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2025-12-22
Meno migranti e meno Stato. Kast vuol riportare il Cile nell’orbita degli Stati Uniti
José Antonio Kast, neo presidente cileno (Ansa)
- Il presidente conservatore appena eletto ha sfruttato il malcontento per le politiche permissive del predecessore. Il voto obbligatorio (una novità) ha favorito la destra.
- Il Paese è tra i maggiori produttori mondiali delle materie chiave per la transizione energetica e per la difesa. Chi vuole investire, però, deve pagare royalty salate. Specie se paragonate a quelle chieste dall’Argentina.
Lo speciale contiene due articoli.
La vittoria schiacciante di José Antonio Kast al ballottaggio per le elezioni presidenziali del Cile il 14 dicembre scorso consolida l’allineamento del Sudamerica con l’era Trump, dimostrando che l’esasperazione per il crimine e l’immigrazione illegale pesa più delle ideologie del passato. Si può etichettare il voto cileno come nostalgia autoritaria, come stanno facendo in molti? Questa semplificazione eccessiva taglia fuori gran parte della realtà di quei Paesi in cui ciò che emerge è il più chiaro ripudio della sinistra, tra difficoltà economiche e violenza di strada.
Il conservatore (per alcuni, ultraconservatore) Kast ha vinto il ballottaggio con uno squillante 58,16% dei voti, superando nettamente la comunista Jeannette Jara. Questo risultato non è solo un cambio della guardia, dal presidente di sinistra Gabriel Boric al conservatore Kast, ma segna per il Cile un rifiuto storico della sinistra che ha radici profonde.
Kast viene spesso definito di estrema destra, ma la sua elezione è stata accompagnata da toni misurati e concilianti nel discorso di vittoria, volto a rassicurare gli elettori moderati. Il presidente eletto ha promesso di essere un leader conservatore di destra «misurato, ragionevole, sensato e di buon senso», che invita i cileni a lavorare sodo, a rispettare le istituzioni e le regole, con un messaggio ironico e chiaro: «Rendiamo di nuovo il Cile noioso». Nondimeno, il successo elettorale consolida la tendenza che ha visto quasi il 70% degli elettori sostenere candidati di destra al primo turno.
Un fattore cruciale che ha pesato sul risultato elettorale è stata la reintroduzione del voto obbligatorio per le elezioni presidenziali cilene. L’introduzione di questo sistema (con multe dai 30 ai 160 euro a chi non si reca a votare, cifre elevate nel contesto del reddito mensile cileno) ha mobilitato un’ampia fascia dell’elettorato che era generalmente disimpegnata dalla politica e profondamente diffidente nei confronti delle élite politiche. L’affluenza è stata dell’85%, il doppio dell’elezione precedente.
L’obbligo di voto si è rivelato essere chiaramente correlato a uno spostamento dell’elettorato verso destra.
Il vero motore di questa decisa virata non è stato un ritorno ideologico, ma una profonda e diffusa frustrazione popolare nei confronti dell’aumento della criminalità e dell’insicurezza. Il Cile, sebbene rimanga uno dei Paesi più sicuri della regione, è scosso da episodi di violenza e rapine brutali un tempo assai rari. La paura del crimine è diventata la principale preoccupazione dei cileni, con circa il 63% che la considera tale, un dato tra i più alti al mondo.
Gran parte di questo allarme è direttamente collegato all’afflusso di immigrati irregolari, in particolare dal Venezuela, con la popolazione residente nata all’estero che ha raggiunto circa il 10%, rispetto al 2,1% del 2010. Una vera e propria esplosione, cui è correlato un aumento della criminalità.
L’arrivo di violente bande transnazionali come il Tren de Aragua, originaria del centro penitenziario di Tocorón in Venezuela e coinvolta in rapimenti a scopo di estorsione, omicidi, tratta di esseri umani e torture, ha introdotto nel Cile reati un tempo sconosciuti.
Kast, cogliendo in pieno il sentimento anti immigrazione e le richieste di mano dura contro il crimine, ha promesso un governo di emergenza poiché il Paese «cade a pezzi». La sua agenda di sicurezza è intransigente e si ispira apertamente al modello adottato dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che gode di un indice di popolarità positivo tra oltre il 70% dei cileni. Da quando Bukele è entrato in carica (nel 2019) gli omicidi nel Salvador sono diminuiti del 90%. Come? Arresti di massa, sospensione di alcuni diritti costituzionali, una mega prigione di massima sicurezza.
Le promesse di Kast in questo senso non sono da meno e includono la militarizzazione della frontiera settentrionale con la costruzione di fossati, muri e recinzioni elettriche per contrastare l’immigrazione clandestina e i traffici. Il suo approccio è chiaro e afferma che i migranti irregolari dovranno andarsene o saranno espulsi. In un avvertimento diretto, Kast ha detto agli immigrati irregolari che possono andarsene «con i soli vestiti che hanno addosso», o saranno detenuti ed espulsi in seguito senza i loro averi.
Kast ha strategicamente evitato di porre i suoi valori sociali da fervente cattolico padre di nove figli (come l’opposizione all’aborto e al matrimonio omosessuale) al centro della campagna. Ma il ricordo del passato autoritario non è lontano, in Cile, come evidenziato dalla sua dichiarazione secondo cui l’ex dittatore Augusto Pinochet «voterebbe per me se fosse vivo». Una dichiarazione che risale a quasi dieci anni fa, ma che ancora pesa nel dibattito. Voci insistenti dicono che il padre di Kast, tedesco emigrato in Cile nel 1950 all’età di 26 anni, abbia fatto parte del Partito nazista tedesco. Tutti elementi che hanno scandalizzato la sinistra ma che non hanno influito sul consenso alle elezioni.
I sondaggi rivelano che gli elettori di Kast mostrano alti livelli di nostalgia autoritaria, con circa il 50% tra i suoi sostenitori che si dichiara d’accordo con l’idea che se i politici cileni seguissero gli ideali di Pinochet, il Paese recupererebbe il suo posto nel mondo. Questa «nostalgia» (che raggiunge il 30% dell’elettorato totale in Cile) è significativamente più alta dell’analoga «malinconia per il franchismo» registrata anche recentemente in Spagna (circa il 15% nel 2023).
Dall’altra parte, la candidata sconfitta Jeannette Jara, membro del Partito comunista fin dall’età di 14 anni, difendeva un modello sociale contestato ed era strettamente associata al governo uscente di Gabriel Boric, che ha registrato tassi di approvazione bassi (intorno al 30%) ed è stato percepito come inefficiente e incapace di affrontare la crisi di sicurezza.
Il Cile è strategicamente cruciale: è il primo produttore mondiale di rame e detiene circa un terzo delle riserve globali di litio, materiali indispensabili per l’elettrificazione e le tecnologie di difesa. Kast, la cui piattaforma economica è vigorosamente pro mercato, ha promesso un taglio dell’imposta sulle società (dal 27% al 23%), una drastica riduzione della spesa pubblica di 6 miliardi di dollari in 18 mesi e una crescita economica annua del 4%.
Mentre il Cile, anche sotto Boric, aveva lanciato la sua Strategia nazionale del litio per aumentare il controllo statale, la nuova amministrazione si troverà nel mezzo della competizione tra Stati Uniti e Cina per le risorse critiche. Sebbene la Cina sia il principale partner commerciale del Cile, gli Stati Uniti stanno aumentando la pressione per costruire una catena di approvvigionamento di litio slegata dalla lavorazione cinese. L’elezione di Kast segnala che il Cile è pronto a schierarsi con l’ondata conservatrice e pro mercato che sta rimodellando il continente sudamericano, promettendo ordine e prosperità in un’alleanza strategica con Washington.
Primo per il rame, secondo per il litio. Ma il tesoro di Santiago costa troppo
Con l’ascesa di José Antonio Kast il Cile non è solo un laboratorio politico della nuova destra sudamericana, ma anche il fulcro della competizione globale per i minerali critici. La sua immensa ricchezza geologica, fatta soprattutto di rame e dal litio, è la posta in gioco nella rinnovata rivalità tra Stati Uniti e Cina, che cercano di assicurarsi le forniture essenziali per la transizione energetica e le tecnologie di difesa.
Il Cile è da tempo un pilastro del settore minerario globale. È il primo produttore mondiale di rame, con una produzione che nel 2024 rappresentava circa il 24% dell’offerta mondiale, e detiene circa il 31% delle riserve globali del metallo. Per quanto riguarda il litio, il Cile è il secondo produttore globale e le sue vaste saline, come il Salar de Atacama, contengono circa un terzo delle riserve mondiali. Le salamoie cilene sono rinomate per le loro concentrazioni eccezionalmente elevate, che superano le 7.000 parti per milione.
Questa abbondanza di risorse ha reso il Cile un obiettivo strategico per entrambe le superpotenze. La Cina è il principale partner commerciale del Cile, arrivando a essere la destinazione del 66% delle esportazioni minerarie cilene nel 2024. La società cinese Tianqi detiene una partecipazione significativa (tra il 22% e il 24%) in Sqm (Sociedad Química y Minera), uno dei maggiori produttori di litio del Paese.
L’amministrazione Trump, che considera l’emisfero occidentale la sfera di influenza degli Stati Uniti, sta cercando di contenere questa penetrazione. Gli Stati Uniti intendono costruire una catena di fornitura di litio che sia indipendente dalla lavorazione cinese. A tal fine, Washington sfrutta l’accordo di libero scambio (Fta) con il Cile, offrendo alle esportazioni cilene di litio la possibilità di beneficiare di agevolazioni fiscali previste dalla legislazione statunitense. Un incentivo inteso a incoraggiare Santiago a uscire dalle catene di fornitura cinesi.
Il precedente governo di sinistra di Gabriel Boric aveva inaugurato una Strategia nazionale del litio. L’obiettivo era raddoppiare la produzione di litio in dieci anni e creare una Compagnia nazionale del litio statale. Il perno di questa strategia è stato l’accordo per una joint venture tra l’azienda statale Codelco e Sqm per lo sfruttamento del Salar de Atacama, con Codelco che avrebbe ottenuto la maggioranza (50% più un’azione) a partire dal 2031. Questo accordo era finalizzato a limitare l’influenza della cinese Tianqi in Sqm.
Tuttavia, l’approccio di Boric ha generato un intenso dibattito per la mancanza di trasparenza (trattativa diretta anziché gara d’appalto). Inoltre, i progetti per attrarre la lavorazione a valle (come gli impianti di catodi e batterie con Byd e Tsingshan) sono stati sospesi a causa del calo dei prezzi del litio e dei ritardi normativi, evidenziando i limiti dell’utilizzo degli investimenti diretti dall’estero per il rilancio industriale.
Il presidente eletto Kast, che ha più volte lodato Donald Trump, si muoverà in direzione opposta, promettendo un approccio chiaramente favorevole al mercato per incoraggiare gli investimenti. Il suo consulente economico, Jorge Quiroz, ha negato l’ispirazione diretta da Javier Milei, ma l’agenda è fortemente improntata a un liberismo fiscale e regolatorio.
Kast ha promesso di ridurre l’aliquota dell’imposta sulle società dal 27% al 23%. Inoltre, intende semplificare i permessi per i progetti, un’azione fondamentale dato che l’autorizzazione mineraria in Cile può richiedere dagli 8 agli 11 anni. Kast ha anche in programma di verificare le finanze e le operazioni di Codelco, un passo che riflette il suo orientamento anti statalista e la critica verso la precedente gestione.
Nonostante l’attrattiva del Cile, la corsa allo sfruttamento delle risorse è ostacolata da ostacoli normativi e sociali, riassunti nel trilemma minerario: sicurezza nazionale, fattibilità economica e sostenibilità.
Uno dei problemi più acuti è il conflitto socio-ambientale, che ha visto i contenziosi legati all’estrazione mineraria in Cile quasi quadruplicare tra il 2000 e il 2020. La principale fonte di preoccupazione è l’elevato consumo di acqua nell’estrazione, in particolare di litio, in un contesto di stress idrico in regioni aride come Atacama.
Inoltre, sebbene il Cile abbia cercato di attirare investimenti, le sue attuali royalty per il litio (circa il 40%) sono significativamente più alte rispetto ai regimi aperti al mercato di altri Paesi come l’Argentina (che applica una royalty del 3%), rendendo Buenos Aires una destinazione più attraente per gli investimenti.
Oltre alla grave questione della criminalità, il successo di Kast dipenderà dalla sua capacità di affrontare questi difficili problemi. L’allineamento ideologico del neopresidente con Washington è chiaro, ma la vera prova sarà se il suo governo riuscirà a convertire la vasta ricchezza geologica del Cile in stabilità duratura.
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Il presepe allestito a Chicago. Gesù bambino con le fascette ai polsi in segno di protesta contro l'ICE di Trump
- Spunta anche la mangiatoia rossa «contro i femminicidi» E nel Varesotto un gruppo di giovani devasta le statuine.
- Il primo a voler dare una rappresentazione concreta delle condizioni in cui è venuto al mondo il Salvatore fu San Francesco, dopo un pellegrinaggio in Terra Santa.
- Il professore di filosofia morale Giacomo Samek Lodovici: «Chi modifica l’iconografia della natività, di Giuseppe, di Maria e di loro figlio perde di vista il tema centrale della solennità. Che è così profondo da potercisi soffermare all’infinito».
Lo speciale contiene tre articoli.
Lo scrittore Giovannino Guareschi se ne costruì uno di cartone nel lager dov’era internato. Il nonno e il padre di Pupi Avati rischiarono di farsi fermare dai nazisti, nel Natale 1943, pur di reperire il materiale per allestirlo per quel bimbo che un giorno avrebbe fatto il regista. La poetessa Alda Merini ricordava con nostalgia di quando, fanciulla, «pregava davanti alla statuina» di Gesù. C’è poco da fare: il presepe è nel cuore degli italiani. Che, nonostante il vento della secolarizzazione, continuano a prepararlo nelle loro case. Purtroppo la riproduzione della Natività è però anche soggetta, ormai da diversi anni, a manipolazioni ideologiche di non poco conto, che piegano l’allestimento della grotta di Betlemme dove nacque il Bambinello a istanze immigrazioniste, pro Lgbt e chi più ne ha più ne metta.
Quest’anno in Italia il primato della creatività, si fa per dire, l’ha avuto don Vitaliano Della Sala, il quale in una chiesa a Capocastello di Mercogliano, Avellino, ha predisposto un presepe per «Gesù Bambina». «Voglio far discutere, lanciare un messaggio, la Chiesa deve trasformarsi», ha dichiarato il sacerdote da anni protagonista di iniziative di tenore provocatorio, «ho pensato di mettere nel presepe Gesù femmina perché dobbiamo avviare una discussione sul ruolo delle donne, servono donne sacerdoti, Dio si incarna anche nelle donne, io non sono contro il presepe, ma lo reinterpreto». Ecco, che don Della Sala «reinterpreti» il presepe non c’è dubbio; viene però da chiedersi se davvero sia così originale «reinterpretarlo», dato che lo si fa ormai quasi ovunque.
Si guardi per esempio alla Grand-Place, la piazza centrale di Bruxelles, dove quest’anno è stato allestito un presepe «inclusivo» ideato dell’architetto d’interni Victoria-Maria Geyer nel quale, al posto dei volti delle statuine principali, ci sono pezzi di stoffa multicolore per creare, appunto, «un mix inclusivo di tonalità della pelle». Ancora più creativi sono stati presso la Lake Street Church, a Chicago, dove si è pensato bene di predisporre un presepe per protestare contro le azioni di rimpatrio dell’Ice, l’agenzia federale per l’immigrazione. Per questo San Giuseppe e Maria sono presentati con una maschera antigas e Gesù Bambino con le mani legate da una fascetta, sdraiato su una coperta termica, mentre attorno a loro vigilano centurioni moderni, dotati di occhiali scuri e gilet verdi con la scritta «Ice».
Michael Dorgan di Fox News ha puntualizzato che le fascette sui polsi di Gesù Bambino «fanno riferimento diretto ai bambini che sono stati legati con le fascette dagli agenti durante un raid in un condominio di Chicago all’inizio di quest’anno». Sta di fatto che, stavolta, l’America non ha inventato nulla. Già dieci anni or sono, infatti, in Italia si allestivano allegramente presepi «rivisitati» per inneggiare all’accoglienza. Il riferimento è al presepe allestito nel 2015 all’interno del Tempio civico di Busto Arsizio: raffigurava immagini di profughi in cammino, padri e madri con bambini in braccio, barconi in mare e, al posto Gesù Bambino, in attesa della notte santa era stata deposta la foto di una mamma siriana. Per rafforzare il messaggio, l’anno successivo nel presepe preparato alla Casa della Carità via Brambilla, a Milano, si potevano vedere - alle spalle di Maria, Giuseppe e del Bambinello - decine di passaporti da ogni parte del mondo e di diversi colori, alcuni nuovi altri sgualciti a seguito delle traversie dei viaggi compiuti dai proprietari.
Quei primi tentativi di adattare la Natività alla causa immigrazionista hanno fatto scuola. Lo si è visto nei tanti presepi «per l’accoglienza» allestiti negli anni successivi, a partire da quello visto nel 2017 in piazza Zapelloni a Castenaso, nel Bolognese: il presepe - realizzato sulla base di un’idea venuta all’allora sindaco della cittadina emiliana, Stefano Sermenghi - vedeva l’inserimento di un gommone. E non per suggerire l’idea che Maria e Giuseppe potessero sognare vacanze marittime, bensì, come precisato da Sermenghi, per lanciare un segnale in favore di «un’accoglienza positiva nei confronti di chi arriva». Da allora in avanti la stessa idea del gommone è divenuta oggetto di rivisitazioni. Nel 2018 infatti a Trento, per l’esattezza davanti alla chiesa del Santissimo in via Corso 3 Novembre, la famiglia di Gesù si è trovata ospitata su una zattera; nel 2020 nel piazzale della chiesa di San Massimo, in via XX Settembre a Collegno, Torino, la Natività è invece stata accolta su un già più robusto barcone. Evoluto poi, nel 2022, in imbarcazione delle Ong, nel presepe allestito sul sagrato della parrocchia di San Bartolomeo della Beverara, quartiere Navile a Bologna.
Sbaglierebbe chi ritenesse però le rivisitazioni della grotta di Betlemme dove nacque il Bambinello possibili solo in chiave immigrazionista. C’è infatti, da tempo, anche la variante arcobaleno. Una delle prime in assoluto fu quella realizzata nel lontano 2012 in Colombia dall’analista politico Andrés Vásquez Moreno e dall’imprenditore Felipe Cárdenas Gonzalez, i quali - uniti civilmente allora da quattro anni - l’avevano allestita nella loro abitazione di Cartagena de Indias per sponsorizzare la legalizzazione del matrimonio gay; effettivamente arrivata, con una sentenza della Corte costituzionale, nel 2016. L’anno dopo, nel 2017, un altro presepe gay con due san Giuseppe vestiti ambedue di rosa fu poi postato su Twitter - attribuendolo all’inventiva dei suoi vicini di casa - dalla comica queer Cameron Esposito, «raggiante» per quell’avvistamento.
Manco a dirlo, il presepe Lgbt è da tempo presente anche da noi. Uno con «due mamme», per esempio, lo aveva allestito nel 2023 il già citato e infaticabile don Della Sala, sempre lui, di fatto eliminando - forse in omaggio alla lotta al patriarcato, chissà - la figura di San Giuseppe. Analogamente, lo stesso anno il partito politico +Europa aveva pubblicato sui suoi social un’immagine che ritraeva diverse natività alternative: tra queste una con due uomini e una con due donne, ma anche un’immagine di una ’mamma single’ e un’altra con una coppia bianca e un bambino nero. Il tutto accompagnato dalla scritta: «Il bello delle tradizioni è che possono cambiare».
Un’idea che non è chiaro quali consensi abbia portato a +Europa, di certo gli ha fatto perdere un’iscritta, uscita dal partito sbattendo la porta. Si tratta di Anita Likmeta, imprenditrice e scrittrice italiana nata in Albania, che su Facebook aveva reagito con queste parole alle manipolazioni del presepe: «Se +Europa pensa di difendere la diversità con ammiccamenti ipocriti alla tradizione, io per il ruolo della Madonna lesbica non sono disponibile. Addio a +Europa e buon suicidio politico (non assistito)!». La chiosa non sarà piaciuta a Marco Cappato, grande sostenitore della morte assistita, ma certo era graffiante. Proprio come graffiante, almeno nelle intenzioni dei collettivi studenteschi che l’avevano allestito nel 2015 a Torino, doveva essere un presepe «anti Lega» che ritraeva rispettivamente Matteo Salvini e Carlo Giovanardi come asinello e bue con accanto l’ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota nei panni di «pecorella» a vegliare su un Bambinello di colore con due Giuseppe. In quel caso, ci fu dunque una tragica sintesi della politicizzazione del presepe, della sua «reinterpretazione» sia in chiave Lgbt sia pro migranti. Un piccolo grande capolavoro ideologico, da allora mai più replicato. Sempre con un occhio all’ideologia, quest’anno l’Istituto di studi teologici e storico-sociali di Terni ha adagiato Gesù in una mangiatoia di colore rosso per richiamare «la lotta ai femminicidi». C’è invece chi i presepi li distrugge: è il caso del gruppo di ragazzi che ha vandalizzato quello allestito nella piazza centrale di Carnago, in provincia di Varese, per poi vantarsene sui social.
La tradizione inizia da san Francesco
Tutti, o comunque molti, sanno che il presepe è una invenzione di san Francesco d’Assisi. Meno nota risulta invece la storia che ha portato il Poverello a questa rivoluzionaria iniziativa, che da secoli attraversa la storia d’Italia e della cristianità, delle quali è divenuta un simbolo, in particolare durante il periodo natalizio. Da quanto riportano più fonti, tutto ebbe inizio da un viaggio in Terra Santa compiuto dall’Assisiate nel 1223. Un pellegrinaggio che gli lasciò dentro, una volta rimpatriato, il desiderio di realizzare qualcosa che rievocasse Betlemme; un desiderio che egli sentì di poter trasformare in realtà in un luogo che proprio Betlemme gli ricordava, vale a dire Greccio.
Peraltro, a Greccio Francesco sapeva di poter contare su un’amicizia significativa: quella col signore e castellano locale, il nobile Giovanni Velita. Secondo quanto riferiscono le Fonti francescane, circa due settimane prima della solennità natalizia il Poverello - galvanizzato anche dal fatto che poco prima, il 29 novembre, da papa Onorio III con la bolla Solet annuere aveva dato l’approvazione della Regola scritta per i confratelli - convocò Velita dandogli disposizioni ben precise. «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù», furono le parole dell’Assisiate - che anche per questa iniziativa aveva richiesto e ottenuto una approvazione papale -, «precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».
Da quanto ci è dato sapere, il signore di Greccio - servendosi d’una nicchia naturale - non realizzò propriamente un «presepe vivente», limitandosi a predisporre una greppia, colma di fieno, il bue e l’asino. Tuttavia, pare che l’impegno sia stato apprezzato anche dal Cielo che proprio la notte del 24 dicembre sembra abbia mandato in quel di Greccio una forte nevicata. Fu così quella santa notte si narra si sia creata una atmosfera incantevole e fiabesca, col bosco illuminato dalle fiaccole dei fedeli e dei frati accorsi per ammirare il presepe che, con tutte quelle presenze, di fatto sì divenne a tutti gli effetti «vivente». La cosa colpì molto i religiosi e lo stesso Poverello ne fu estasiato. «In quella scena commovente», ebbe infatti a commentare, «risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme».
Va però precisato come quello realizzato da Giovanni Velita, più che un presepe in senso oggi comune, fosse una primigenia rappresentazione della Natività. Dunque, si potrebbe dire - per quanto indubbiamente riuscito - solo un primo e parziale esperimento, rispetto a quello che poi sarebbe divenuto il simbolo tanto caro agli italiani. Una svolta maggiore in tal senso la si è avuta quando, circa 70 anni più tardi rispetto a quella «prima volta» di Greccio, papa Niccolò IV, il primo pontefice francescano, commissionò allo scultore Arnolfo di Cambio quello che è ritenuto il primo presepe artistico in marmo della storia, creato per la Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Un piccolo grande capolavoro ancora oggi conservato e visibile, ma che senza dubbio non sarebbe mai stato realizzato se, come dicevamo, decenni prima san Francesco d’Assisi non avesse maturato un desiderio e, in definitiva, un progetto che avrebbe segnato una svolta epocale.
«L’incarnazione di Dio è un mistero che non ha bisogno di aggiunte»
Non c’è modo migliore per provare a capire il fenomeno dei «presepi manipolati» che provare a parlare con un intellettuale che ben conosca anche la storia e i contributi sociali del cristianesimo. La Verità ha contattato Giacomo Samek Lodovici, professore associato di filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano nonché autore di più di 70 contributi scientifici - di etica fondamentale, di etica applicata, di antropologia filosofica -, di sei monografie e di testi proprio legati al tema, come Cristianesimo: ti siamo tutti debitori (Ida 2019).
Professore, ogni anno assistiamo a tentativi di «reinterpretare» il presepe, per renderlo più inclusivo, per così dire, verso le minoranze, siano esse gli immigrati o le persone Lgbt. Come giudica queste iniziative?
«Premesso che non posso giudicare le intenzioni di chiunque modifica il presepio, io non sono favorevole: queste versioni del presepe, come minimo, annacquano la sua finalità. L’inventore del presepe, cioè san Francesco, mise in scena il primo presepe vivente per aiutare la gente a comprendere in modo concreto il significato del Natale. Lo scopo del presepe è rammemorare, contemplare, e a qualcuno far conoscere per la prima volta, o comunque molto meglio, la nascita di Cristo, la nascita del Dio incarnato. Il presepe “attualizzato” viene, almeno in parte, depauperato del suo significato religioso. Talora viene trasformato in uno strumento politico».
Cosa non comprendono del presepe quanti ne presentano versioni «aggiornate»?
«Io non posso mettermi nella loro testa, però molti mi sembra che non colgano che questi presepi distolgono l’attenzione verso altri temi, giusti o sbagliati che siano, invece che concentrarla sull’inesauribile profondità del tema centrale del presepe: Cristo è vero Dio e vero uomo. Per farsi un’idea dell’inesauribilità di questo tema basti citare un solo esempio tra i tanti possibili: la terza parte della Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino. E la nascita di Gesù ha un ben preciso motivo, anch’esso da contemplare all’infinito: Cristo si incarna per poi versare il suo sangue per amore smisurato verso ogni persona, lasciandosi flagellare e crocifiggere. Ce n’è abbastanza per soffermarsi interminabilmente sul presepe, senza aggiungere altri temi».
La statuina di Gesù Bambino rappresenta solo, si fa per dire, un ornamento religioso o testimonia un elemento di civiltà?
«Il cristianesimo, a volte tradito da pessimi cristiani, ha introdotto per primo nella cultura, o ha rinforzato, alcuni cruciali concetti generatori di umanesimo e civiltà. Ad esempio il cristianesimo ha introdotto l’affermazione della dignità di ogni essere umano, anche delle donne. I Greci negavano la dignità alle donne, ai bambini, agli stranieri e giustificavano la schiavitù. Invece il cristianesimo include tutti nel gruppo degli esseri umani dotati di dignità incommensurabile. Gli stoici hanno sì riconosciuto l’uguaglianza di ogni uomo, però hanno sminuito la dignità umana per vari motivi lunghi da riassumere. Questo lascito del cristianesimo circa la dignità umana lo conferma anche Nietzsche, certo non sospettabile di simpatie cristiane, che critica l’affermazione cristiana della dignità umana; altri autori atei o agnostici invece l’hanno molto apprezzata, per esempio Karl Popper e Jürgen Habermas. Ma potrei menzionare altri concetti decisivi introdotti o valorizzati dal cristianesimo».
Quali? Alcuni esprimono inclusività?
«Per esempio la doverosità della premura verso tutti i malati - non solo verso quelli del proprio gruppo, religione, eccetera -, la doverosità della solidarietà verso tutti i poveri - non solo verso quelli del proprio gruppo, religione, eccetera - e la doverosità della sollecitudine verso tutti coloro che subiscono oppressioni e ingiustizie. Ma non sono stato minimamente esaustivo sui concetti cruciali che il cristianesimo ha introdotto o rinforzato; talora - lo ripeto - tradito da pessimi cristiani».
Quali valori invece discendono, per così dire, dalle statuine - e in definitiva dalle figure - di Maria e Giuseppe?
«Sui valori incarnati dalla Madonna e contemplabili già nel presepe ci sono interi trattati. Mi limito solo a un punto: l’eccezionale valorizzazione di una donna rilevata anche da un ateo come Jean-Paul Sartre, in una sua opera teatrale di Natale. Ecco in che modo egli descrive come mettere in scena la Natività, che si può contemplare nel presepe: «La Vergine guarda il bambino […], il Cristo è suo figlio, carne della sua carne […]. L’ha portato in grembo per nove mesi, gli offrirà il seno, e il suo latte diventerà il sangue di Dio. […] Lo stringe fra le braccia e dice: “Bambino mio”». E, prosegue Sartre, Maria pensa: “Questo Dio è mio figlio. È fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la mia, mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia. Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio”. Quanto a san Giuseppe, anche qui senza poter essere esaustivo, egli incarna svariati valori, contemplabili nel presepio e a partire dal presepio: la fede in Dio, l’obbedienza a Dio, la fortezza, la premura e la responsabilità verso Maria e Gesù, l’umiltà silenziosa, la laboriosità».
Inoltre la presenza di pastori, di Re Magi e altre figure testimonia come il presepe sia costitutivamente «inclusivo», senza bisogno di adattamenti di sorta. Concorda?
«Sì, perché i pastori sono dei poveri e i Magi sono personaggi stranieri che rappresentano tutti i popoli e quindi si può contemplare nel presepe che Gesù non è venuto solo per qualcuno, ma per tutte le persone della Terra».
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Andrea Ruggieri (Imagoeconomica)
L’ex parlamentare Andrea Ruggieri, che ha lanciato la candidatura di Occhiuto alla segreteria: «La strada non è il congresso, che si fonderebbe su tessere di dubbia provenienza».
«Fondare una corrente politica? Per carità, non diciamo parolacce. Ma una cosa è certa: Forza Italia deve camminare su gambe nuove, altrimenti sarà solo la cheerleader degli altri».
Anche quando si affronta la pesantezza della politica, le conversazioni con Andrea Ruggieri scivolano piane e leggere come certi vini bianchi in orario aperitivo. Forse anche per via di questa capacità di smussare gli angoli e sintonizzarsi con l’interlocutore, il giornalista ed ex parlamentare oggi viene inquadrato come uno dei tessitori del nuovo corso del partito. Tutto questo in vista di un congresso decisivo, che potrebbe contrapporre Antonio Tajani a Roberto Occhiuto. Ma Ruggieri frena, sollevando ombre sulla regolarità: «Non parlatemi di congresso. Sono liturgie ridicole. Per giunta si fonderebbe su tessere di dubbia provenienza».
Eppure la sfida alla dirigenza storica sembra essere ormai nei fatti. Il convegno intitolato «In libertà» organizzato da Ruggieri, alla presenza di un battaglione di parlamentari di Forza Italia, ha destato un certo clamore. La scelta scenografica di celebrare l’evento in via del Plebiscito, nella storica residenza romana di Silvio Berlusconi, è carica di simbologia. «Forza Italia non mi invita più ai convegni, e allora il convegno me lo sono fatto da solo, a Palazzo Grazioli, che per me è la capitale romana della cultura liberale. È stato un successo». Obiettivo: «Tornare allo spirito del ’94, come voleva il fondatore».
Diamo prima un’occhiata al curriculum. Avvocato penalista. Giornalista televisivo in Rai. Nipote di Bruno Vespa.
«Quattordici anni in Rai, senza mai arrivare alla conduzione proprio per via della parentela. È quella che io chiamo simpaticamente “la tassa Vespa”, che ho sempre dovuto sostenere. Ovviamente non per colpa sua».
Ma le avrà insegnato il mestiere.
«Assolutamente sì, zio Bruno è il numero uno, grande fonte di ispirazione e apprendimento. Mi dà suggerimenti e consigli insuperabili. Ma nessun dirigente tv può dire di aver mai ricevuto una sua telefonata in mio favore».
Primo incontro con Silvio Berlusconi?
«Nel 2015. Aveva adocchiato una puntata di un mio programma tv dedicato agli errori giudiziari, si chiamava Presunto colpevole. Mi telefonò sul cellulare: “Venga a Palazzo Grazioli”».
Faccia a faccia.
«L’incontro doveva durare 15 minuti: parlammo per un’ora e mezza. Poi ci siamo rivisti più volte, sempre in via del Plebiscito. Finché non mi disse: “Perché non lasci il lavoro e vieni a darmi una mano?”. Già all’epoca ero convinto che il partito andasse profondamente riformato».
Diventa collaboratore del leader, e poi parlamentare nelle file di Forza Italia. Ma poi non viene ricandidato.
«Lo sapevano tutti che i colonnelli del partito volevano farmi fuori. Ma avrei potuto continuare. Ho rifiutato tante offerte di rielezione provenienti da altri partiti: volevo mantenere intatta la stima degli elettori e la lealtà verso Berlusconi».
Una parentesi con Matteo Renzi, da direttore de Il Riformista.
«Gli voglio bene, è un politico di talento che però gioca nella squadra sbagliata. Sta personalizzando un po’ troppo gli attacchi contro Giorgia Meloni: purtroppo con lui la tattica prevale sulla strategia».
E arriviamo all’oggi. Da dove è partita l’idea di organizzare quel convegno proprio a Palazzo Grazioli?
«È stata un’idea mia, concretizzata con la mia società di comunicazione. Ufficialmente non ho invitato nessuno, a parte i 12 relatori di assoluto livello. Ma tutti erano benvenuti, e per tutti sarebbe stata un’opportunità».
Non è una corrente, si ripete, ma piuttosto una «scossa»?
«Questa in realtà è la prima di una lunga serie di scosse. Dopodiché, chi scambia un convegno per una corrente non capisce nulla di politica. Per fare una corrente bisogna stare in Parlamento, e io sono fuori».
La vecchia guardia del partito come l’ha presa?
«Qualcuno maligna e sparge veleno, ma non è una novità. A febbraio sicuramente replicheremo con un altro convegno a Milano».
Obiettivo finale?
«Condivido in pieno le parole di Pier Silvio Berlusconi: Forza Italia per vincere deve ritrovare freschezza, con idee e programmi rinnovati».
Cioè?
«Il partito va pesantemente aggiornato, perché continuando così si rischia di finire fuori mercato».
Fuori mercato?
«Oggi il mondo è cambiato, e non puoi continuare a vendere il Nokia prima generazione. Devi costruire l’ultimo modello e farlo bene».
Che significa?
«Bisogna importare personalità brillanti, dalla società civile e dalla tv. Tornare a puntare sulla capacità comunicativa, che è fondamentale. Chi parla di legame col territorio mi fa ridere. Tutto questo, ovviamente, rispettando il portato culturale del partito. E riscoprendo lo spirito liberale degli albori».
Antonio Tajani deve lasciare?
«Guardi, non avrei problemi a criticare il partito, anzi, avrei tutto il diritto di farlo, senza chiedere il permesso a nessuno».
Però?
«Però Tajani l’ho sempre rispettato, vanta rapporti internazionali fortissimi, sarebbe un perfetto presidente della Repubblica».
Lo sta candidando?
«Tuttavia, la storia italiana ci insegna che è quasi impossibile per un segretario di partito in carica salire al Quirinale. E io auguro a Tajani di avere davvero una chance per la presidenza».
Abbandonando la leadership, dunque?
«È proprio perché voglio bene a Forza Italia che immagino per questo partito un futuro diverso. Ci sono praterie di voti a disposizione, se solo riuscissimo a metterci al passo coi tempi».
Con il governatore calabrese Roberto Occhiuto?
«Ha fatto alcune mosse sacrosante. Si è scontrato con un governo amico, pur di liberalizzare il trasporto privato. Introduce l’intelligenza artificiale come elemento di meritocrazia nei bandi pubblici. Accetta e alimenta la concorrenza. Fatti alla mano, Occhiuto rappresenta bene, e meglio di altri, lo spirito di cui c’è bisogno».
Il congresso sarà una resa dei conti?
«I congressi sono una liturgia ridicola, non è questa la strada. E questo congresso in particolare si fonderebbe su tessere di dubbia provenienza».
Teme un congresso falsato?
«Fratelli d’Italia ha il 30% dei voti e 254.000 iscritti. Forza Italia con il 7% avrebbe 200.000 iscritti? Mi sembra un po’ anomalo».
Quindi si aspetta un cambio al vertice consensuale, senza spargimenti di sangue?
«Sì, nell’interesse di Forza Italia e della nazione. La dirigenza del partito dovrebbe prendere esempio dalla famiglia Berlusconi, che ha sempre mantenuto armonia ed unità, e che sta raggiungendo traguardi industriali giganteschi. Sono il simbolo di un’Italia che accetta le sfide del presente, e che non fa mai catenaccio».
Giorgia Meloni?
«Meno male che c’è lei a Palazzo Chigi, perché l’alternativa è il caos di una sinistra impresentabile».
Tuttavia?
«Tuttavia, una colonna liberale nella coalizione farebbe bene a tutti, anche in termini elettorali. Se liberali come Pera e Nordio sono finiti a orbitare intorno a Fratelli d’Italia, forse in Forza Italia c’è qualcosa di sbagliato nei meccanismi di selezione. Una Forza Italia più forte potrebbe favorire un cambiamento nel Ppe, aiutando Meloni a rivincere».
Quale è il rischio? Morire elettoralmente?
«Il rischio è che il partito si riduca a fare la “cheerleader” di chi vince. Come ha detto Nicola Porro, sulle battaglie di libertà non dobbiamo essere moderati, ma “estremisti liberali”».
Da dove dovrebbe partire la rivoluzione liberale?
«Dal riconoscimento di un principio: è solo l’iniziativa privata che crea ricchezza, non lo Stato. E quindi occorre invertire l’onere della prova nel processo tributario, esaltare il venture capitalism privato, dare in concessione ai privati i beni culturali, liberalizzare il settore taxi, togliere un anno di liceo e università abolendo la riforma Berlinguer. Meno tasse e burocrazia, più garantismo nei tribunali e più diritti civili».
Diritti civili?
«Il mondo cambia. È ora di riconoscere la cittadinanza automatica a chi la matura da straniero, e poi si discuta liberamente di eutanasia e delle adozioni dei single».
Con buona pace di Salvini?
«Competition is competition. Adesso sto andando negli Stati Uniti, dove affitterò l’auto di un privato cittadino che fa profitto, guidata da un immigrato che lavora e non delinque, visiterò località della Florida che richiamano turisti e producono posti di lavoro. Se ci riescono gli americani, perché in Italia, con la storia che abbiamo, non si può fare?».
Si immagina un partito alleato con Renzi e Calenda?
«Non finché continuano a frequentare personaggi come Bonelli e Silvia Salis».
Nel pantheon di Forza Italia, nelle ultime ore, ci è finito persino il sindaco di New York Mamdani, icona della sinistra.
«Io francamente preferisco Ronald Reagan e Tony Blair. Sono i punti di riferimento perfetti, con Silvio Berlusconi, per un partito che riscopre la sua natura originaria, riformista e liberale».
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Il castello di Melfi (iStock)
La ricchezza della storia della Basilicata rivive in un dialogo con cittadini e turisti.
Passeggiare tra i castelli normanni, assistere a uno spettacolo di piazza, sfogliare un libro o partecipare a un laboratorio per ragazzi: ogni attività di Fantastico Medioevo è pensata per coinvolgere e far sentire tutti parte di una storia più grande. E mentre il 2031 si avvicina, la Basilicata si prepara a festeggiare gli 800 anni delle Costituzioni di Federico II. Un anniversario che non sarà solo una celebrazione, ma anche un’occasione per riscoprire le proprie radici e proiettarle nel futuro. Perché, in fondo, conoscere il proprio passato è il modo migliore per immaginare il domani. L’iniziativa, ideata dalla presidenza della Regione Basilicata e coordinata dalla Fondazione Matera-Basilicata 2019, in collaborazione con l’Apt e la Lucania film commission, si traduce in un percorso lungo tre anni fatto di eventi, festival, spettacoli, mostre e laboratori. Che abbraccia i borghi del Vulture-Melfese Alto Bradano e li trasforma in palcoscenici viventi. L’obiettivo? Restituire a questa terra il ruolo che ebbe nel Medioevo e raccontarlo in modo nuovo, coinvolgente e inclusivo. Forse non tutti lo sanno, ma la Basilicata non fu mai un angolo dimenticato. Al contrario: Melfi era il cuore pulsante della politica medievale. Qui si svolsero concili papali, si alzarono castelli normanni e, soprattutto, nel 1231 l’imperatore Federico II di Svevia promulgò le celebri Costituzioni di Melfi. L’importanza della Basilicata nel Medioevo sta proprio in questo: non un margine, ma un crocevia. Non una terra isolata, ma un luogo di connessioni, di innovazioni e di visioni politiche che hanno segnato la storia europea. Ed è da qui che nasce il senso del progetto Fantastico Medioevo: restituire dignità e centralità a una regione che, ottocento anni fa, ha contribuito a scrivere una delle pagine più avanzate e moderne della nostra civiltà. Per questo, la Regione Basilicata ha creato una vera e propria «rete medievale» con i comuni del Vulture-Melfese Alto Bradano e con partner internazionali. In programma ci sono: un festival delle arti performative con musica, teatro e danza; una collana editoriale per Laterza; mostre multimediali e fotografiche; rievocazioni storiche e laboratori per le scuole; una web series dedicata ai luoghi e ai personaggi dell’epoca. Il presidente della Regione Vito Bardi è convinto: «Con Fantastico Medioevo vogliamo unire storia, identità e turismo per generare nuova economia e appartenenza. Melfi e gli altri comuni che hanno tracce medievali non sono mai stati valorizzati come meritano: ora lo faremo con forza e visione».
Accanto a lui, lo storico Fulvio Delle Donne, direttore scientifico del progetto, aggiunge: «La Basilicata è stata crocevia di culture straordinarie. Il nostro compito è restituire questa ricchezza, raccontando un Medioevo luminoso e moderno, lontano dagli stereotipi».
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