 2035, «varrà soltanto per il futuro».
Come fa notare l’Inps, il riscatto della laurea non viene abolito e non cambia la sua procedura: resta un’operazione su domanda dell’interessato, con un onere calcolato e comunicato dall’Istituto e con l’accredito dei periodi nella posizione assicurativa. Quello che cambia, con l’emendamento alla manovra 2026, è il suo «peso» per chi lo usa soprattutto per accorciare la strada verso la pensione anticipata: dal primo gennaio 2031 una quota crescente dei mesi riscattati per la laurea triennale/breve viene infatti sterilizzata, cioè non può più essere conteggiata ai soli fini della maturazione del diritto all’uscita anticipata.
Il meccanismo si applica guardando non a quando è stato pagato il riscatto, ma a quando si maturano i requisiti per l’uscita anticipata: nel 2031 non concorrono 6 mesi tra quelli riscattati; nel 2032 diventano 12; poi 18 nel 2033, 24 nel 2034, fino ad arrivare a 30 mesi nel 2035. La platea indicata è quella del riscatto della «laurea breve», richiamata anche come diplomi universitari della legge 341/1990. La conseguenza pratica è che il riscatto continua a «esistere» come contribuzione accreditata, ma diventa progressivamente molto meno efficace come acceleratore del requisito contributivo. Con una triennale piena (36 mesi) il taglio a regime dal 2035 (30 mesi) lascia, per l’anticipo del diritto, un vantaggio residuo di appena 6 mesi; nel 2031, invece, la sterilizzazione è limitata a 6 mesi e, quindi, restano utilizzabili 30 mesi su 36 per raggiungere prima la soglia. Il punto che rende la stretta economicamente esplosiva è che il costo del riscatto non viene rimodulato. Nel 2025, per il riscatto a costo agevolato, l’Inps indica come base il reddito minimo annuo di 18.555 euro e l’aliquota del 33%, da cui deriva un onere pari a 6.123,15 euro per ogni anno di corso riscattato (per le domande presentate nel 2025).
In altri termini: si continua a pagare secondo i parametri ordinari dell’istituto, ma una fetta crescente di quel «tempo comprato» smette di essere spendibile per andare prima in pensione con l’anticipata. La contestazione più immediata riguarda l’effetto «a scadenza»: chi ha già riscattato oggi, ma maturerà i requisiti dopo il 2030, potrebbe scoprire che una parte dei mesi riscattati non vale più come si aspettava per centrare prima l’uscita dalla vita lavorativa.
La norma, in realtà, è destinata a creare dibattito politico. «Non c’è nessunissima intenzione di alzare l’età pensionabile», ha detto il senatore della Lega. Claudio Borghi, «e meno che mai di scippare il riscatto della laurea. Le voci scritte in legge di bilancio sono semplici clausole di salvaguardia che qualche tecnico troppo zelante ha inserito per compensare un possibile futuro aumento dei pensionamenti anticipati, che la norma incentiva sfruttando la possibilità data dal sistema 64 anni più 25 di contributi inclusa la previdenza complementare. Quello che succederà in futuro verrà monitorato di anno in anno ma posso dire con assoluta certezza che non ci sarà mai alcun aumento delle finestre di uscita o alcuno scippo dei riscatti della laurea a seguito di questa norma». «In assenza di intervento immediato del governo, noi sicuramente presenteremo emendamenti», conclude il leghista. A spazzare via ogni dubbio ci ha pensato il premier, Giorgia Meloni: «Nessuno che abbia riscattato la laurea vedra’ cambiata la sua situazione, la modifica varra’ per il futuro, in questo senso l’emendamento deve essere corretto» a detto in Senato.
Dal canto suo, il segretario del Pd, Elly Schlein, alla Camera, ha subito dichiarato la sua contrarietà all’emendamento. «Ieri (due giorni fa, ndr) avete riscritto la manovra e con una sola mossa fate una stangata sulle pensioni che è un furto sia ai giovani che agli anziani. È una vergogna prendervi i soldi di chi ha già pagato per riscattare la laurea: è un’altra manovra di promesse tradite. Dovevate abolire la Fornero e invece allungate l’età pensionabile a tutti. Non ci provate, non ve lo permetteremo».
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