
La Nigeria prova a rafforzare il proprio dispositivo militare contro il jihadismo armato e si rivolge agli Stati Uniti per colmare un deficit operativo che da anni compromette la sicurezza del Nord del Paese. Il presidente Bola Tinubu ha confermato l’ordine di quattro elicotteri d’attacco di fabbricazione americana, chiarendo però che le consegne richiederanno tempo. Proprio per ridurre questo vuoto temporale, Abuja ha avviato canali paralleli anche con la Turchia (molto attiva nell’area), nel tentativo di accelerare l’accesso a capacità aeree considerate cruciali nella lotta ai gruppi jihadisti. La mossa arriva mentre cresce la pressione internazionale.
Venerdì scorso il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato di aver autorizzato un raid aereo contro obiettivi dell’Isis in Nigeria, accusando apertamente i miliziani di condurre una campagna sistematica di violenze contro le comunità cristiane. Il governo nigeriano ha risposto rivendicando una «cooperazione strutturata in materia di sicurezza» con i partner internazionali, Stati Uniti compresi, sostenendo che le operazioni più recenti abbiano colpito con precisione infrastrutture terroristiche. Un messaggio diretto a Washington, dopo mesi di dichiarazioni aggressive di Trump, che già in autunno aveva evocato un possibile intervento diretto per difendere i cristiani nel Paese più popoloso dell’Africa. Sul terreno, però, la minaccia jihadista non si è certo esaurita con la dissoluzione di Boko Haram. Nel Nordest della Nigeria il baricentro del conflitto si è spostato sull’Iswap, la provincia dell’Africa Occidentale dello Stato islamico, divenuta l’attore armato dominante dopo la morte di Abubakar Shekau nel 2021 e il collasso della fazione storica.
Questa evoluzione si riflette anche nella scelta dei bersagli. Iswap non agisce in modo casuale: punta a gestire rotte locali, imporre tributi alle comunità rurali e sfruttare l’assenza dello Stato. Le sue operazioni colpiscono basi militari, convogli dell’esercito e villaggi considerati ostili o collaborativi con le autorità. In questo quadro, le comunità cristiane risultano tra le vittime principali della violenza jihadista. Negli Stati di Borno, Yobe e Adamawa, gli attacchi sono spesso diretti proprio contro insediamenti cristiani, con uccisioni mirate, incendi di chiese e abitazioni, e azioni volte a svuotare intere aree, favorendo sfollamenti forzati e alterando gli equilibri demografici locali. Iswap ha inoltre affinato la propria strategia militare e comunicativa. Evita, quando possibile, le stragi indiscriminate di musulmani che avevano isolato Boko Haram anche sul piano locale, preferendo un approccio più selettivo: violenza mirata, intimidazione e controllo attraverso la paura. Questa linea ha reso il gruppo più resiliente e capace di operare su scala regionale, con ramificazioni attive anche in Niger, Ciad e Camerun, mantenendo al tempo stesso una pressione costante sulle minoranze cristiane. A complicare la risposta di Abuja non c’è però solo la forza di Iswap. Un fattore decisivo resta la corruzione endemica nelle forze armate. Analisti e fonti di sicurezza segnalano da anni la dispersione di fondi destinati a equipaggiamenti e logistica, mentre i soldati schierati in prima linea denunciano carenze di munizioni, mezzi e stipendi. In più occasioni reparti hanno abbandonato le posizioni o evitato il confronto, lasciando villaggi - spesso cristiani - esposti agli attacchi. Collusioni, traffici illeciti e la vendita di armi sul mercato nero hanno ulteriormente indebolito l’apparato militare, contribuendo indirettamente alla capacità di Iswap di rifornirsi e riorganizzarsi. La corruzione mina anche il morale delle truppe e rafforza la narrativa jihadista, che descrive lo Stato come inefficiente e predatorio. Finché Abuja non affronterà in modo strutturale questo nodo - dalla catena di comando alla gestione dei fondi per la difesa - l’acquisto di nuovi elicotteri e il sostegno internazionale rischiano di restare del tutto insufficienti.






