
<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/oggi-in-edicola-2656897833.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="particle-1" data-post-id="2656897833" data-published-at="1646862376" data-use-pagination="False">
Papa Leone XIV (Getty)
Leone XIV all’Angelus manda un messaggio ai guerrafondai di Bruxelles: «Chi oggi crede alla pace è spesso ridicolizzato, spinto fuori dal discorso pubblico e accusato di favorire avversari e nemici». Evitare di trattare con Vladimir Putin ha invece provocato solo morti.
Papa Leone ieri all’Angelus ha detto che chi parla di pace rischia di fare la figura del fesso. Purtroppo, aggiungo io, chi invoca la tregua non corre soltanto il pericolo di essere trattato come lo scemo del villaggio, perifrasi meno carina però più efficace di quella usata dal pontefice, bensì di essere anche considerato un servo di Putin, ovvero un ignobile figuro che per soldi o per ambizioni di carriera è disposto a mettere la propria dignità al servizio di un regime dittatoriale. Sono quasi quattro anni, cioè da quando le truppe di Mosca hanno invaso l’Ucraina, che chiunque lanci un appello alla pace che non includa un richiamo alla vittoria totale di Kiev sull’invasore viene considerato un traditore. Sostenere la necessità di un cessate il fuoco, anche a costo di qualche concessione, è ritenuta una bestemmia.
Anzi, un’offesa al buonsenso e all’onore. Dire che sia necessario trattare invece che morire è infatti considerato un cedimento all’aggressore. Più o meno come una resa di fronte al prepotente di turno, con annessi richiami storici alla famosa occupazione della Cecoslovacchia da parte di Hitler nel 1939. Chi sollecita la pace e non la vittoria contro Putin sarebbe insomma un codardo, al pari di quelli che di fronte ai nazisti si voltarono dall’altra parte facendo finta di non vedere.
In realtà, la storia è molto diversa e i richiami di chi si appella al passato non hanno alcun fondamento. Innanzitutto, il rifiuto di ogni trattativa al momento ha prodotto solo centinaia di migliaia di morti e feriti da entrambi le parti. E probabilmente nei mesi a venire, se non si troverà la via per un armistizio, conteremo altre centinaia di migliaia di vittime, anche in Europa. Niente di questo accadde nel 1939, quando con la scusa di difendere le ragioni gli abitanti dei Sudeti, popolazione di origine germanica insediata tra la Boemia e la Slesia, i tedeschi occuparono la Cecoslovacchia. Nel nostro caso i richiami storici c’entrano come i cavoli a merenda, perché gli abitanti del Donbass non sono quelli dei Sudeti e le potenze occidentali, invece di voltarsi dall’altra parte, sono pienamente coinvolte in una guerra di cui non si intravede la fine.
Nonostante si combatta da quasi quattro anni e la scia di sangue si allunghi giorno dopo giorno, c’è ancora chi sostiene che è necessario continuare a combattere. Anzi, dato che molti ucraini per evitare di finire al fronte e perdere la vita si sono dati alla macchia, a fare la guerra dovrebbero essere gli stessi europei. I capi di stato maggiore inglese e francese già invitano i propri concittadini a prepararsi a perdere i figli in battaglia. E uno dei comandanti della Nato, l’ammiraglio Cavo Dragone, addirittura invoca un attacco preventivo alla Russia, che sebbene venga definito ibrido altro non vuol dire che iniziare un conflitto.
Sì, mentre il papa parla di pace, in Europa c’è tanta voglia di guerra. Di solito, attaccare serve a far dimenticare la crisi economica, consentendo alle industrie in difficoltà di riciclarsi con la produzione di armamenti. È ciò che accade in Germania e anche in Francia. Dove un’industria alla canna del gas si attacca ai cannoni e ai carri armati pur di risollevarsi.
Ciò detto, chi parla di pace non rischia solo di venire ridicolizzato, come dice il Papa, ma anche di finire nelle liste di proscrizione. Quando nei primi mesi di guerra qualche commentatore invitò a far sedere al tavolo della trattativa ucraini e russi, descrivendo i pericoli di un conflitto che poteva destabilizzare l’Europa, il Corriere della Sera si incaricò di comporre l’elenco dei putiniani d’Italia, colonna infame da porre al bando. Se fra qualche anno si ripercorrerà la storia dell’invasione dell’Ucraina, dell’arroganza di Putin e degli errori dell’Occidente, ma anche dei molti tentativi di raggiungere un cessate il fuoco, credo che sarà utile ripercorrere anche i tentativi di tappare la bocca, con accuse ingiuste e sgradevoli, a tutti coloro che invece delle armi avrebbero voluto far parlare il buonsenso. Ma purtroppo, come in molte guerre, il ragionamento non ha diritto di cittadinanza e dunque si è preferito dividere il mondo in due: i buoni di qua, i cattivi di là. Con il risultato che in nome della pace giusta si sono mandati a morire migliaia di persone e si è impedita a chi la sosteneva l’unica pace possibile.
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Checco Zalone (Ansa)
«Buen camino», commedia politicamente scorrettissima, fa il botto: 5,6 milioni di incasso al debutto (78,8% del totale). E oltre 680.000 persone nelle sale a Natale. Il comico pugliese brucia il colossal «Avatar»: l’ipocrisia ha rotto, gli italiani vogliono ridere.
erano alte ma il risultato ha superato ogni rosea previsione: con questa commedia diretta da Gennaro Nunziante e distribuita da Medusa, Zalone ha superato sé stesso conquistando il 78,8% della platea complessiva (680.000 persone nelle sale): nel 2016 Quo Vado, uscito il primo gennaio, aveva raggiunto il 65,6%, mentre nel 2020, con Tolo Tolo, uscito sempre il primo gennaio, si era assicurato il 75,7%. Il successo di Buen Camino è stato omogeneo su tutto il territorio nazionale e ha trainato l’intero comparto: era da 14 anni che, nel giorno di Natale, il mercato cinematografico non superava i 7 milioni di euro d’incasso.
Commedia divertente, leggera, prodotta da Indiana production con Medusa, in collaborazione con Mzl e Netflix, Buen Camino è la storia di un cafonissimo quanto ignorante miliardario, un produttore brianzolo di divani, che proprio mentre sta preparando la festa per il suo 50° compleanno scopre che la sua unica figlia, battezzata Cristal in onore del famoso champagne, si è dileguata. La ribellione al lusso sfrenato in cui vive il padre si concretizza nel Cammino di Santiago de Compostela: Zalone lo scopre e si mette all’inseguimento della figlia adolescente, tra ostelli spartani e sentieri polverosi. In sala fragorose risate per le gag a raffica e le battute, anche politicamente scorrette, come quella sul nuovo compagno della ex moglie, un regista palestinese, «l’unico che occupa dei territori a Gaza, gaza mia», e quella sull’ostello: «Mi sembra di stare in un film, Schindler’s List». Battute che hanno fatto indignare i soliti benpensanti, ma Zalone non si scompone: «Invece di lamentarsi del politicamente corretto», ha detto in conferenza stampa pochi giorni prima dell’uscita del film, «bisogna essere intelligentemente scorretti, io non avverto questo problema».
In un solo giorno, Buen Camino ha già raggiunto la settima posizione della classifica degli incassi dei film italiani usciti nel corso dell’ultimo anno: al primo posto c’è Follemente, commedia diretta da Paolo Genovese uscita nello scorso febbraio, che dopo dieci mesi nelle sale ha raggiunto quota 18 milioni di incassi; seguono Diamanti di Ferzan Özpetek nelle sale già da un anno; Io sono la fine del mondo di Angelo Duro , anche lui uscito un anno fa e diretto dallo stesso Nunziante; Io e te dobbiamo parlare, scritto, diretto e interpretato da Alessandro Siani, uscito a dicembre 2024; Oi vita mia di Pio e Amedeo, uscito lo scorso novembre, e La vita va così, diretto da Riccardo Milani, uscito a ottobre 2025.
Facendo qualche semplice calcolo sugli incassi che la commedia di Zalone potrà realizzare da oggi all’inizio di gennaio, è facile prevedere che Buen Camino schizzerà in vetta alla classifica dopo meno di due settimane di programmazione. In ogni caso, questa classifica fa comprendere in maniera cristallina che gli italiani al cinema vogliono divertirsi e rilassarsi: Checco Zalone, Angelo Duro, Pio e Amedeo e Alessandro Siani sono comici puri, ognuno con il suo stile ma tutti lontanissimi dal cinema che piace agli intellettuali, ai benpensanti, in sostanza quello a base di indigeribili mattoni drammatici costellati di messaggi politico-culturali. Non può non tornarci in mente la leggendaria, eroica ribellione del ragionier Ugo Fantozzi quando, obbligato con i suoi colleghi a partecipare all’ennesima proiezione della Corazzata Potëmkin al cineforum del professor Guidobaldo Maria Riccardelli, mentre in tv c’è Inghilterra-Italia di Coppa del Mondo, sale sul palco e esclama: «La Corazzata Potëmkin è una cag... pazzesca!», ricevendo i famosi 92 minuti di applausi.
Del resto, fino a qualche anno fa, i cinema a Natale si gremivano di spettatori che non vedevano l’ora di assistere all’annuale cinepanettone prodotto dalla Filmauro di Aurelione De Laurentiis, diretto per lo più da Neri Parenti e interpretati dalla coppia Massimo Boldi-Christian De Sica, con battute molto «politicamente scorrette», che forse oggi non potrebbero essere inserite, ma che facevano e fanno ancora ridere di gusto.
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2025-12-27
Davide Rondoni: «La destra ha l’egemonia. Ma la cultura non si fa soltanto con la politica»
Davide Rondoni (Imagoeconomica)
Il poeta interviene sulla polemica Marcello Veneziani-Alessandro Giuli: «Il ministro ha reagito a suo modo a una critica legittima, ora bisogna unirsi sulle proposte».
Poeta, cattolico romagnolo anticlericale, presidente del Comitato per le celebrazioni a 800 anni dalla morte di San Francesco e autore di La ferita, la letizia (Fazi Editore), Davide Rondoni predilige i trasversalismi e rifugge le divisioni schematiche tra destra e sinistra. Soprattutto, rifiuta l’idea della «politica come banco di prova di tutto».
Davide Rondoni, lei sta con Marcello Veneziani o con il ministro della Cultura, Alessandro Giuli?
«Io sto con Davide Rondoni. Sono amico di Veneziani e anche di Giuli, così come ho tanti amici in ambienti culturali diversi dal mio perché ritengo la capacità di amicizia, che non coincide con il consenso, uno degli insegnamenti più preziosi».
Tornando a Veneziani e Giuli?
«Credo che Veneziani abbia il diritto di criticare, ma forse da un intellettuale mi aspetterei anche delle proposte. Perciò posso capire che di fronte a una critica senza appello il ministro abbia mostrato le unghie».
Ha torto Veneziani quando dice che con il governo Meloni per gli italiani è cambiato poco o nulla?
«Bisogna vedere quanto è largo il campo di osservazione. Per esempio, la posizione dell’Italia in Europa è più forte di prima e questo rappresenta una speranza per un’Europa altrimenti votata al fallimento. Poi mi pare che iniziative importanti siano state prese nel campo della lotta alle dipendenze e nell’attenzione ad alcune esigenze del ceto medio. Certo, occorre fare di più per incentivare i giovani che sono la vera questione dell’Italia di oggi. Su questo punto mi aspetto delle proposte. Soprattutto, confido in alcuni radicali cambiamenti della scuola e dell’università. Anche su questo l’iniziativa degli intellettuali sarebbe opportuna».
Veneziani esorta a dire e fare qualcosa di destra come, in campo opposto, Nanni Moretti invitava D’Alema a dire qualcosa di sinistra?
«Non credo che Veneziani sia così banale, credo che voglia spronare a un’accelerazione. Poi, insisto, non esiste una cultura di destra e una di sinistra».
Il fatto di appartenere alla stessa area elimina il diritto di critica?
«Intanto bisogna capire che cos’è un’area culturale. Esistono aree politiche in cui convivono culture molto diverse».
All’interno della destra ci sono culture differenti?
«Ovviamente. Ma noi analizziamo sempre la cultura dal punto di vista della politica, come se la cultura si compisse nella politica. Mentre invece è il senso critico nei confronti dell’esistenza. Per esempio, ci sono culture che riconoscono il trascendente e culture che non lo riconoscono. Oppure culture che vedono nello Stato il massimo livello della vita pubblica e altre no».
La critica di un intellettuale o quella di un giornale d’area possono essere fonte di arricchimento?
«Se sono intelligenti, certamente».
Come ha trovato la replica del ministro Alessandro Giuli?
«Giuli è un uomo che ama il gesto elegante».
Ottimo eufemismo.
«Ama i gesti un po’ esagerati che appartengono alla sua estetica. Quindi capisco che abbia voluto fare un gesto del genere in risposta a una critica assoluta e, per alcune cose che sta realizzando, un po’ ingenerosa».
Sarebbe stato un segnale di maturità raccogliere la provocazione e invitare Veneziani a suggerire delle riforme o delle iniziative soddisfacenti?
«Non siamo di fronte a due bambini, quindi è inutile dettare il manuale di comportamento».
Ha ragione Franco Cardini quando dice che non ci sono più i Giuseppe Berto e gli Alfredo Cattabiani e il livello intellettuale della destra è crollato?
«Non so a quale perimetro si riferisce Cardini. Come ho già detto non considero destra e sinistra come campi culturali, ma come campi politici. All’amico Cardini dico di stare attenti a non incorrere nel rischio che molti anziani hanno di idealizzare i tempi della loro giovinezza».
È inevitabile che dopo decenni di egemonia della sinistra un cambio di orientamento radicale comporti assestamenti e contraccolpi anche nell’area culturale di riferimento?
«Se ci fosse stata l’egemonia culturale di sinistra non ci sarebbe stato Berlusconi al governo per vent’anni e non ci sarebbe Giorgia Meloni adesso. C’era forse una maggiore organizzazione degli apparati, ma questo non è cultura».
La maggioranza silenziosa esisteva e non aveva voce se non al momento del voto.
«Alessandro Manzoni ci insegna che il succo della storia lo tirano Renzo e Lucia, due ragazzi del popolo, e non i direttori dei giornali. Questo è un avvertimento su ciò che consideriamo cultura. Penso che mia nonna Peppa fosse molto più intelligente sulla vita di tanti blasonati editorialisti di giornale».
Che opinione ha dell’ultimo raduno di Atreju?
«Non c’ero mai stato prima e quest’anno sono andato perché mi hanno invitato per una conferenza. Non mi permetto di dare giudizi assoluti, mi è parsa una manifestazione popolare».
Giordano Bruno Guerri dice che Meloni preferisce una squadra compatta «con una fede enorme nel silenzio assertivo». Per questo, davanti a una critica il ministro ha reagito in modo così duro?
«Mi sembra offensivo pensare che ci siano intellettuali che prediligono il silenzio assertivo. Faccio un esempio: all’ultima conferenza nazionale sulle dipendenze, Giorgia Meloni ha concluso il suo intervento citando un mio articolo in cui spronavo il governo a fare di più per i giovani».
Che cosa propone per i giovani?
«Constato un paradosso: i nostri giovani sono competitivi e vincenti in tutti gli sport, ma poi sembra che per lavorare a certi livelli debbano andare all’estero. Cioè: abbiamo ragazzi bravi, ma non li facciamo correre. Perciò, avanzo due proposte scomode. La prima: rivedere gli ordini professionali perché favoriscano i giovani invece di rallentarli. La seconda: togliere il valore legale al titolo di studio».
Con quale obiettivo?
«Riconoscere l’energia dei nostri ragazzi e non mortificarli. Invito Giuli, Veneziani e Cardini a unirsi in questa battaglia per una giovane Italia».
La Rai è il test del cambiamento prodotto da un governo: qual è il suo giudizio sulla Rai attuale?
«Mi pare di vedere qualche fiction di buona qualità ed esperimenti interessanti di nuovi programmi. Poi preferisco parlare di poesia più che di televisione».
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Maria Sole Agnelli (Getty)
È morta oggi a 100 anni Maria Sole Agnelli, sorella dell’Avvocato. Donna defilata, ha condotto una vita al di fuori dei vertici industriali della dinastia, prediligendo i cavalli e la cultura.
C’era una volta la dinastia Agnelli, quella che ha dominato l’Italia per decenni. E poi c’era Maria Sole Agnelli, la più defilata, la più elegante, la meno interessata ai bulloni del potere industriale. Quella che, potendo sedersi al tavolo dove si decideva il destino della Fiat, preferì sempre un altro tavolo: quello della vita, della cultura, dei cavalli, dei comuni di Provincia, delle scuole da rimettere a posto. È morta ieri, a 100 anni compiuti, chiudendo in silenzio un capitolo laterale ma indispensabile della saga Agnelli.
Maria Sole a differenza di Susanna, non si è mai occupata attivamente del gruppo Fiat, nemmeno nei momenti più difficili, quelli delle crisi industriali, delle ristrutturazioni, delle notti lunghe in corso Marconi. Non per disinteresse, ma per scelta. Delegò tutto prima a Gianni e poi al nipote John Elkann con quella distanza gentile che è spesso più incisiva della presenza ossessiva.
Nata a Villar Perosa il 9 agosto 1925 Maria Sole arrivò al mondo quando il nome Agnelli era già sinonimo di potere. Mentre Gianni si preparava a diventare «l’Avvocato» e Susanna a frequentare la diplomazia e la politica nazionale, Maria Sole costruiva un profilo tutto suo. Moderna senza clamore, indipendente senza mai doverlo rivendicare. Non amava i riflettori, ma sapeva usarli quando serviva. E soprattutto sapeva spegnerli. La sua prima grande scelta di autonomia arrivò lontano da Torino e ancora più lontano dalla Fiat: l’Umbria. Dopo la morte del primo marito, Ranieri Campello della Spina, Maria Sole accettò una sfida che nessuno si aspettava: diventare sindaco di Campello sul Clitunno. Era il 1960, l’Italia stava scoprendo il boom economico e le donne in politica erano ancora un’eccezione. Lei vinse senza comizi, senza slogan, senza campagne elettorali. Ottocentocinquanta voti su 1.200 aventi diritto. Un plebiscito senza la Fiat sullo sfondo. Per dieci anni, fino al 1970, amministrò il piccolo Comune umbro con concretezza e buon senso: strade, scuole, valorizzazione delle Fonti del Clitunno, turismo culturale ed enogastronomico quando ancora non era una moda ma una necessità.
Accanto alla politica, un’altra grande passione: i cavalli. Una vocazione autentica. La sua scuderia divenne una delle più importanti del secondo dopoguerra italiano. Il purosangue Woodland la portò sul podio olimpico, con la medaglia d’argento nell’equitazione individuale ai Giochi di Monaco del 1972.
La famiglia rimase sempre il centro di gravità permanente. Dal primo matrimonio nacquero Virginia, Argenta, Cintia e Bernardino; dal secondo, con Pio Teodorani Fabbri, arrivò Edoardo.
Se c’è stato un luogo in cui Maria Sole ha esercitato un’influenza profonda e duratura, quello è stata la Fondazione Agnelli. Per 14 anni, fino al 2018, ne è stata presidente, guidando progetti su istruzione, cultura e ricerca. Lì, lontano dalle catene di montaggio e dalle assemblee degli azionisti, Maria Sole ha lasciato un segno concreto, puntando sulle scuole, sulle nuove generazioni, sulla qualità del sistema educativo. Un lavoro silenzioso, ma decisivo. Come lei.
Negli ultimi anni era tornata suo malgrado sotto i riflettori per una rapina choc nella sua villa di Torrimpietra, vicino a Roma. Un episodio di cronaca nera che aveva colpito l’opinione pubblica più per il nome che per i gioielli rubati. Lei, anche in quel caso, aveva attraversato l’evento con la stessa compostezza con cui aveva attraversato un secolo intero.
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