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2020-04-29
«Non favoriamo i sovranisti». Il cerchio magico del Papa impone la frenata sulle messe
Papa Francesco (Grzegorz Galazka/Archivio Grzegorz Galazka/Mondadori Portfolio via Getty Images)
- Francesco sconfessa i vescovi: pesa l'azione dei suoi consiglieri attenti a non guastare i rapporti con Giuseppe Conte (e Sergio Mattarella). In vista di un nuovo soggetto politico progressista.
- Nello scontro fra poteri si dimentica la libertà dei cattolici (e dei laici). Le beghe di palazzo fanno passare in secondo piano le esigenze vere dei credenti. Che non possono essere affidate ai soli comitati tecnici di esperti o alle diatribe fra i gruppi di interessi della politica.
Lo speciale comprende due articoli.
Non disturbate il manovratore. Non poteva che essere papa Francesco con l'autorevolezza morale della veste bianca a silenziare i vescovi italiani in ebollizione contro la sciatteria del premier Giuseppe Conte, favorevole alla pizza d'asporto e non all'eucaristia sull'altare. Lo strappo era evidente, la frase «non possiamo accettare di vedere compromesso l'esercizio della libertà di culto» scritta nel comunicato della Cei ha percorso come una scarica elettrica il mondo cattolico. E al malumore di chi vorrebbe veder riaprire i portali delle chiese si è aggiunto quello di chi, nelle stanze del potere vaticano, è più sensibile alle ragioni della politica che a quelle della dottrina.
Ieri nella funzione in Santa Marta il pontefice ha provato a rimettere le cose a posto e a mandare a palazzo Chigi un sostanziale messaggio di pace. «In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell'obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni». Una cascata di schiuma antincendio subito rilanciata su Twitter con il sottofondo di campane a festa da padre Antonio Spadaro, il consigliere del Papa più preoccupato per un eventuale deterioramento dei rapporti con Pd e Movimento 5 stelle.
Dopo le parole di Francesco, i vescovi guidati dal cardinale Gualtiero Bassetti rimangono con il cerino acceso, protagonisti di quella che sembra una fuga in avanti, anche se un risultato concreto lo hanno raggiunto: costringono Conte a cercare soluzioni alternative, non ultima la proposta di tenere funzioni religiose all'aperto già dalla prossima settimana per evitare assembramenti in ambiente chiuso. Gli emissari della Cei avevano parlato a lungo con il governo, avevano stilato un protocollo molto rigido per consentire ai fedeli di tornare nella casa del Signore. Tutto questo per vedersi rifiutare gli sforzi dagli scienziati che dominano la scena, dal Comitato tecnico-scientifico, con la formula burocratica: «Criticità ineliminabili».
Sembrava un braccio di ferro d'altri tempi anche senza i bagliori dei roghi illuministi. Eppure i vescovi si erano semplicemente attenuti agli ordini del Papa. È stato proprio il pontefice due settimane fa a sottolineare con forza che «la familiarità dei cristiani con il Signore è sempre comunitaria, personale ma in comunità. Una familiarità senza comunità, senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa e può diventare gnostica. In questa pandemia si comunica attraverso i media ma non si sta insieme. Dobbiamo uscire dal tunnel per tornare insieme, perché questa non è la Chiesa». Il concetto è anche più profondo e frontale di quello enunciato dalla Conferenza episcopale, ma Francesco può permettersi amnesie non concesse ai comuni mortali, soprattutto quando sono utili alla diplomazia.
In questa fase i rapporti con il premier Conte, con il vero destinatario di ogni interlocuzione alta che è il capo dello Stato Sergio Mattarella, con l'inner circle intellettuale cattodem sono troppo importanti per essere messi in discussione dalla riapertura delle chiese. Questa è la filosofia politica dei più stretti collaboratori di Bergoglio, pronti a sacrificare i sacramenti sull'altare dell'ideologia. E impegnati su due fronti strategici: costruire il piedistallo di un partito del Papa proprio con l'attuale presidente del Consiglio come riferimento parlamentare e contare sulle alleanze italiane per annodare i fili con la Cina allo scopo di concretizzare lo storico viaggio di Francesco a Pechino via Wuhan.
Per capire la portata della fibrillazione provocata dalla legittima sollevazione dei vescovi è sufficiente allargare lo sguardo verso i tifosi della corrente progressista che domina in Vaticano e che è ben rappresentata nei media. A dare il via alle danze con comunicato della Cei ancora caldo è stata Chiara Geloni, ex dirigente dell'Azione cattolica, già portavoce di Pierluigi Bersani e direttrice di Youdem, la tv del Pd. Una domanda retorica ai vescovi sul suo blog ospitato da Huffington Post dice tutto: «Vale la pena di prestarsi alle strumentalizzazioni di qualche partitino o partitone abituato a volare bassissimo, a quelle degli atei devoti, a quelle dei nemici di papa Francesco?». Non prestare il fianco, partitini, nemici. Quindi politica.
Don Dino Pirri, twittstar e ospite fisso in televisione, simbolo dei parroci da spettacolo: «È una reazione emotiva, mi sarei aspettato più prudenza. Abbiamo spiegato ai fedeli che si doveva vivere con serenità questa privazione, ora diventa un sopruso». La bellezza della privazione in aiuto al governo, quindi politica. Un esempio lampante della contrapposizione arriva da Milano. Don Mario Longo, noto parroco della Santissima Trinità (zona Sarpi, Chinatown): «Lo Stato non può dire alla Chiesa di non esercitare la sua missione pastorale». Gli risponde sul Corriere della Sera don Luigi Caldera, guida della comunità Madonna del Rosario di Cesano Boscone e compagno di studi dell'arcivescovo Mario Delpini. La motivazione è da brivido: «In Corea la Chiesa è scomparsa per 200 anni e la fede è rimasta. Non facciamoci strumentalizzare dalla politica». Sempre la stessa ossessione.
Nello scontro fra poteri si dimentica la libertà dei cattolici (e dei laici)
Il clangore delle spade incrociate da governo e Conferenza episcopale sta sovrastando un mormorio più sommesso: quello dei fedeli cattolici che vorrebbero poter tornare nelle proprie parrocchie per partecipare all'eucarestia. Nel subbuglio prodotto dagli scambi di cortesie a mezzo stampa si rischia infatti di perdere di vista il tema principale: riaprire le messe al popolo non è semplicemente un modo per ribadire, da parte della Chiesa, un peso politico. È un'esigenza vera e profonda, che va al di là delle tensioni con i sovranisti e dei patti stabiliti sottovoce con Giuseppe Conte.
Si diventa Chiesa, ricordava Joseph Ratzinger, «non attraverso appartenenze sociologiche, bensì attraverso l'inserzione nel corpo stesso del Signore, per mezzo del battesimo e della eucarestia». Si diventa Chiesa partecipando alla messa. Perché quel pasto condiviso dai fedeli è l'esatto momento in cui - scriveva Carl Gustav Jung - «per un istante la vita di Cristo, eternamente presente al di fuori del tempo, diventa visibile e scorre nella successione temporale». Cristo è lì, in presenza dei fedeli: davvero ha senso impedire un così immenso incontro?
Per qualcuno, ovviamente, tutto ciò non ha importanza. Per i laicisti di Micromega, ad esempio, la comunità dei fedeli «è parte integrante di una comunità più estesa, quella civile, di fonte alla quale ogni soggetto istituzionale, ivi inclusa la Chiesa cattolica, è responsabile». Motivo per cui alle indicazioni del governo sulla chiusura «non è possibile derogare in nome di qualsivoglia autonomia o garantismo». Nel dibattito sulle messe, tuttavia, non sono in discussione soltanto l'autonomia della Chiesa cattolica e il potere dell'esecutivo. Qui c'è in gioco molto di più dell'antipatia di certi ambienti ecclesiastici per Salvini&Meloni o delle ambizioni della Comunità di Sant'Egidio. Parliamo della completezza degli esseri umani, che riguarda tanto i cattolici quanto i non credenti. Nei fatti, stiamo permettendo a un «comitato tecnico scientifico» e a qualche gruppo di interesse politico di prendere decisioni importantissime le quali hanno senz'altro a che fare con la salute del corpo, ma pure con la cura dell'anima.
Accettando la separazione dagli affetti più cari (ai quali ora ci viene concesso di riavvicinarci, non prima che siano passati al grottesco vaglio della «stabilità») e rinunciando ai riti più sacri, abbiamo permesso al governo di spezzarci in due. Come ha scritto Giorgio Agamben, «abbiamo scisso l'unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall'altra».
Questa scissione ci impedisce di vivere una vita «autenticamente umana». Ci condanna - lo intuì Ivan Illich - a una «sopravvivenza anestetizzata, impotente e solitaria in un mondo trasformato in una corsia d'ospedale». Vale per tutti, non soltanto per un pugno di cattolici e qualche sacerdote. Lasciando che a determinare il nostro rapporto con la fede e con il sacro siano i tecnici o gli amministratori da essi ispirati, ci priviamo di una parte fondamentale di umanità. Ci comportiamo come se l'esistenza si riducesse alla mera sopravvivenza del corpo.
È da parecchio tempo che questa concezione distorta della vita domina l'orizzonte, soprattutto da quando imperano l'ansia salutista e l'ossessione di ottenere «migliori prestazioni». In questo modo l'uomo è ridotto a una macchina, e la tecnica può proseguire nella sua marcia trionfale. Il problema è che se siamo giunti a questo punto - cioè a una pandemia globale - è anche per via dell'arroganza di un progresso che si basa soltanto sull'efficienza e sul profitto. In nome dell'efficienza e del profitto i piccoli coltivatori cinesi sono stati confinati nei wet market da cui è originata la malattia. In nome dell'efficienza e del profitto abbiamo tagliato i posti letto nella sanità pubblica, abbiamo cessato la produzione interna di mascherine, abbiamo perfino fondato l'intero edificio europeo sulla legge «della perdita e del guadagno».
Se pensiamo di costruire un futuro radioso su queste stesse basi - trascurando cioè la vita «autenticamente umana», tralasciando il sacro, limitando la vera libertà - non facciamo altro che illuderci. Affidando ai «comitati» e agli autocrati improvvisati la gestione dell'anima potremo sicuramente tornare «alla vita di prima». Ma è la «vita di prima» che ci ha condotto dove siamo ora.
Francesco sconfessa i vescovi: pesa l'azione dei suoi consiglieri attenti a non guastare i rapporti con Giuseppe Conte (e Sergio Mattarella). In vista di un nuovo soggetto politico progressista.Nello scontro fra poteri si dimentica la libertà dei cattolici (e dei laici). Le beghe di palazzo fanno passare in secondo piano le esigenze vere dei credenti. Che non possono essere affidate ai soli comitati tecnici di esperti o alle diatribe fra i gruppi di interessi della politica.Lo speciale comprende due articoli. Non disturbate il manovratore. Non poteva che essere papa Francesco con l'autorevolezza morale della veste bianca a silenziare i vescovi italiani in ebollizione contro la sciatteria del premier Giuseppe Conte, favorevole alla pizza d'asporto e non all'eucaristia sull'altare. Lo strappo era evidente, la frase «non possiamo accettare di vedere compromesso l'esercizio della libertà di culto» scritta nel comunicato della Cei ha percorso come una scarica elettrica il mondo cattolico. E al malumore di chi vorrebbe veder riaprire i portali delle chiese si è aggiunto quello di chi, nelle stanze del potere vaticano, è più sensibile alle ragioni della politica che a quelle della dottrina.Ieri nella funzione in Santa Marta il pontefice ha provato a rimettere le cose a posto e a mandare a palazzo Chigi un sostanziale messaggio di pace. «In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell'obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni». Una cascata di schiuma antincendio subito rilanciata su Twitter con il sottofondo di campane a festa da padre Antonio Spadaro, il consigliere del Papa più preoccupato per un eventuale deterioramento dei rapporti con Pd e Movimento 5 stelle. Dopo le parole di Francesco, i vescovi guidati dal cardinale Gualtiero Bassetti rimangono con il cerino acceso, protagonisti di quella che sembra una fuga in avanti, anche se un risultato concreto lo hanno raggiunto: costringono Conte a cercare soluzioni alternative, non ultima la proposta di tenere funzioni religiose all'aperto già dalla prossima settimana per evitare assembramenti in ambiente chiuso. Gli emissari della Cei avevano parlato a lungo con il governo, avevano stilato un protocollo molto rigido per consentire ai fedeli di tornare nella casa del Signore. Tutto questo per vedersi rifiutare gli sforzi dagli scienziati che dominano la scena, dal Comitato tecnico-scientifico, con la formula burocratica: «Criticità ineliminabili». Sembrava un braccio di ferro d'altri tempi anche senza i bagliori dei roghi illuministi. Eppure i vescovi si erano semplicemente attenuti agli ordini del Papa. È stato proprio il pontefice due settimane fa a sottolineare con forza che «la familiarità dei cristiani con il Signore è sempre comunitaria, personale ma in comunità. Una familiarità senza comunità, senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa e può diventare gnostica. In questa pandemia si comunica attraverso i media ma non si sta insieme. Dobbiamo uscire dal tunnel per tornare insieme, perché questa non è la Chiesa». Il concetto è anche più profondo e frontale di quello enunciato dalla Conferenza episcopale, ma Francesco può permettersi amnesie non concesse ai comuni mortali, soprattutto quando sono utili alla diplomazia. In questa fase i rapporti con il premier Conte, con il vero destinatario di ogni interlocuzione alta che è il capo dello Stato Sergio Mattarella, con l'inner circle intellettuale cattodem sono troppo importanti per essere messi in discussione dalla riapertura delle chiese. Questa è la filosofia politica dei più stretti collaboratori di Bergoglio, pronti a sacrificare i sacramenti sull'altare dell'ideologia. E impegnati su due fronti strategici: costruire il piedistallo di un partito del Papa proprio con l'attuale presidente del Consiglio come riferimento parlamentare e contare sulle alleanze italiane per annodare i fili con la Cina allo scopo di concretizzare lo storico viaggio di Francesco a Pechino via Wuhan.Per capire la portata della fibrillazione provocata dalla legittima sollevazione dei vescovi è sufficiente allargare lo sguardo verso i tifosi della corrente progressista che domina in Vaticano e che è ben rappresentata nei media. A dare il via alle danze con comunicato della Cei ancora caldo è stata Chiara Geloni, ex dirigente dell'Azione cattolica, già portavoce di Pierluigi Bersani e direttrice di Youdem, la tv del Pd. Una domanda retorica ai vescovi sul suo blog ospitato da Huffington Post dice tutto: «Vale la pena di prestarsi alle strumentalizzazioni di qualche partitino o partitone abituato a volare bassissimo, a quelle degli atei devoti, a quelle dei nemici di papa Francesco?». Non prestare il fianco, partitini, nemici. Quindi politica. Don Dino Pirri, twittstar e ospite fisso in televisione, simbolo dei parroci da spettacolo: «È una reazione emotiva, mi sarei aspettato più prudenza. Abbiamo spiegato ai fedeli che si doveva vivere con serenità questa privazione, ora diventa un sopruso». La bellezza della privazione in aiuto al governo, quindi politica. Un esempio lampante della contrapposizione arriva da Milano. Don Mario Longo, noto parroco della Santissima Trinità (zona Sarpi, Chinatown): «Lo Stato non può dire alla Chiesa di non esercitare la sua missione pastorale». Gli risponde sul Corriere della Sera don Luigi Caldera, guida della comunità Madonna del Rosario di Cesano Boscone e compagno di studi dell'arcivescovo Mario Delpini. La motivazione è da brivido: «In Corea la Chiesa è scomparsa per 200 anni e la fede è rimasta. Non facciamoci strumentalizzare dalla politica». 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Nel subbuglio prodotto dagli scambi di cortesie a mezzo stampa si rischia infatti di perdere di vista il tema principale: riaprire le messe al popolo non è semplicemente un modo per ribadire, da parte della Chiesa, un peso politico. È un'esigenza vera e profonda, che va al di là delle tensioni con i sovranisti e dei patti stabiliti sottovoce con Giuseppe Conte. Si diventa Chiesa, ricordava Joseph Ratzinger, «non attraverso appartenenze sociologiche, bensì attraverso l'inserzione nel corpo stesso del Signore, per mezzo del battesimo e della eucarestia». Si diventa Chiesa partecipando alla messa. Perché quel pasto condiviso dai fedeli è l'esatto momento in cui - scriveva Carl Gustav Jung - «per un istante la vita di Cristo, eternamente presente al di fuori del tempo, diventa visibile e scorre nella successione temporale». Cristo è lì, in presenza dei fedeli: davvero ha senso impedire un così immenso incontro? Per qualcuno, ovviamente, tutto ciò non ha importanza. Per i laicisti di Micromega, ad esempio, la comunità dei fedeli «è parte integrante di una comunità più estesa, quella civile, di fonte alla quale ogni soggetto istituzionale, ivi inclusa la Chiesa cattolica, è responsabile». Motivo per cui alle indicazioni del governo sulla chiusura «non è possibile derogare in nome di qualsivoglia autonomia o garantismo». Nel dibattito sulle messe, tuttavia, non sono in discussione soltanto l'autonomia della Chiesa cattolica e il potere dell'esecutivo. Qui c'è in gioco molto di più dell'antipatia di certi ambienti ecclesiastici per Salvini&Meloni o delle ambizioni della Comunità di Sant'Egidio. Parliamo della completezza degli esseri umani, che riguarda tanto i cattolici quanto i non credenti. Nei fatti, stiamo permettendo a un «comitato tecnico scientifico» e a qualche gruppo di interesse politico di prendere decisioni importantissime le quali hanno senz'altro a che fare con la salute del corpo, ma pure con la cura dell'anima. Accettando la separazione dagli affetti più cari (ai quali ora ci viene concesso di riavvicinarci, non prima che siano passati al grottesco vaglio della «stabilità») e rinunciando ai riti più sacri, abbiamo permesso al governo di spezzarci in due. Come ha scritto Giorgio Agamben, «abbiamo scisso l'unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall'altra». Questa scissione ci impedisce di vivere una vita «autenticamente umana». Ci condanna - lo intuì Ivan Illich - a una «sopravvivenza anestetizzata, impotente e solitaria in un mondo trasformato in una corsia d'ospedale». Vale per tutti, non soltanto per un pugno di cattolici e qualche sacerdote. Lasciando che a determinare il nostro rapporto con la fede e con il sacro siano i tecnici o gli amministratori da essi ispirati, ci priviamo di una parte fondamentale di umanità. Ci comportiamo come se l'esistenza si riducesse alla mera sopravvivenza del corpo. È da parecchio tempo che questa concezione distorta della vita domina l'orizzonte, soprattutto da quando imperano l'ansia salutista e l'ossessione di ottenere «migliori prestazioni». In questo modo l'uomo è ridotto a una macchina, e la tecnica può proseguire nella sua marcia trionfale. Il problema è che se siamo giunti a questo punto - cioè a una pandemia globale - è anche per via dell'arroganza di un progresso che si basa soltanto sull'efficienza e sul profitto. In nome dell'efficienza e del profitto i piccoli coltivatori cinesi sono stati confinati nei wet market da cui è originata la malattia. In nome dell'efficienza e del profitto abbiamo tagliato i posti letto nella sanità pubblica, abbiamo cessato la produzione interna di mascherine, abbiamo perfino fondato l'intero edificio europeo sulla legge «della perdita e del guadagno». Se pensiamo di costruire un futuro radioso su queste stesse basi - trascurando cioè la vita «autenticamente umana», tralasciando il sacro, limitando la vera libertà - non facciamo altro che illuderci. Affidando ai «comitati» e agli autocrati improvvisati la gestione dell'anima potremo sicuramente tornare «alla vita di prima». Ma è la «vita di prima» che ci ha condotto dove siamo ora.
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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