2018-07-31
Non sparate sul colonialismo italiano. Oltre l’interesse, ci fu civilizzazione
Negli ultimi anni, un pugno di intellettuali politicizzati ha voluto riscrivere l'epopea tricolore d'oltremare. Ma basta fare un viaggio in Libia o in Etiopia per vedere che tipo di ricordo ha lasciato lì la nostra gente.Il modo migliore per sottomettere un popolo e disgregarne la coscienza nazionale è quello di cancellarne la storia o di distorcerla, facendola sembrare qualcosa di vergognoso. È quanto sta accadendo agl'italiani, uno dei popoli più ricchi di storia ma al tempo stesso, paradossalmente, uno dei più ignoranti su di essa, anche quella recente. Naturalmente questo non accade per caso, ma per consapevole scelta di molti cosiddetti intellettuali, sia nostrani sia di altri Paesi, questi ultimi portati a invidiare l'Italia per la sua cultura - e i valori universali che ne derivano - e il suo stile di vita.Temiamo presente il fatto che all'estero, Europa in primis, sulla storia italiana si sa poco e male: italiani rozzi, superstiziosi, cattolici bigotti, facili all'intrigo, all'imbroglio, incapaci di rispettare le leggi, creduloni verso politicanti autoritari (da Benito Mussolini a Silvio Berlusconi a Matteo Salvini, all'estero sono davvero convinti che sia tutta una stessa roba). Si rinfaccia all'Italia continuamente il peso del fascismo, ormai privo di precisi connotati storici (all'estero poi è di solito fatto coincidere col nazismo, da cui la polemica sul «fascismo male assoluto») e visto come una sorta di identità oscura degli italiani (vedi Umberto Eco) o, più semplicemente, come tutto ciò che va contro il politically correct dei nostri giorni.Un caso particolare è la demonizzazione della dominazione italiana sulle colonie africane (Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia). Il ricordo di quelle vicende è svanito nel nostro Paese e il motivo è semplice: perché nel secondo dopoguerra l'Italia, Paese sconfitto per colpa del fascismo, aveva bisogno di rientrare in amicizia coi vincitori e dunque di mettere nel dimenticatoio tutto ciò che ricordava il ruolo italiano di potenza nei decenni precedenti (in realtà già molto prima del fascismo). Dunque un po' alla volta si volle dimenticare quanto si era fatto nelle colonie italiane nel bene e nel male. Il fatto che vi fossero vissuti tanti italiani in cerca di lavoro (contadini, operai) a fianco a fianco con gli «indigeni» (a differenza di quanto accadeva per esempio nelle colonie britanniche), le opere pubbliche costruite: tutto questo non conta più. Si sono demonizzati anche i ricordi più buffi e ingenui, come Faccetta Nera, una canzonetta che parla di italiani che vanno a liberare le schiave di colore e le portano a Roma (non proprio un esempio di razzismo!) e che veniva cantata anche dalle mamme ai bambini per il suo motivetto accattivante, non certo per motivi politici.In anni recenti si è poi provveduto a evidenziare una presunta eccezionalità italiana, consistente nell'applicazione dei metodi brutali del fascismo anche in Africa e in una presunta «rimozione» voluta dei crimini commessi. Il tema dell'attacco all'Etiopia è uno dei più sfruttati, perché si presta bene a mettere in cattiva luce l'Italia. Mussolini aggredisce uno Stato indipendente, lo conquista, vi applica politiche razziali e reprime duramente la ribellione (oggi si dice la resistenza). La dominazione italiana in Africa consisterebbe unicamente in questo e se non sei d'accordo, sei un pericoloso revisionista. Se poi oggi qualcuno vuole fermare l'immigrazione africana, è un discepolo del fascismo.Capita così di sentire l'attuale arcivescovo di Palermo tuonare contro i «colonialisti» che avrebbero affamato i popoli africani, sicché come risarcimento dovremmo aprire i porti a tutti quelli che vengono dall'Africa (il presule ovviamente non sa che oggi a sfruttare l'Africa è innanzitutto la Cina). A tale giochino si prestano anche taluni «storici» italiani, per lo più ex giornalisti o militanti della sinistra extraparlamentare che hanno potuto intraprendere la carriera universitaria avendo le credenziali politiche giuste. Da ciò le ripetute polemiche sull'uso dei gas da parte italiana durante la guerra d'Etiopia, dimenticando che gli etiopi erano soliti evirare o mutilare i prigionieri (anche di colore), usarono pallottole dum-dum (anch'esse vietate dalle convenzioni internazionali) e che molti popoli inglobati nell'impero etiopico detestavano il dominio dell'etnia Amhara e dunque accolsero gl'italiani come liberatori.Nell'Addis Abeba occupata dagl'italiani capitava - come ricorda Franca Zoccoli - che una famiglia italiana pagasse l'affitto di casa a un padrone etiope: fatti come questo contribuiscono a spiegare perché a distanza di tempo i turisti italiani siano accolti con simpatia e cordialità in Paesi come la Libia o l'Etiopia stessa, mentre solo un pugno di intellettuali politicizzati agita lo spauracchio del colonialismo italiano come legittimazione del regime di turno. Capita così che in Etiopia si possa mangiare un piatto di ottimi spaghetti. O che in Eritrea siano rispettati gli ascari che combatterono per l'Italia e l'architettura italiana - compresa quella del periodo fascista - sia tenuta in pregio. O che in Somalia si rimpianga il fascistissimo Cesare Maria De Vecchi, il quale usò sì il pugno di ferro ma anche ordinò ai coloni italiani di non servirsi di mano d'opera indigena arbitrariamente e senza regolare retribuzione. Uno studioso somalo, Mohamed Trunji, ha pubblicato un libro in cui dimostra come l'amministrazione fiduciaria italiana - dell'Italia repubblicana - negli anni Cinquanta mise in piedi le strutture dello Stato somalo (oggi inesistente e dilaniato da decenni di guerra civile) servendosi di funzionari di prim'ordine. Il suo libro è stato accolto con fastidio proprio nelle università italiane! Una signora somala, Maryam Maio, ha scritto un libro di memorie per ricordare quando lavorava con italiani a Mogadiscio negli anni Ottanta e poi il suo soggiorno da rifugiata in Italia. Si preferisce invece dare risalto a una certa Igiaba Scego, collaboratrice di Repubblica e Manifesto, la quale demonizza gl'Italiani malgrado viva in Italia e suo padre vi abbia studiato volentieri (ben contento di familiarizzare con ragazze italiane, che evidentemente non avevano atteggiamenti razzisti nei suoi confronti).L'ultimo grido è un libro, pubblicato da Mondadori, di un docente di origine britannica dell'università di Addis Abeba, Ian Campbell, sulle stragi fatte da italiani in Etiopia nel 1937 come rappresaglia per l'attentato a Rodolfo Graziani. Una vicenda in realtà già nota: basti pensare alle memorie di Edoardo Borra, medico in Etiopia per tanti anni e collaboratore di Amedeo duca d'Aosta, inviato a sostituire Graziani e fautore di una politica più tollerante e aperta verso gli etiopi. Campbell non cita studiosi come Federica Saini Fasanotti, la quale ha meritoriamente studiato i documenti degli archivi militari italiani. Cita solo quelli che vanno bene per la sua tesi sulla «vergogna» italiana «rimossa». Parla con ammirazione del monumento alle vittime donato dal dittatore iugoslavo Tito, uno che, secondo Campbell, conosceva bene i crimini fascisti: peccato che Tito di crimini ne abbia commessi anche di più e a danno del suo stesso popolo. Un vecchio storico inglese residente in Etiopia, Richard Pankhurst, scrive nella prefazione che la Gran Bretagna non volle processare i criminali italiani perché appoggiava un «governo di destra» in Italia: si tratta in realtà del governo di Alcide De Gasperi, dove erano tutti antifascisti e non proprio «di destra». Ma tant'è, questo è il livello. Se non sei comunista o socialista, sei un bieco esponente della Reazione in agguato.Ci potremmo chiedere come mai questi storici inglesi terzomondisti, così pronti a accusare l'Italia, non si occupino, per esempio, delle violente rappresaglie inglesi contro gl'indiani dopo la rivolta dei Sepoys o di episodi come la fucilazione di 158 indigeni nella Somalia britannica a causa dell'omicidio di un funzionario inglese o del lavoro forzato a cui i britannici sottoposero tanti nigeriani negli anni Quaranta. Ci potremmo domandare che cosa abbia detto Pankhurst in Etiopia durante il regime del comunista Menghistu, colpevole di violente repressioni e stragi in tutto il Paese, della devastazione dell'Eritrea e dell'uccisione segreta del vecchio inerme negus Hailé Sellassié, che contro il fascismo combatté davvero ma perdonò cristianamente gl'italiani e ordinò di non vendicarsi contro di loro. La risposta è: durante il regime di Menghistu, Pankhurst faceva carriera all'università di Addis Abeba. Forse certe furberie e «rimozioni» non sono patrimonio esclusivo dei soliti italiani.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
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