
La Cassazione boccia la richiesta di un pompiere caduto dall'albero nel tentativo di afferrare l'animale: «Non ha dimostrato che fosse realmente in pericolo». E lo condannano pure a pagare 2.000 euro di spese.Se non miagola aiuto, non vale. Se il gatto sull'albero non dimostra di avere i polpastrelli sudati, di essere terrorizzato e sprovvisto di paracadute, aiutarlo non è da servitori dello Stato e del cittadino. Ma da sciocchi, da perditempo, da falsi invalidi. Con una sentenza traducibile in questa immagine da fumetto, la Cassazione ha bocciato la richiesta di indennità Inail di un invalido vero, un vigile del fuoco che nel 2005, per salvare il suddetto micio, era salito con la scala sul fatidico ramo che da un secolo era lì a cinque metri dal suolo ad aspettare proprio quel momento per spezzarsi. Caduta rovinosa, lungo infortunio, lieve invalidità, causa, processo. La vicenda si verificò alla periferia di Padova, quando un'anziana signora chiamò i pompieri perché il suo micio non riusciva a scendere dall'albero. Una scena consunta, modernariato da Topolino e da cartoons di Hanna & Barbera, compresi la crocchia della nonna, il temporale notturno, il pelo fradicio e la fetta di torta di mele, premio per l'ammaccato salvatore. Una storia che per avere un finale diverso dal solito ha dovuto attendere 13 anni di dibattimenti e carte bollate, fino a che la Suprema corte non ha emesso la sentenza: «Il vigile del fuoco non ha diritto di essere riconosciuto vittima del dovere perché non ha saputo dimostrare che il gatto fosse in pericolo. La circostanza non può essere presunta solo per il fatto che lo stesso si era arrampicato fino a cinque metri, essendo notorio che i gatti sono animali in grado di arrampicarsi». Come le aquile di volare e i pesci di nuotare e certi giudici di stupendamente arzigogolare. Dev'essersi divertita la Cassazione - percepita da noi fricchettoni del diritto come un consesso di saggi pensosi e corrucciati che si muovono fra pareti imbottite di codici - a stilare la sentenza felina. Infatti ha aggiunto che toccava al pompiere dimostrare «che il micio rischiasse in concreto di perdere l'equilibrio e cadere dall'alto e che così vi erano gli elementi necessari a qualificare l'intervento come operazione di soccorso di animale in pericolo e non come banale ausilio della discesa dell'animale». La differenza in teoria ci sarebbe, il problema sta nella difficoltà di coglierla, e capire se un gatto che miagola con insistenza in cima a una pianta ha paura o sta insultando i passanti. Poiché il vigile del fuoco non aveva sottomano un vocabolario dal gattese, meglio avrebbe fatto (secondo la Cassazione, per proprietà transitiva della sentenza) a chiamare un etologo, un epigono di Konrad Lorenz o di Giorgio Celli, l'uomo che sussurrava ai gatti. Invece il malcapitato salvatore non aveva fra le mani nessuno e nelle orecchie solo le implorazioni della nonnina, preoccupata per le sorti del micio in bilico lassù. Ecco, forse ai giudici è mancato un passaggio d'umanità: quel pompiere non stava salvando l'animale, ma stava salvando la sua padrona. La stava aiutando a ritrovare la serenità occupandosi di uno degli esseri viventi più importanti per lei. È il destino dei vigili del fuoco, un corpo amato dagli italiani proprio perché generoso, altruista, mai speculativo. Gente che indossa una nobile divisa e non fa differenza fra un incendio, un'alluvione, un terremoto, una slavina, una casa che brucia. E quando te lo chiede una signora che potrebbe essere tua mamma, magari con le lacrime a gli occhi, anche un gatto. Per non aver saputo dimostrare che il micio chiedeva davvero aiuto gli hanno pure fatto pagare 2.000 euro di spese processuali. Eppure la sentenza di primo grado lo aveva illuso. Lì aveva vinto e il tribunale aveva argomentato: «Tra le attività dei vigili del fuoco rientra anche il salvataggio animali, per cui l'evento che si verificava merita una speciale tutela». Il ministero dell'Interno ha interposto ricorso con una motivazione che farebbe rabbrividire anche il più tiepido degli ambientalisti: «Il soccorso implica solo il salvataggio di un essere umano, quindi l'intervento era solo mirato ad aiutare il gatto a scendere». Non ci sfugge lo sfoggio di Variazioni Goldberg in punta di diritto che forse meriterebbe miglior causa, ma ogni micione è bello 'a mamma sua, quindi andiamo avanti. La corte d'Appello ribalta la decisione, la Cassazione conferma e il salvatore non è più vittima del dovere, ma solo del suo animo gentile. Quindi nessuna invalidità da pagare. A voler guardare, questa non è l'unica sentenza della Suprema corte - consesso che sempre fa giurisprudenza per giudici e avvocati - all'insegna dell'impressionismo. C'è quella che impone di strizzare bene i panni prima di stenderli per non farli sgocciolare sul balcone sottostante (caso avvenuto a Brescia); quella che non considera reato un'offerta di denaro alla polizia stradale per evitare una multa se la mazzetta non supera i 10i euro (Roma); quella che teorizza il non adulterio nella relazione extraconiugale online (Milano); quella che impone alla scuola il risarcimento danni se un alunno dà fuoco a una compagna di classe (Venezia). Al di là di tutto, la sentenza è una lezione anche per quei gatti protervi che pretendono di condizionare le nostre esistenze. Da domani, per godersi il goffo spettacolo del salvataggio, sugli alberi dovranno mandarci le anziane padrone.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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