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2020-09-18
Nuovo trucco Ong: tuffo in mare e salvataggio
Ansa
I 76 immigrati «volontari» hanno indossato un giubbotto salvagente color arancio ciascuno e si sono tuffati in mare. Ufficialmente è per una protesta. Ma in realtà è perché così la nostra Guardia costiera è costretta a recuperarli. O, almeno, è questo, a quanto risulta alla Verità, il pensiero comune tra i soccorritori. Aggirati i divieti previsti dai Decreti sicurezza, sono partite decine di comunicazioni notturne inviate alla Capitaneria di porto. Il pressing della Ong Open Arms si è concentrato su asseriti «problemi di sicurezza» a bordo, perché gli immigrati volevano sbarcare a tutti i costi. La strategia è continuata sui social: «Da ieri (martedì per chi legge ndr) davanti al porto di Palermo, come da indicazioni, siamo rimasti in attesa di istruzioni per sbarcare cercando di gestire la situazione critica a bordo». Poi, i tuffi. I 76 della protesta sono stati tutti recuperati dalle motovedette della Capitaneria di porto prima che raggiungessero a nuoto la terraferma. Fanno parte dei 275 (provenienti da Egitto, Burkina Faso, Ghana, Siria e Costa d'Avorio), tra i quali ci sarebbero anche 56 minori, tirati su in tre distinti interventi dalla nave della Ong Spagnola, che dopo aver tentato un approdo a Malta ha puntato verso Palermo. «L'altro giorno», ha twittato la Ong, «momenti di tensione sulla Open Arms dopo la risposta negativa di Malta di concedere riparo per il temporale». E dopo aver ricevuto il solito «niet» definitivo dalle autorità maltesi, alcuni immigrati si sono buttati giù dalla nave. È a quel punto che Roma ha concesso alla nave spagnola di dirigersi verso Palermo, con l'ordine di tenersi ad almeno cinque miglia dalla costa, in attesa di successive indicazioni. Una volta giunta di fronte al porto siciliano, la Open Arms ha chiesto istruzioni al Viminale sulla possibilità di sbarco. Ma la pressione sull'Italia è cominciata martedì: «Continuiamo a ripararci in acque territoriali italiane, con grande tensione a bordo». E siccome i tuffi in mare avevano già funzionato, gli immigrati ci hanno riprovato. Qualcuno ha fornito loro i giubbotti di salvataggio e uno dopo l'altro si sono tuffati. Open Arms pian piano si è avvicinata alla costa, fermandosi a meno di un miglio, nello specchio d'acqua del porto, a poche centinaia di metri dalla Sea Watch 4.
I 76 che si erano tuffati, dopo gli accertamenti sanitari, saliranno sulla nave Allegra, che nel frattempo ha fatto sbarcare 41 minori non accompagnati e una decina di donne.
E mentre la Ong spagnola attende indicazioni dal governo italiano, fa sapere che «tutte le persone che soccorriamo fuggono da contesti di violenza nei propri Paesi di origine e rischiano la vita in mare in cerca di un futuro migliore per loro e per le proprie famiglie. Quello che vogliono è costruirsi un futuro in paesi democratici dove possano vivere in pace e sicurezza». È per questo motivo che la Ong, sostenuta anche da Emergency, propone «protocolli di ricerca e soccorso strutturali». La finalità è un «approdo in un porto sicuro come previsto dalle Convenzioni internazionali, dal diritto del mare, e dalle costituzioni democratiche». L'ultima comunicazione usata come una leva per tentare di aprire il porto è questa: «A bordo alcune delle persone salvate presentano ustioni di terzo grado, problemi di salute e sintomi da stress post traumatico dovuti alla violenza o agli abusi che hanno subito nei Paesi di origine e di transito, oltre che alla dura traversata in mare». Il leader del Carroccio Matteo Salvini ha sparato ad alzo zero: «Dall'Europa sono arrivate solo parole, ma la certezza è che al momento ci sono 2.000 clandestini a bordo di navi da crociera al largo della Sicilia, a spese degli italiani, e altri 275 stanno arrivando a bordo di una nave di una Ong spagnola, visto che sono stati rifiutati da Malta. L'Italia non può essere il campo profughi d'Europa». Anche il governatore siciliano Nello Musumeci è stato molto duro: «Leggere sui giornali che l'Europa cambia la linea sui migranti, mentre tutte le Ong si dirigono solo verso i porti siciliani, suona come una beffa. Sembra che la cosa non interessi più a nessuno, ma continua ad essere la Sicilia a sostenere il peso più grande di questa emergenza nell'emergenza».
Il fronte caldo dell'immigrazione resta la Sicilia. Sette dei 60 sbarcati sulla spiaggia di Calamosche, nell'area della riserva naturale di Vendicari, a Sud di Siracusa, sono risultati positivi al Covid. Ora sono su una nave per la quarantena ormeggiata nella rada di Siracusa. E Musumeci comincia a perdere la pazienza: «Non si è visto un solo intervento concreto per restituire sicurezza sanitaria a quei luoghi e alla nostra popolazione. Tanti impegni ma nessun fatto concreto. Quando le parole diventeranno azioni? Siate veloci, presidente Conte e ministro Lamorgese, come fate quando impugnate una nostra ordinanza. Non costringeteci ad agire di nuovo». Ma anche in Sardegna continuano gli arrivi. Ieri un tentativo di sbarco si è trasformato in tragedia: un barchino con 14 persone a bordo è affondato. C'è un disperso.
Sul patto di Dublino solo parole Italia ostaggio degli Stati del Nord
«Aboliremo il trattato di Dublino». La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento di chiusura sullo stato dell'Unione al Parlamento europeo dopo aver parlato di lavoro, clima e lotta al virus ha lanciato il suo annuncio bomba: «Nel nuovo piano sulle migrazioni sostituiremo il regolamento di Dublino con un nuovo sistema europeo di governance delle migrazioni. Avrà strutture comuni per l'asilo e per i rimpatri e un forte meccanismo di solidarietà». La revisione di Dublino significherebbe mettere fine alla norma dello «Stato di primo approdo», che obbliga soprattutto Italia e Grecia a farsi carico - per mesi e spesso anni - di tutti i richiedenti asilo che sbarcano sulle coste europee. L'annuncio è stato subito osannato dal governo giallorosso, anche se non c'è niente di chiaro né definitivo visto che sarà presentato soltanto mercoledì prossimo, il giorno prima dell'inizio del Consiglio europeo con tutti i capi di Stato e di governo dell'Ue. Difficile quindi che il nuovo Migration Pact possa trovare subito accoglienza e condivisione anche se la von der Leyen ha sottolineato: «Salvare vite umane non è un optional. E quei Paesi che adempiono ai loro doveri giuridici e morali o che sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà dell'intera Ue. Voglio essere chiara, se noi acceleriamo, mi aspetto che accelerino anche tutti gli Stati membri». L'Italia, già con l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini premeva per rendere obbligatorio il meccanismo di ripartizione dei migranti recuperati in mare ma essendo l'adesione volontaria, ad ogni sbarco il nostro Paese è costretto a una trattativa spesso inconcludente. Comunque l'avviso della presidente sembra diretto ai Paesi del blocco nordeuropeo, da sempre sordi alla condivisione degli immigrati. Il blocco di Visegrad e l'Austria non sono mai stati propensi a prendere «quote di stranieri». A mettere i puntini sulle i è subito Giorgia Meloni, leader di Fdi: «Il trattato riguarda i rifugiati che sono il 10% dei migranti che arrivano da noi. Ma noi dobbiamo risolvere il problema del rimanente 90%, cioè degli immigrati clandestini che noi, anche se modificassimo cento volte il decreto di Dublino, non potremmo comunque ricollocare in Europa».
Il piano non è ancora noto ma Ursula von der Layen ha già fatto capire che non vuole ripetere il flop del 2015, quando il suo predecessore, Jean- Claude Juncker, lanciò la sua riforma che però venne bocciata da alcuni governi: «Se facciamo compromessi possiamo trovare soluzioni. I governi che fanno di più e sono più esposti ai flussi devono poter contare sulla solidarietà europea». Quello che anticipa è che ci sarà «un link tra asilo e rimpatri con la distinzione tra chi avrà diritto di rimanere e chi no». L'obiettivo di fondo sarà costruire «confini esterni forti e vie legali di migrazione». Una rassicurazione per i Paesi che lei definisce «portatori di odio» e un gesto di «riguardo» per l'Italia. Tutto apparentemente gratis come il Recovery fund? Vedremo quando si passerà dagli annunci ai fatti concreti.
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La nave spagnola Open Arms è riuscita a far recuperare dalla nostra Guardia costiera 76 migranti al largo di Palermo. Lo schema? Avvicinarsi alle coste italiane, lanciare un allarme e far immergere i migranti dotati di salvagente. Il recupero, così, diventa obbligato.Nonostante i proclami di Ursula von der Leyen, Germania e soci non ci aiuteranno.Lo speciale contiene due articoliI 76 immigrati «volontari» hanno indossato un giubbotto salvagente color arancio ciascuno e si sono tuffati in mare. Ufficialmente è per una protesta. Ma in realtà è perché così la nostra Guardia costiera è costretta a recuperarli. O, almeno, è questo, a quanto risulta alla Verità, il pensiero comune tra i soccorritori. Aggirati i divieti previsti dai Decreti sicurezza, sono partite decine di comunicazioni notturne inviate alla Capitaneria di porto. Il pressing della Ong Open Arms si è concentrato su asseriti «problemi di sicurezza» a bordo, perché gli immigrati volevano sbarcare a tutti i costi. La strategia è continuata sui social: «Da ieri (martedì per chi legge ndr) davanti al porto di Palermo, come da indicazioni, siamo rimasti in attesa di istruzioni per sbarcare cercando di gestire la situazione critica a bordo». Poi, i tuffi. I 76 della protesta sono stati tutti recuperati dalle motovedette della Capitaneria di porto prima che raggiungessero a nuoto la terraferma. Fanno parte dei 275 (provenienti da Egitto, Burkina Faso, Ghana, Siria e Costa d'Avorio), tra i quali ci sarebbero anche 56 minori, tirati su in tre distinti interventi dalla nave della Ong Spagnola, che dopo aver tentato un approdo a Malta ha puntato verso Palermo. «L'altro giorno», ha twittato la Ong, «momenti di tensione sulla Open Arms dopo la risposta negativa di Malta di concedere riparo per il temporale». E dopo aver ricevuto il solito «niet» definitivo dalle autorità maltesi, alcuni immigrati si sono buttati giù dalla nave. È a quel punto che Roma ha concesso alla nave spagnola di dirigersi verso Palermo, con l'ordine di tenersi ad almeno cinque miglia dalla costa, in attesa di successive indicazioni. Una volta giunta di fronte al porto siciliano, la Open Arms ha chiesto istruzioni al Viminale sulla possibilità di sbarco. Ma la pressione sull'Italia è cominciata martedì: «Continuiamo a ripararci in acque territoriali italiane, con grande tensione a bordo». E siccome i tuffi in mare avevano già funzionato, gli immigrati ci hanno riprovato. Qualcuno ha fornito loro i giubbotti di salvataggio e uno dopo l'altro si sono tuffati. Open Arms pian piano si è avvicinata alla costa, fermandosi a meno di un miglio, nello specchio d'acqua del porto, a poche centinaia di metri dalla Sea Watch 4. I 76 che si erano tuffati, dopo gli accertamenti sanitari, saliranno sulla nave Allegra, che nel frattempo ha fatto sbarcare 41 minori non accompagnati e una decina di donne.E mentre la Ong spagnola attende indicazioni dal governo italiano, fa sapere che «tutte le persone che soccorriamo fuggono da contesti di violenza nei propri Paesi di origine e rischiano la vita in mare in cerca di un futuro migliore per loro e per le proprie famiglie. Quello che vogliono è costruirsi un futuro in paesi democratici dove possano vivere in pace e sicurezza». È per questo motivo che la Ong, sostenuta anche da Emergency, propone «protocolli di ricerca e soccorso strutturali». La finalità è un «approdo in un porto sicuro come previsto dalle Convenzioni internazionali, dal diritto del mare, e dalle costituzioni democratiche». L'ultima comunicazione usata come una leva per tentare di aprire il porto è questa: «A bordo alcune delle persone salvate presentano ustioni di terzo grado, problemi di salute e sintomi da stress post traumatico dovuti alla violenza o agli abusi che hanno subito nei Paesi di origine e di transito, oltre che alla dura traversata in mare». Il leader del Carroccio Matteo Salvini ha sparato ad alzo zero: «Dall'Europa sono arrivate solo parole, ma la certezza è che al momento ci sono 2.000 clandestini a bordo di navi da crociera al largo della Sicilia, a spese degli italiani, e altri 275 stanno arrivando a bordo di una nave di una Ong spagnola, visto che sono stati rifiutati da Malta. L'Italia non può essere il campo profughi d'Europa». Anche il governatore siciliano Nello Musumeci è stato molto duro: «Leggere sui giornali che l'Europa cambia la linea sui migranti, mentre tutte le Ong si dirigono solo verso i porti siciliani, suona come una beffa. Sembra che la cosa non interessi più a nessuno, ma continua ad essere la Sicilia a sostenere il peso più grande di questa emergenza nell'emergenza». Il fronte caldo dell'immigrazione resta la Sicilia. Sette dei 60 sbarcati sulla spiaggia di Calamosche, nell'area della riserva naturale di Vendicari, a Sud di Siracusa, sono risultati positivi al Covid. Ora sono su una nave per la quarantena ormeggiata nella rada di Siracusa. E Musumeci comincia a perdere la pazienza: «Non si è visto un solo intervento concreto per restituire sicurezza sanitaria a quei luoghi e alla nostra popolazione. Tanti impegni ma nessun fatto concreto. Quando le parole diventeranno azioni? Siate veloci, presidente Conte e ministro Lamorgese, come fate quando impugnate una nostra ordinanza. Non costringeteci ad agire di nuovo». Ma anche in Sardegna continuano gli arrivi. Ieri un tentativo di sbarco si è trasformato in tragedia: un barchino con 14 persone a bordo è affondato. C'è un disperso. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nuovo-trucco-ong-tuffo-in-mare-e-salvataggio-2647702342.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sul-patto-di-dublino-solo-parole-italia-ostaggio-degli-stati-del-nord" data-post-id="2647702342" data-published-at="1600382011" data-use-pagination="False"> Sul patto di Dublino solo parole Italia ostaggio degli Stati del Nord «Aboliremo il trattato di Dublino». La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento di chiusura sullo stato dell'Unione al Parlamento europeo dopo aver parlato di lavoro, clima e lotta al virus ha lanciato il suo annuncio bomba: «Nel nuovo piano sulle migrazioni sostituiremo il regolamento di Dublino con un nuovo sistema europeo di governance delle migrazioni. Avrà strutture comuni per l'asilo e per i rimpatri e un forte meccanismo di solidarietà». La revisione di Dublino significherebbe mettere fine alla norma dello «Stato di primo approdo», che obbliga soprattutto Italia e Grecia a farsi carico - per mesi e spesso anni - di tutti i richiedenti asilo che sbarcano sulle coste europee. L'annuncio è stato subito osannato dal governo giallorosso, anche se non c'è niente di chiaro né definitivo visto che sarà presentato soltanto mercoledì prossimo, il giorno prima dell'inizio del Consiglio europeo con tutti i capi di Stato e di governo dell'Ue. Difficile quindi che il nuovo Migration Pact possa trovare subito accoglienza e condivisione anche se la von der Leyen ha sottolineato: «Salvare vite umane non è un optional. E quei Paesi che adempiono ai loro doveri giuridici e morali o che sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà dell'intera Ue. Voglio essere chiara, se noi acceleriamo, mi aspetto che accelerino anche tutti gli Stati membri». L'Italia, già con l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini premeva per rendere obbligatorio il meccanismo di ripartizione dei migranti recuperati in mare ma essendo l'adesione volontaria, ad ogni sbarco il nostro Paese è costretto a una trattativa spesso inconcludente. Comunque l'avviso della presidente sembra diretto ai Paesi del blocco nordeuropeo, da sempre sordi alla condivisione degli immigrati. Il blocco di Visegrad e l'Austria non sono mai stati propensi a prendere «quote di stranieri». A mettere i puntini sulle i è subito Giorgia Meloni, leader di Fdi: «Il trattato riguarda i rifugiati che sono il 10% dei migranti che arrivano da noi. Ma noi dobbiamo risolvere il problema del rimanente 90%, cioè degli immigrati clandestini che noi, anche se modificassimo cento volte il decreto di Dublino, non potremmo comunque ricollocare in Europa». Il piano non è ancora noto ma Ursula von der Layen ha già fatto capire che non vuole ripetere il flop del 2015, quando il suo predecessore, Jean- Claude Juncker, lanciò la sua riforma che però venne bocciata da alcuni governi: «Se facciamo compromessi possiamo trovare soluzioni. I governi che fanno di più e sono più esposti ai flussi devono poter contare sulla solidarietà europea». Quello che anticipa è che ci sarà «un link tra asilo e rimpatri con la distinzione tra chi avrà diritto di rimanere e chi no». L'obiettivo di fondo sarà costruire «confini esterni forti e vie legali di migrazione». Una rassicurazione per i Paesi che lei definisce «portatori di odio» e un gesto di «riguardo» per l'Italia. Tutto apparentemente gratis come il Recovery fund? Vedremo quando si passerà dagli annunci ai fatti concreti.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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