2025-11-20
Confesso di essere un «filorusso»: la Achmatova è più forte del gulag
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal settimo capitolo di Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Utet, 180 pagine, 19 euro) di Paolo Nori. Lo scrittore ha collaborato a lungo con La Verità.Come mi è capitato di dire e di scrivere innumerevoli volte, la letteratura russa moderna è un fenomeno relativamente recente, comincia all’inizio degli anni venti dell’Ottocento quando Aleksandr Puškin si mette a scrivere il romanzo in versi Evgenij Onegin. losif Brodskij, in un saggio del 1977 che si intitola Guida a una città che ha cambiato nome, dice che allora, negli anni Venti dell’Ottocento, la letteratura russa ha cominciato a correre dietro la realtà e che, trent’anni dopo, negli anni Cinquanta, l’ha raggiunta. E che, se andate nella casa dove Dostoevskij è stato interrogato dalla terza sezione, la polizia segreta, è difficile che troviate una guida turistica che racconta ai turisti che quella casa li è la sede di quella vicenda che ha condotto poi alla di lavori forzati quella condanna a morte poi commutata, sul patibolo, a quattro anni, per Dostoevskij; se andate nello Stoljarnyj pereulok, il vicolo dei Falegnami, nella casa dove Raskolnikov, nel romanzo Delitto e castigo, è stato interrogato da Porfir Petrovič, il pubblico ministero, è sicuro, dice Brodskij, che troviate qualcuno che la racconta ai turisti. La finzione, dice, è diventata più forte della realtà.Pietroburgo è anche lei una città relativamente recente, è stata fondata nel 1703 da Pietro il Grande in un posto nel quale, fino ad allora, non aveva mai abitato nessuno. È una città disegnata con la riga e col compasso («La più astratta e premeditata città del globo terracqueo», secondo una celebre definizione di Dostoevskij), come si vede dalle lunghe strade rettilinee che ne attraversano il centro, i prospekty, parola che noi traduciamo con «prospettive». La più conosciuta è la prospettiva Nevskij; perpendicolare alla Nevskij c’è la prospettiva dove abitava Brodskij, al numero 24, la Litejnyj (della Fonderia, sarebbe); sempre dalla stessa parte della strada, al numero 4 del Litejnyj prospekt, c’è un grande edificio, che i pietroburghesi chamano Bolšoj dom, la grande casa, che è la sede dei servizi segreti, il Kgb, che oggi si chiama Fsb. Brodskij, in quel saggio su Leningrado, scrive che nella luce particolare, nordica, pallida e diffusa, di Pietroburgo, «e grazie alle strade così lunghe e rettilinee, i pensieri di un passante vanno molto più lontano della sua destinazione, e un uomo con una vista normale può distinguere a più di un chilometro di distanza il numero dell’autobus in arrivo o indovinare l’età del poliziotto che lo pedina» (la traduzione è di Gilberto Forti).Una ventina di anni fa, con un mio amico russo, camminavo per il Litejnyj e siamo passati davanti alla sede del Kgb e lui, si chiama Tim, mi ha detto che c’era stato un funzionario dei servizi segreti che aveva proposto di far diventare quell’edificio, la grande casa, monumento letterario. «Ma perché?», gli avevano chiesto. «Come perché?», aveva risposto lui, «sono passati tutti di qui». Aveva ragione. Tutti i più grandi scrittori di Leningrado erano passati tutti di lì e qualcuno di lì non era poi uscito.Nella storia degli archivi sovietici un ruolo fondamentale ce l’hanno gli archivi privati, e un archivio singolarissimo è quello che si è costruita Anna Achmatova tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del Novecento, quando abitava nella Fontannyj dom, dove oggi c’è la sede del Museo Achmatova, il cui ingresso è sempre sul Litejnyj prospekt, dall’altra parte della strada, rispetto alla casa di Brodskij e alla sede del Kgb, al numero 53. Anna Achmatova ha avuto, suo malgrado, molto a che fare, con il potere sovietico.Quando, nel 1935, arrestano suo figlio, Lev Gumilëv, e il suo terzo marito, Nikolaj Punin, Anna Achmatova scrive una lettera a Stalin (l’aiuta a scriverla Michail Bulgakov); nella lettera assicura che Lev e Punin «non sono né fascisti, ne spie, né membri di organizzazioni controrivoluzionarie». «Vivo in Urss dall’inizio della rivoluzione», continua Anna Achmatova, «non ho mai voluto abbandonare un Paese al quale sono legata con la mente e con il cuore. Nonostante i miei versi non vengano pubblicati e i giudizi dei critici mi abbiano procurato molti momenti dolorosi, non mi sono persa d’animo; in condizioni morali e materiali molto pesanti ho continuato a lavorare e ho già pubblicato uno studio su Puškin, e un secondo sta per essere pubblicato. A Leningrado vivo molto isolata e a volte sono malata per lunghi periodi. L’arresto delle sole due persone che mi sono vicine mi assesta un colpo che non posso sopportare. La prego, Iosif Vissarionovič, di rendermi mio marito e mio figlio, certa che nessuno se ne pentirà mai» (Anna Achmatova, 1° novembre 1935).Subito dopo aver ricevuto questa lettera, Stalin ordina di liberare il figlio e il marito di Anna Achmatova. L’ordine di scarcerazione arriva di notte e Punin, il marito, chiede se può continuare a dormire e essere rilasciato il mattino dopo, quando ricomincia il servizio dei tram. Gli rispondono che le prigioni sovietiche non sono alberghi, lo liberano subito e lui si fa a piedi tutta la strada fino alla Fontannyj dom.Nel 1938 Lidija Čukovskaja, alla quale hanno arrestato il ma rito, un astrofisico, Matvej Bronštejn, che è stato condannato a «dieci anni senza corrispondenza», va dall’Achmatova e le chiede come fare per fare liberare il proprio marito. Anni dopo saprà che quella formula, «dieci anni senza corrispondenza», era un eufemismo per dire «eliminato». Lidija comincia a frequentare Anna Achmatova e, ogni volta che la incontra, prende appunti. I suoi quaderni diventeranno tre volumi, intitolati Incontri con Anna Achmatova. Il primo dei volumi (1938-1941) è stato tradotto in italiano, per Adelphi, da Giovanna Moracci. All’inizio di questo primo volume Čukovskaja ci racconta come Anna Achmatova scriveva il poema su quel che succedeva nelle file davanti alle Croci, il carcere di Leningrado, il più grande dell’Unione Sovietica, dove lei è andata, per diciassette mesi, per vedere suo figlio Lev (l’avevano arrestato ancora). «Una volta», scrive Anna Achmatova, «una donna che stava dietro di me, con delle labbra blu e che, naturalmente, non aveva mai sentito il mio nome, si è riscossa dal torpore che ci avvolgeva tutti e mi ha chiesto in un orecchio (li sussurravano tutti): “Ma lei questo lo può descrivere?”. E io ho detto: “Posso”. Allora una cosa che sembrava un sorriso è scivolato lungo quello che una volta doveva esser stato il suo viso». Questo è il prologo di Requiem, come è stato scritto il resto ce lo dice Lidija Čukovskaja. «Anna Andreevna», scrive Čukovskaja, «quando veniva a trovarmi, mi recitava versi di Requiem in un sussurro, ma a casa sua, alla casa sulla Fontanka, non si risolveva neppure a sussurrare; d’un tratto, nel bel mezzo del discorso, si interrompeva e, indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzetto di carta e una matita; poi diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo: “Volete del tè?”, oppure: “Come siete abbronzata!”, scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e, quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio. “L’autunno è venuto così presto”, diceva Anna Andreevna ad alta voce e, acceso un fiammifero, bruciava il foglietto in un posacenere. Era un rito: le mani, il fiammifero, il posacenere - un rito splendido e doloroso».Io mi immagino Anna Achmatova e le sue conoscenti che, a guardare i loro contemporanei, si chiedono «Ma perché vanno tutti in giro con l’ombrello aperto come dei selvaggi?». E, contemporaneamente, di nascosto dai selvaggi, e col dubbio di essere loro, le selvagge, senza ombrello, bagnate fradicie, mettono in piedi un tipo di archivio stupefacente. Anna Achmatova, che non si azzardava a mettere per iscritto il suo poema, e che, a casa sua, aveva paura che ci fossero dei microfoni, non si azzardava neanche a dirle ad alta voce, le poesie di Requiem, Anna Achmatova era circondata da persone, una di queste è Lidija Cukovskaja, che le facevano da memoria. Persone che, come in Fahrenheit 451, di Ray Bradbury, diventavano persone-libro, la cui sopravvivenza equivaleva alla sopravvivenza di una grande opera letteraria. Ma Fahrenheit 451 è un romanzo, questa è la realtà. Se Anna Achmatova fosse morta, nella Leningrado degli anni Quaranta, ci sarebbero state loro, Lidija Čukovskaja e le altre selvagge, a tramandare Requiem.Tanti anni dopo, negli anni Sessanta, Anna Achmatova era ormai celebre, considerata, le avevano dato una laurea ad honorem, a Oxford, e ci si aspettava che da un momento all’altro le conferissero un riconoscimento accademico di grande prestigio, il «mantello di Oxford». Una volta era a casa sua con Lidija Čukovskaja, era arrivata la postina, lei si aspettava il mantello di Oxford e invece le era arrivato un librettino fatto a mano, dei foglietti di corteccia di betulla sui quali erano tracciati, graffiati, i suoi versi. C’era una lettera, che accompagnava quel libretto, e diceva che il libretto veniva da un gulag. I prigionieri di quel gulag avevano bisogno delle poesie di Anna Achmatova. E le poesie di Anna Achmatova avevano trovato il modo di arrivare fino a loro, fino al gulag. Lidija Cukovskaja, visto questo libretto (che si trova ancora, nella casa museo sulla Fontanka), ha detto a Anna Achmatova: «Questo vale più di cento mantelli di Oxford». Aveva ragione.In un libro singolarissimo di Mariusz Szczygieł sulla Repubblica Ceca, intitolato Gottland, si racconta, tra le altre, la storia di Tomáš Bat’a, il fondatore del calzaturificio Bata, che nel 1904 scrive, a caratteri enormi, sui muri del suo stabilimento, «Un giorno ha 86.400 secondi. E gli uomini per pensare, le macchine per sfacchinare. E non dobbiamo aver paura degli altri, dobbiamo avere paura di noi stessi».Qualche anno più tardi, nel 1926, quando Bat’a è diventato sindaco di Zlín, la città dello stabilimento, e la sua azienda è la più grande della Cecoslovacchia, e la Cecoslovacchia è la più grande esportatrice di calzature del mondo, sul muro del suo feltrificio Bat’a fa scrivere, sempre in quei caratteri giganti: «Non leggete romanzi russi». E, sul muro del gommificio: «I romanzi russi uccidono la gioia di vivere». Qualcuno, in questi anni, ha proposto, come Bat’a, di bandire la letteratura russa, di non leggerla più, di non studiarla più, di dimenticarla. Mi sembra che le vicende di Zoščenko, di Puškin, di Dostoevskij, di Brodskij, di Bulgakov, di Mandel’štam, di Daniil Charms, di Nikolaj Zabolockij, di Anna Achmatova e, per me più di qualsiasi altra cosa, quel minuscolo libretto di corteccia di betulla, siano lì a ricordarci che la letteratura russa è stata più forte della censura zarista, dell’esercito sovietico, del Politburo, del terrore, della guerra, dei gulag, sarà più forte anche di Bat’a e dei suoi imitatori occidentali, credo.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Lockheed F-35 «Lightning II» in costruzione a Fort Worth, Texas (Ansa)