
Spostare le competenze in Appello senza creare caos è possibile. I trattenimenti non siano convalidati: basta garantire i ricorsi.Può darsi ormai per acquisito che, in materia di immigrazione, le sezioni specializzate dei tribunali civili siano stabilmente orientate a negare la convalida dei provvedimenti con i quali viene disposto il «trattenimento» alla frontiera, in vista della loro successiva espulsione, di «migranti» richiedenti asilo o protezione internazionale che provengano da paesi ufficialmente definiti «sicuri» o, almeno, da alcuni di essi, quali, in particolare, l’Egitto e il Bangladesh. Deve, quindi, ritenersi del tutto legittimo, in sé e per sé, che il governo, avvalendosi degli strumenti a sua disposizione, cerchi di neutralizzare gli effetti di tale orientamento, che di fatto costituisce un formidabile ostacolo all’attuazione del suo programma di contrasto all’immigrazione irregolare. Può, tuttavia, dubitarsi che il miglior modo per raggiungere tale obiettivo sia quello che il governo ha scelto e di cui La Verità ha dato conto, e cioè togliere alle sezioni specializzate dei tribunali la competenza a provvedere sulle richieste di convalida per attribuirla alle Corti d’appello in composizione monocratica. Potrebbe infatti riconoscersi, per questa volta, un qualche oggettivo fondamento alle preoccupazioni espresse tanto dalle opposizioni quanto dalla magistratura associata a causa, soprattutto, dell’ulteriore ingolfamento che l’assunzione della nuova competenza determinerebbe nelle già ingolfatissime corti d’appello (la quali infatti ieri hanno nuovamente protesta); il che - può aggiungersi - potrebbe anche pregiudicare, in molti casi, l’osservanza dei ristretti termini entro i quali i provvedimenti di trattenimento dei «migranti», a pena di perdita di efficacia, debbono essere convalidati.Paradossalmente, quindi, si rischierebbe che si riproducesse, per altra via, lo stesso danno che oggi è prodotto dalle decisioni di mancata convalida sistematicamente assunte dalle sezioni specializzate dei tribunali. Non si consideri, quindi, manifestazione di ostinata e presuntuosa arroganza la riproposizione, che qui viene fatta, dei diversi e più radicali interventi di modifica dell’attuale disciplina normativa che già erano stati prospettati in un precedente articolo comparso su La Verità del 29 ottobre scorso.Il primo di essi dovrebbe essere quello di stabilire che il provvedimento che dispone il «trattenimento» dei migranti non debba essere sottoposto (com’è, invece, attualmente) a procedura obbligatoria di convalida giudiziaria ma possa soltanto essere oggetto, da parte dell’interessato, di eventuale impugnazione davanti a un giudice che su di essa debba quindi decidere. Il che sarebbe perfettamente in linea con la Direttiva europea numero 33/2013, che, all’articolo 9, prevede espressamente che la necessaria «verifica giudiziaria» del trattenimento disposto dall’autorità amministrativa possa indifferentemente avvenire «d’ufficio e/o su domanda del richiedente». E analoga previsione è contenuta nell’articolo 11 del Regolamento europeo numero 146/2024 che, a partire dal 12 giugno 2026, sostituirà la Direttiva numero 33/2013. Soltanto in via giurisprudenziale (come ricordato nella sentenza della Corte costituzionale numero 212/2013) si è ritenuto che, nell’ambito della suddetta alternativa, dovesse darsi la preferenza alla verifica d’ufficio e, quindi, applicarsi, al provvedimento di «trattenimento» dei migranti, la procedura dell’obbligatoria convalida giudiziaria, entro il termine massimo complessivo di 96 ore, prevista dall’articolo 13 della Costituzione per i casi di provvedimenti limitativi della libertà personale adottati dall’autorità di pubblica sicurezza. Nulla vieta, quindi, che, rimanendo sempre nell’ambito della stessa alternativa, la preferenza venga invece data, con apposita norma interna, all’effettuazione della verifica giudiziaria solo su domanda dell’interessato, vale a dire mediante una qualsiasi forma di impugnazione, da parte sua, del provvedimento in questione.Una tale scelta, d’altra parte, sarebbe in linea anche con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, resa esecutiva in Italia con la legge numero 848 del 1955. Questa, infatti, all’articolo 5, nell’elencare i casi in cui si può essere legalmente privati della libertà personale, stabilisce che solo in quello di arresto o detenzione per un fatto costituente reato debba essere obbligatoriamente previsto che la persona interessata sia «al più presto condotta davanti ad un giudice». Per gli altri casi, invece, si prevede soltanto che all’interessato sia riconosciuto «il diritto di presentare un ricorso davanti al un tribunale affinché decida in breve tempo sulla legittimità della sua detenzione e ordini la sua liberazione se la detenzione illegittima». E tra questi «altri casi» è espressamente contemplato anche quello «dell’arresto o della detenzione legittima di una persona per impedirle di entrare nel territorio clandestinamente o contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione». Volendosi eccedere, peraltro, in scrupolo garantistico, alla previsione della impugnabilità, da parte dell’interessato, del provvedimento di trattenimento, potrebbe aggiungersi l’obbligo di immediata comunicazione di quest’ultimo, da parte dell’autorità che lo abbia adottato, al pubblico ministero, non a fine di convalida, ma solo per consentirgli di disporne, in caso di ritenuta illegittimità, la perdita di efficacia. Ciò sulla falsariga di quanto è già previsto dall’articolo 11 del Decreto legge numero 59 del 1978, convertito in Legge numero 191 del 1978, per il caso di soggetto di cui la polizia abbia disposto l’accompagnamento ed il trattenimento coattivo nei propri uffici a fini di identificazione; norma, questa, che non risulta essere mai stata censurata dalla Corte costituzionale. Il secondo intervento dovrebbe consistere nello stabilire, in puntuale applicazione di quanto espressamente consentito dall’articolo 20 della Direttiva europea numero 32/2013, che vada, di regola, negata - con provvedimento reclamabile, tuttavia, davanti al giudice - l’assistenza legale gratuita quando a chiederla siano soggetti provenienti da paesi ufficialmente qualificati come «sicuri», per cui l’impugnativa da essi proposta sia ragionevolmente da considerare come priva di «prospettive concrete di successo». E potrebbe aggiungersi, per maggiore garanzia, attuando anticipatamente quanto già previsto dall’articolo 17 del Regolamento europeo numero 1348/2024 (la cui entrata in vigore è anch’essa stabilita per il 12 giugno 2026), che l’interessato avrebbe comunque diritto all’assistenza legale gratuita ai soli fini dell’eventuale impugnazione del provvedimento con il quale essa gli sia stata negata. A fronte dell’eventuale adozione di provvedimenti legislativi nel senso sopraindicato ben difficilmente, da parte di chi volesse contestarli, potrebbe ancora farsi ricorso all’usato ed abusato argomento della prevalenza della normativa europea su quella nazionale, dato che proprio la prima, come si è visto, sarebbe quella che ne costituirebbe la base. Ciò non significa, naturalmente, che i contestatori non troverebbero altri argomenti, ma, per lo meno, sarebbero costretti a qualche sforzo in più per andarseli a cercare e, nel frattempo, la lotta all’immigrazione irregolare ne trarrebbe indubbiamente vantaggio.Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di cassazione
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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