True
2020-09-18
Nuovo trucco Ong: tuffo in mare e salvataggio
Ansa
I 76 immigrati «volontari» hanno indossato un giubbotto salvagente color arancio ciascuno e si sono tuffati in mare. Ufficialmente è per una protesta. Ma in realtà è perché così la nostra Guardia costiera è costretta a recuperarli. O, almeno, è questo, a quanto risulta alla Verità, il pensiero comune tra i soccorritori. Aggirati i divieti previsti dai Decreti sicurezza, sono partite decine di comunicazioni notturne inviate alla Capitaneria di porto. Il pressing della Ong Open Arms si è concentrato su asseriti «problemi di sicurezza» a bordo, perché gli immigrati volevano sbarcare a tutti i costi. La strategia è continuata sui social: «Da ieri (martedì per chi legge ndr) davanti al porto di Palermo, come da indicazioni, siamo rimasti in attesa di istruzioni per sbarcare cercando di gestire la situazione critica a bordo». Poi, i tuffi. I 76 della protesta sono stati tutti recuperati dalle motovedette della Capitaneria di porto prima che raggiungessero a nuoto la terraferma. Fanno parte dei 275 (provenienti da Egitto, Burkina Faso, Ghana, Siria e Costa d'Avorio), tra i quali ci sarebbero anche 56 minori, tirati su in tre distinti interventi dalla nave della Ong Spagnola, che dopo aver tentato un approdo a Malta ha puntato verso Palermo. «L'altro giorno», ha twittato la Ong, «momenti di tensione sulla Open Arms dopo la risposta negativa di Malta di concedere riparo per il temporale». E dopo aver ricevuto il solito «niet» definitivo dalle autorità maltesi, alcuni immigrati si sono buttati giù dalla nave. È a quel punto che Roma ha concesso alla nave spagnola di dirigersi verso Palermo, con l'ordine di tenersi ad almeno cinque miglia dalla costa, in attesa di successive indicazioni. Una volta giunta di fronte al porto siciliano, la Open Arms ha chiesto istruzioni al Viminale sulla possibilità di sbarco. Ma la pressione sull'Italia è cominciata martedì: «Continuiamo a ripararci in acque territoriali italiane, con grande tensione a bordo». E siccome i tuffi in mare avevano già funzionato, gli immigrati ci hanno riprovato. Qualcuno ha fornito loro i giubbotti di salvataggio e uno dopo l'altro si sono tuffati. Open Arms pian piano si è avvicinata alla costa, fermandosi a meno di un miglio, nello specchio d'acqua del porto, a poche centinaia di metri dalla Sea Watch 4.
I 76 che si erano tuffati, dopo gli accertamenti sanitari, saliranno sulla nave Allegra, che nel frattempo ha fatto sbarcare 41 minori non accompagnati e una decina di donne.
E mentre la Ong spagnola attende indicazioni dal governo italiano, fa sapere che «tutte le persone che soccorriamo fuggono da contesti di violenza nei propri Paesi di origine e rischiano la vita in mare in cerca di un futuro migliore per loro e per le proprie famiglie. Quello che vogliono è costruirsi un futuro in paesi democratici dove possano vivere in pace e sicurezza». È per questo motivo che la Ong, sostenuta anche da Emergency, propone «protocolli di ricerca e soccorso strutturali». La finalità è un «approdo in un porto sicuro come previsto dalle Convenzioni internazionali, dal diritto del mare, e dalle costituzioni democratiche». L'ultima comunicazione usata come una leva per tentare di aprire il porto è questa: «A bordo alcune delle persone salvate presentano ustioni di terzo grado, problemi di salute e sintomi da stress post traumatico dovuti alla violenza o agli abusi che hanno subito nei Paesi di origine e di transito, oltre che alla dura traversata in mare». Il leader del Carroccio Matteo Salvini ha sparato ad alzo zero: «Dall'Europa sono arrivate solo parole, ma la certezza è che al momento ci sono 2.000 clandestini a bordo di navi da crociera al largo della Sicilia, a spese degli italiani, e altri 275 stanno arrivando a bordo di una nave di una Ong spagnola, visto che sono stati rifiutati da Malta. L'Italia non può essere il campo profughi d'Europa». Anche il governatore siciliano Nello Musumeci è stato molto duro: «Leggere sui giornali che l'Europa cambia la linea sui migranti, mentre tutte le Ong si dirigono solo verso i porti siciliani, suona come una beffa. Sembra che la cosa non interessi più a nessuno, ma continua ad essere la Sicilia a sostenere il peso più grande di questa emergenza nell'emergenza».
Il fronte caldo dell'immigrazione resta la Sicilia. Sette dei 60 sbarcati sulla spiaggia di Calamosche, nell'area della riserva naturale di Vendicari, a Sud di Siracusa, sono risultati positivi al Covid. Ora sono su una nave per la quarantena ormeggiata nella rada di Siracusa. E Musumeci comincia a perdere la pazienza: «Non si è visto un solo intervento concreto per restituire sicurezza sanitaria a quei luoghi e alla nostra popolazione. Tanti impegni ma nessun fatto concreto. Quando le parole diventeranno azioni? Siate veloci, presidente Conte e ministro Lamorgese, come fate quando impugnate una nostra ordinanza. Non costringeteci ad agire di nuovo». Ma anche in Sardegna continuano gli arrivi. Ieri un tentativo di sbarco si è trasformato in tragedia: un barchino con 14 persone a bordo è affondato. C'è un disperso.
Sul patto di Dublino solo parole Italia ostaggio degli Stati del Nord
«Aboliremo il trattato di Dublino». La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento di chiusura sullo stato dell'Unione al Parlamento europeo dopo aver parlato di lavoro, clima e lotta al virus ha lanciato il suo annuncio bomba: «Nel nuovo piano sulle migrazioni sostituiremo il regolamento di Dublino con un nuovo sistema europeo di governance delle migrazioni. Avrà strutture comuni per l'asilo e per i rimpatri e un forte meccanismo di solidarietà». La revisione di Dublino significherebbe mettere fine alla norma dello «Stato di primo approdo», che obbliga soprattutto Italia e Grecia a farsi carico - per mesi e spesso anni - di tutti i richiedenti asilo che sbarcano sulle coste europee. L'annuncio è stato subito osannato dal governo giallorosso, anche se non c'è niente di chiaro né definitivo visto che sarà presentato soltanto mercoledì prossimo, il giorno prima dell'inizio del Consiglio europeo con tutti i capi di Stato e di governo dell'Ue. Difficile quindi che il nuovo Migration Pact possa trovare subito accoglienza e condivisione anche se la von der Leyen ha sottolineato: «Salvare vite umane non è un optional. E quei Paesi che adempiono ai loro doveri giuridici e morali o che sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà dell'intera Ue. Voglio essere chiara, se noi acceleriamo, mi aspetto che accelerino anche tutti gli Stati membri». L'Italia, già con l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini premeva per rendere obbligatorio il meccanismo di ripartizione dei migranti recuperati in mare ma essendo l'adesione volontaria, ad ogni sbarco il nostro Paese è costretto a una trattativa spesso inconcludente. Comunque l'avviso della presidente sembra diretto ai Paesi del blocco nordeuropeo, da sempre sordi alla condivisione degli immigrati. Il blocco di Visegrad e l'Austria non sono mai stati propensi a prendere «quote di stranieri». A mettere i puntini sulle i è subito Giorgia Meloni, leader di Fdi: «Il trattato riguarda i rifugiati che sono il 10% dei migranti che arrivano da noi. Ma noi dobbiamo risolvere il problema del rimanente 90%, cioè degli immigrati clandestini che noi, anche se modificassimo cento volte il decreto di Dublino, non potremmo comunque ricollocare in Europa».
Il piano non è ancora noto ma Ursula von der Layen ha già fatto capire che non vuole ripetere il flop del 2015, quando il suo predecessore, Jean- Claude Juncker, lanciò la sua riforma che però venne bocciata da alcuni governi: «Se facciamo compromessi possiamo trovare soluzioni. I governi che fanno di più e sono più esposti ai flussi devono poter contare sulla solidarietà europea». Quello che anticipa è che ci sarà «un link tra asilo e rimpatri con la distinzione tra chi avrà diritto di rimanere e chi no». L'obiettivo di fondo sarà costruire «confini esterni forti e vie legali di migrazione». Una rassicurazione per i Paesi che lei definisce «portatori di odio» e un gesto di «riguardo» per l'Italia. Tutto apparentemente gratis come il Recovery fund? Vedremo quando si passerà dagli annunci ai fatti concreti.
Continua a leggereRiduci
La nave spagnola Open Arms è riuscita a far recuperare dalla nostra Guardia costiera 76 migranti al largo di Palermo. Lo schema? Avvicinarsi alle coste italiane, lanciare un allarme e far immergere i migranti dotati di salvagente. Il recupero, così, diventa obbligato.Nonostante i proclami di Ursula von der Leyen, Germania e soci non ci aiuteranno.Lo speciale contiene due articoliI 76 immigrati «volontari» hanno indossato un giubbotto salvagente color arancio ciascuno e si sono tuffati in mare. Ufficialmente è per una protesta. Ma in realtà è perché così la nostra Guardia costiera è costretta a recuperarli. O, almeno, è questo, a quanto risulta alla Verità, il pensiero comune tra i soccorritori. Aggirati i divieti previsti dai Decreti sicurezza, sono partite decine di comunicazioni notturne inviate alla Capitaneria di porto. Il pressing della Ong Open Arms si è concentrato su asseriti «problemi di sicurezza» a bordo, perché gli immigrati volevano sbarcare a tutti i costi. La strategia è continuata sui social: «Da ieri (martedì per chi legge ndr) davanti al porto di Palermo, come da indicazioni, siamo rimasti in attesa di istruzioni per sbarcare cercando di gestire la situazione critica a bordo». Poi, i tuffi. I 76 della protesta sono stati tutti recuperati dalle motovedette della Capitaneria di porto prima che raggiungessero a nuoto la terraferma. Fanno parte dei 275 (provenienti da Egitto, Burkina Faso, Ghana, Siria e Costa d'Avorio), tra i quali ci sarebbero anche 56 minori, tirati su in tre distinti interventi dalla nave della Ong Spagnola, che dopo aver tentato un approdo a Malta ha puntato verso Palermo. «L'altro giorno», ha twittato la Ong, «momenti di tensione sulla Open Arms dopo la risposta negativa di Malta di concedere riparo per il temporale». E dopo aver ricevuto il solito «niet» definitivo dalle autorità maltesi, alcuni immigrati si sono buttati giù dalla nave. È a quel punto che Roma ha concesso alla nave spagnola di dirigersi verso Palermo, con l'ordine di tenersi ad almeno cinque miglia dalla costa, in attesa di successive indicazioni. Una volta giunta di fronte al porto siciliano, la Open Arms ha chiesto istruzioni al Viminale sulla possibilità di sbarco. Ma la pressione sull'Italia è cominciata martedì: «Continuiamo a ripararci in acque territoriali italiane, con grande tensione a bordo». E siccome i tuffi in mare avevano già funzionato, gli immigrati ci hanno riprovato. Qualcuno ha fornito loro i giubbotti di salvataggio e uno dopo l'altro si sono tuffati. Open Arms pian piano si è avvicinata alla costa, fermandosi a meno di un miglio, nello specchio d'acqua del porto, a poche centinaia di metri dalla Sea Watch 4. I 76 che si erano tuffati, dopo gli accertamenti sanitari, saliranno sulla nave Allegra, che nel frattempo ha fatto sbarcare 41 minori non accompagnati e una decina di donne.E mentre la Ong spagnola attende indicazioni dal governo italiano, fa sapere che «tutte le persone che soccorriamo fuggono da contesti di violenza nei propri Paesi di origine e rischiano la vita in mare in cerca di un futuro migliore per loro e per le proprie famiglie. Quello che vogliono è costruirsi un futuro in paesi democratici dove possano vivere in pace e sicurezza». È per questo motivo che la Ong, sostenuta anche da Emergency, propone «protocolli di ricerca e soccorso strutturali». La finalità è un «approdo in un porto sicuro come previsto dalle Convenzioni internazionali, dal diritto del mare, e dalle costituzioni democratiche». L'ultima comunicazione usata come una leva per tentare di aprire il porto è questa: «A bordo alcune delle persone salvate presentano ustioni di terzo grado, problemi di salute e sintomi da stress post traumatico dovuti alla violenza o agli abusi che hanno subito nei Paesi di origine e di transito, oltre che alla dura traversata in mare». Il leader del Carroccio Matteo Salvini ha sparato ad alzo zero: «Dall'Europa sono arrivate solo parole, ma la certezza è che al momento ci sono 2.000 clandestini a bordo di navi da crociera al largo della Sicilia, a spese degli italiani, e altri 275 stanno arrivando a bordo di una nave di una Ong spagnola, visto che sono stati rifiutati da Malta. L'Italia non può essere il campo profughi d'Europa». Anche il governatore siciliano Nello Musumeci è stato molto duro: «Leggere sui giornali che l'Europa cambia la linea sui migranti, mentre tutte le Ong si dirigono solo verso i porti siciliani, suona come una beffa. Sembra che la cosa non interessi più a nessuno, ma continua ad essere la Sicilia a sostenere il peso più grande di questa emergenza nell'emergenza». Il fronte caldo dell'immigrazione resta la Sicilia. Sette dei 60 sbarcati sulla spiaggia di Calamosche, nell'area della riserva naturale di Vendicari, a Sud di Siracusa, sono risultati positivi al Covid. Ora sono su una nave per la quarantena ormeggiata nella rada di Siracusa. E Musumeci comincia a perdere la pazienza: «Non si è visto un solo intervento concreto per restituire sicurezza sanitaria a quei luoghi e alla nostra popolazione. Tanti impegni ma nessun fatto concreto. Quando le parole diventeranno azioni? Siate veloci, presidente Conte e ministro Lamorgese, come fate quando impugnate una nostra ordinanza. Non costringeteci ad agire di nuovo». Ma anche in Sardegna continuano gli arrivi. Ieri un tentativo di sbarco si è trasformato in tragedia: un barchino con 14 persone a bordo è affondato. C'è un disperso. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nuovo-trucco-ong-tuffo-in-mare-e-salvataggio-2647702342.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sul-patto-di-dublino-solo-parole-italia-ostaggio-degli-stati-del-nord" data-post-id="2647702342" data-published-at="1600382011" data-use-pagination="False"> Sul patto di Dublino solo parole Italia ostaggio degli Stati del Nord «Aboliremo il trattato di Dublino». La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento di chiusura sullo stato dell'Unione al Parlamento europeo dopo aver parlato di lavoro, clima e lotta al virus ha lanciato il suo annuncio bomba: «Nel nuovo piano sulle migrazioni sostituiremo il regolamento di Dublino con un nuovo sistema europeo di governance delle migrazioni. Avrà strutture comuni per l'asilo e per i rimpatri e un forte meccanismo di solidarietà». La revisione di Dublino significherebbe mettere fine alla norma dello «Stato di primo approdo», che obbliga soprattutto Italia e Grecia a farsi carico - per mesi e spesso anni - di tutti i richiedenti asilo che sbarcano sulle coste europee. L'annuncio è stato subito osannato dal governo giallorosso, anche se non c'è niente di chiaro né definitivo visto che sarà presentato soltanto mercoledì prossimo, il giorno prima dell'inizio del Consiglio europeo con tutti i capi di Stato e di governo dell'Ue. Difficile quindi che il nuovo Migration Pact possa trovare subito accoglienza e condivisione anche se la von der Leyen ha sottolineato: «Salvare vite umane non è un optional. E quei Paesi che adempiono ai loro doveri giuridici e morali o che sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà dell'intera Ue. Voglio essere chiara, se noi acceleriamo, mi aspetto che accelerino anche tutti gli Stati membri». L'Italia, già con l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini premeva per rendere obbligatorio il meccanismo di ripartizione dei migranti recuperati in mare ma essendo l'adesione volontaria, ad ogni sbarco il nostro Paese è costretto a una trattativa spesso inconcludente. Comunque l'avviso della presidente sembra diretto ai Paesi del blocco nordeuropeo, da sempre sordi alla condivisione degli immigrati. Il blocco di Visegrad e l'Austria non sono mai stati propensi a prendere «quote di stranieri». A mettere i puntini sulle i è subito Giorgia Meloni, leader di Fdi: «Il trattato riguarda i rifugiati che sono il 10% dei migranti che arrivano da noi. Ma noi dobbiamo risolvere il problema del rimanente 90%, cioè degli immigrati clandestini che noi, anche se modificassimo cento volte il decreto di Dublino, non potremmo comunque ricollocare in Europa». Il piano non è ancora noto ma Ursula von der Layen ha già fatto capire che non vuole ripetere il flop del 2015, quando il suo predecessore, Jean- Claude Juncker, lanciò la sua riforma che però venne bocciata da alcuni governi: «Se facciamo compromessi possiamo trovare soluzioni. I governi che fanno di più e sono più esposti ai flussi devono poter contare sulla solidarietà europea». Quello che anticipa è che ci sarà «un link tra asilo e rimpatri con la distinzione tra chi avrà diritto di rimanere e chi no». L'obiettivo di fondo sarà costruire «confini esterni forti e vie legali di migrazione». Una rassicurazione per i Paesi che lei definisce «portatori di odio» e un gesto di «riguardo» per l'Italia. Tutto apparentemente gratis come il Recovery fund? Vedremo quando si passerà dagli annunci ai fatti concreti.
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
Continua a leggereRiduci
Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
Continua a leggereRiduci
Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
Continua a leggereRiduci