2022-04-10
Profeti della paura in crisi d’astinenza: «Variante in vista, restino i divieti»
Oscurati dalla guerra, i talebani sanitari tornano alla carica. La scoperta delle ultime sottovarianti è l’occasione perfetta per spargere paura e chiedere il mantenimento delle restrizioni. Nonostante ricerche ed esperti confermino la loro inutilità.A volte ritornano. O, forse, non se ne sono mai andati. Però, ecco, in questi giorni i professionisti del terrore pandemico erano stati surclassati dai professionisti del terrore militare: laddove c’è la guerra, si sa, non c’è Speranza. E nemmeno Ricciardi. E nemmeno Galli. Ma è bastato un sussurro di Omicron, un vagito di Xe, un sussulto di variante per scatenare di nuovo gli appassionati del palla prigioniera versione Covid. Dove, ovviamente, loro sono quelli che lanciano palle. E noi siamo i prigionieri. In effetti non par vero ai nostri piccoli fan della reclusione di tornare a chiedere restrizioni e limitazioni. Tanto i sacrifici vanno di moda, no? Ecco: mi immagino che i nostri profeti di chiusura abbiano passato le ultime settimane lì, isolati nelle loro stanzette, a rimuginare con una punta di sadismo: ma come è possibile che agli italiani siano chiesti sacrifici soltanto per la guerra? Non sarà il caso di chiedere ancora un po’ di sacrifici anche per la pandemia? Dunque, avanti tutta: Draghi ordina di spegnere il condizionatore, noi ordiniamo di spegnere le illusioni. Meno benzina? Più mascherina. Dovremo rinunciare alla luce elettrica? In compenso avremo il green pass per sempre. Pensate come siamo fortunati. Non è un caso. In poche ore abbiamo rivisto rimettere la testolina fuori dal guscio Massimo Galli (intervista sulla Stampa), Walter Ricciardi (intervista all’Adnkronos), ovviamente il ministro Roberto Speranza (convegno al ministero), tutti uniti da unico goduto appello: «Non toccate le restrizioni». Il professore del Sacco ha usato come al solito parole ruspanti: «Togliere il green pass sarebbe un condono». E le mascherine? «Restano indispensabili al chiuso». Fosse per lui rimetterebbe pure lo stato d’emergenza: «Ho sempre dubitato della fine, tanto in termini giuridici quanto in termini di comunicazione». E si capisce che, sotto sotto, è lì che sta sognando di piazzarci un altro bel lockdown totale modello Shangai. A scopo educativo. Ricordati che devi soffrire. L’ottima Patrizia Floder Reitter, che i lettori di questo giornale conoscono bene, si affanna a fornirmi prove e testimonianze del fatto che, di fronte alla variante Xe, mettere nuove restrizioni è una scelta quanto meno opinabile. In effetti ci sono anche importanti studiosi, come Andrea Crisanti, che sostengono che il modo migliore per proteggersi dal virus sia ormai farlo circolare liberamente. E ce ne sono altri, come Mosè Favarato, responsabile del laboratorio dell’ospedale di Mestre dove la variante Xe è stata isolata, che dicono che quest’ultima «rappresenta un ulteriore step del percorso di trasformazione della pandemia in endemia con attenuazione della sua aggressività». E quindi che è possibile «una coesistenza ordinaria, più tranquilla». Ma è tutto inutile, cara Patrizia. Il problema infatti, ormai da mesi, non è più sanitario ma psicologico. Il ministro e i suoi piccoli fan sono come quei soldati giapponesi che non si erano accorti che la Seconda guerra mondiale era finita e continuavano a combattere nella foresta come se nulla fosse. Bisogna riportarli alla realtà, e sarà un processo lungo e doloroso, per diversi motivi. Innanzitutto perché con la realtà essi hanno sempre avuto un rapporto piuttosto complesso, annunciando e proclamando verità assolute destinate a essere smentite nel giro di poche settimane, a volte pure di poche ore. E poi perché proprio distorcendo la realtà essi si sono guadagnati una visibilità mediatica cui è difficile rinunciare. Dal 24 febbraio scorso, in effetti, un brivido è corso nei loro uffici marketing e pubbliche relazioni: e se fosse tutto finito? E se non ci chiamassero più in tv? Come si fa a vivere in astinenza da Myrta Merlino, senza un passaggio dalla Berlinguer e nemmeno una mezz’oretta pomeridiana su Tagadà? Cosa direbbe il macellaio sotto casa? E il panettiere? Ci vuole un niente, signora mia, e si smette di essere riconosciuti, poi è un attimo che non ti fanno nemmeno più lo sconto («L’ho vista ieri sera in tv, dottore…). Poi magari finiscono gli inviti pure sulle terrazze chic dove in questo periodo, si sa, van forte soltanto i generali. Così, umanamente, come non capirli? Presi dall’horror vacui catodico, in piena crisi di astinenza da cipria, i nostri profeti della paura si sono buttati sulla variante Xe come le starlette in declino si buttano sull’Isola dei famosi. E giù a ricordare i tempi belli, invocando a più non posso panico e stridor di denti. L’unica cosa che fa un po’ male in tutto ciò è che, come sempre, non fanno neppure finta di essere dispiaciuti. Al contrario. Sembra quasi che ci godano nel dire «sarete reclusi». «Fine pena mai». «Restrizioni for ever». Sembra quasi che richiedere altri sacrifici agli italiani, che già ne stanno facendo fin troppi, li ecciti. Perciò occhieggiano dalle pagine dei giornali tutti trulli come a dire «la vostra libertà dipende da noi». E noi che pensavamo ormai dipendesse solo da Putin, ceceni e battaglione Azov, non riusciamo più a capire che cosa sia peggio.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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