Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo stralci dalle conclusioni di «Geopolitica dell’Intelligenza artificiale» (Feltrinelli, 576 pagine, 24 euro). Nel libro, Aresu racconta protagonisti, idee e sviluppi geopolitici della corsa degli investimenti legati all’Intelligenza artificiale. Nel brano proposto, l’autore - già consigliere di Palazzo Chigi e dell’Agenzia spaziale italiana - traccia un quadro critico per i Paesi Ue, in declino demografico e zavorrati da istituzioni la cui deriva burocratizzante ostacola la creazione di giganti dell’innovazione.
Nel 1906 Werner Sombart pone la domanda: «Sarà l’America o l’Europa il paese del futuro?». Si tratta ormai di una domanda priva di senso. Non può essere posta sul serio, altrimenti verrà solo accolta da risate. Diventiamo il paese del futuro con la ristrutturazione delle facciate degli edifici? O abbiamo altri progetti? Dopo il suicidio europeo delle due guerre mondiali, fin dagli anni Sessanta esiste un’importante corrente di pensiero francese, con un «manifesto» scritto da Jean-Jacques Servan-Schreiber nel 1967, La sfida americana, che predica a vario titolo l’idea, mai definita in modo da renderla comprensibile a qualche testardo ingegnere, di «autonomia tecnologica europea». Nel nostro secolo, questo concetto è ormai diventato imbarazzante, per via dell’enorme divario finanziario, militare e tecnologico tra le due sponde dell’Atlantico. È dunque venuto il momento di buttarlo, consegnarlo alla pattumiera della storia.
La prossima volta che ci sarà una correzione dei mercati finanziari degli Stati Uniti - che senz’altro arriverà - o il fallimento di qualche banca - che accadrà -, quando leggerete gli articoli sul declino della Silicon Valley e sull’avarizia di Wall Street, meditate sulle dichiarazioni tragicomiche di politici europei come Sarkozy e Steinbrück nel 2008 e 2009, che avevano annunciato la fine del capitalismo americano. Mentre i politici europei pronunciavano quelle dichiarazioni, l’adolescente Palmer Luckey smontava e smanettava, costruendo prototipi di visori per i videogiochi. Durante la pseudolezione dell’Europa, andava in scena la prima Gtc di Nvidia. Al divario quantitativo si unisce il metodo, nell’epoca del capitalismo politico e dell’allargamento della sicurezza nazionale. Gli Stati europei e l’Unione europea hanno sostituito le tre domande kantiane («Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa ho diritto di sperare?») con un’altra domanda: «Che cosa posso regolare?». Solo che si può compiere una decisione politico-amministrativa sulla regolazione senza sapere nulla: il corpo burocratico più importante della Commissione europea, la DG Competition, nel 2019 ha ritenuto che Nvidia non avrebbe avuto potere di mercato nei data center, e l’azienda potrebbe avere da questo mercato ricavi da 87 miliardi di dollari cinque anni dopo.
[…] Certo, tutti possiamo concordare che la «città dell’intelligenza artificiale» delle conferenze di Jensen in Cina non è il mondo in cui vogliamo vivere, e quindi su quegli usi della tecnologia debbono esserci controlli. Altrettanto chiaramente, non è l’unica questione da porsi, e non deve diventare un modo per distogliere l’attenzione rispetto a tutto il resto, e cioè la nascita, lo sviluppo e il consolidamento di alcune imprese, di alcune organizzazioni che è importante comprendere. Vivere in parallelo è possibile solo ponendo le domande giuste: altrimenti, l’informazione e l’energia vengono disperse. Una domanda più sensata allora è: «Come posso far arrivare Jensen qui?». In che modo un ragazzo o una ragazza del Kentucky, nel senso di Jensen, può decidere di arrivare e restare in Europa, lavorare in pizzeria, in gelateria, ma in parallelo creare qualcosa? Perché queste persone non sono venute e non vengono in Europa? Quando Jensen parla agli studenti di Taiwan, dice: «In quarant’anni, abbiamo creato il personal computer, Internet, il mobile, il cloud, e ora l’era dell’intelligenza artificiale. E voi, cosa creerete?». Dove si può creare e innovare? Negli Stati Uniti. Dove si può costruire e scalare? In Asia.
Il discorso pubblico europeo privilegia la lamentela attorno al mantenimento di un proprio ruolo nel mondo alla conoscenza di paesi la cui crescita è protagonista in questo secolo e in questa fase storica, perché semplicemente ospitano più persone istruite e più capacità produttiva oppure perché sono in diverso modo «connettori» o «frontiere» nel conflitto tra Stati Uniti e Cina. Questa conoscenza non è più opzionale. È necessaria. La domanda «Cosa possiamo fare?» è dunque inutile, provinciale e patetica, se si ignora ciò che accade non solo in Giappone, Corea del Sud, Taiwan, India, ma anche in luoghi come Singapore, Malesia, Vietnam. Facciamo qualche breve esempio conclusivo.
In una distribuzione geografica delle vendite di Nvidia di fine 2023, sono indicate cinque aree, nell’ordine: Stati Uniti, Taiwan, Cina (compresa Hong Kong), Singapore, il resto del mondo. Singapore, che in quei nove mesi di vendite vale da solo circa il doppio del resto del mondo, è il principale centro asiatico della connettività. Nelle classifiche dei data center si colloca subito dopo i principali hub degli Stati Uniti. Lo stato di Penang, nella Malesia nord-occidentale, ha attirato circa 13 miliardi di dollari di investimenti esteri nel 2023, più di quanto ricevuto dal 2013 al 202028. L’accelerazione determinata dalla guerra tecnologica tra Pechino e Washington, che rende la Malesia un vincitore con proporzioni impreviste, non viene certo dal nulla. Da più di cinquant’anni è un hub di assemblaggio e test per semiconduttori. Nel 1975, un terribile incendio ha colpito la fabbrica di Intel a Penang: la sua ricostruzione a tempo di record, e la capacità di mantenere gli obiettivi di produzione, sono stati celebrati di persona da sua maestà Gordon Moore nel 1978, dieci anni dopo la fondazione di Intel, con un’iconica foto in mezzo agli operai. Quarant’anni dopo, nel 2018, i circa diecimila dipendenti malesi, di cui il 95% ingegneri, hanno festeggiato il cinquantennale dalla fondazione di Intel. E oltre a quello che si vede, conta l’invisibile corsa all’oro digitale che attraversa la Malesia, nella zona grigia tra imprenditorialità e criminalità che caratterizza questa frontiera della guerra tecnologica.
Rechiamoci brevemente in Vietnam. A dicembre 2023, nel giro di pochi giorni, Sam Altman, nella sua prima apparizione ufficiale dopo il ritorno al timone di OpenAi, interviene alla principale conferenza di Ho Chi Minh City sull’intelligenza artificiale, mentre Jensen a Hanoi appende il giubbotto in pelle per godersi il cibo di strada vietnamita col suo staff, prima di discutere gli investimenti in un paese dove decine di migliaia di studenti tornano dall’estero per cogliere ancora di più le opportunità della diversificazione dalla Cina, e trasformare la crescita manifatturiera in un’ondata tecnologica vietnamita. Fuori dagli incontri istituzionali e dalle conferenze, un enorme caos creativo, in cui spuntano «mulini satanici» vietnamiti, americani, giapponesi, cinesi e dalla proprietà ambigua. Perché un imprenditore sano di mente dovrebbe scommettere, oggi, sulla Germania e non sul Vietnam?
[…] Ingranaggi ribelli di vario tipo si sono intrufolati nel «nuovo modo di produzione asiatico»: non è una strada a senso unico. E tuttavia, dagli anni Novanta a oggi, nessuna previsione sulla sindacalizzazione della manifattura asiatica - i cui lavoratori vogliono migliorare la propria condizione, come tutti - è stata in grado di valutare la capacità del sistema regionale dell’Asia orientale di rinnovarsi e di approfondire la propria integrazione. È una forza concentrica sempre più ampia, dove lo sviluppo si diffonde tra miliardi di persone che non hanno intenzione di fermarsi. La scommessa cinese riguarda anche la tenuta di questa capacità produttiva e della sua struttura regionale. La Cina sa che i suoi avversari continueranno a colpire l’interdipendenza: come il maestro Peter Thiel, secondo cui a legare Pechino e l’Occidente ci sono «cento gasdotti Nord Stream che esploderanno tutti insieme il giorno dell’invasione di Taiwan». Ma, nella visione di Pechino, oltre la battuta e le schermaglie, non ci sarà la sostanza. Nel corso di questo chiacchiericcio, nella prospettiva cinese accadranno tre cose concrete: in primo luogo, l’intelligenza artificiale intesa come supporto per i processi delle fabbriche e come riduzione dei difetti di produzione continuerà ad ampliare la forza della «superpotenza manifatturiera» di Pechino; in secondo luogo, la presa dei campioni cinesi elettronici e industriali nei mercati fuori dall’Occidente, pur con una limitata disponibilità finanziaria, garantirà la diffusione dei prodotti, compresi quelli con cui sarà diffusa l’intelligenza artificiale (come gli smartphone); in terzo luogo, gli europei non potranno abbandonare la sirena del mercato cinese e non si schiereranno mai fino in fondo con gli Stati Uniti, mentre l’azione delle imprese statunitensi sarà comunque distante dalla retorica bipartisan di Washington.
[…] Alle cattedrali della nostra civiltà abbiamo sostituito l’invidia per una competizione che non conosciamo, visto che rinunciamo a viverla, mentre si è materializzata Nvidia. «What I cannot build, I cannot understand». Ci lamentiamo della velocità degli altri, senza avere alcuna possibilità di rallentarli. Senz’altro esiste una vera dialettica politica, che riguarda il rapporto tra le grandi aziende tecnologiche americane e le autorità regolatorie degli Stati Uniti, nell’eterno dibattito tra Arrow e Schumpeter, al quale spesso si richiama Lina Khan. L’Europa rimane un mercato di un qualche rilievo, ma si trova ormai in una spirale che ridurrà questa importanza relativa: unita al declino demografico, la debolezza sulla tecnologia mina la crescita e riduce la quota di mercato europea; di conseguenza, la tesi della «potenza della regolazione» accelera inevitabilmente e costantemente il proprio declino, la propria impotenza.
Pubblichiamo un articolo di Alessandro Aresu, membro del consiglio scientifico di Limes, collabora con Gnosis, Aspenia e Civiltà delle macchine. Autore di L’interesse nazionale, la bussola dell’Italia, coautore Luca Gori, ambasciatore per l’Italia a Belgrado, Le potenze del Capitalismo politico e Il dominio del ventunesimo secolo. Ha svolto e svolge attività con varie istituzioni tra cui presidenza del Consiglio, ministero dell’Università e Ricerca e dicastero dell’Economia.
Il 10 febbraio 1953 è la data di nascita dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni). La legge numero 136, con 29 articoli e due allegati, delinea le prospettive della creatura di Enrico Mattei. La premessa di quest’evento è un capitolo importante della nostra storia civile: Mattei imprenditore e politico democristiano, era stato nominato nel 1945 commissario dell’Agip, l’Azienda generale italiana petroli nata nel 1926, con l’incarico di procedere alla sua liquidazione.
Nel confronto con le persone che lavoravano per Agip, definita scherzosamente già durante il fascismo «Agenzia gerarchi in pensione» per indicare la sua inutilità, Mattei aveva maturato un’opinione completamente diversa. Aveva iniziato a vedere negli idrocarburi e nell’energia una potente leva della rinascita industriale italiana, un elemento di aggregazione in un Paese ferito e indebolito. Già in Agip, Mattei aveva valorizzato le grandi competenze italiane in campo geologico e chimico e aveva maturato una crescente ambizione, non solo nell’ambito nazionale ma anche in politica estera.
La nascita dell’Ente nazionale idrocarburi risponde a quest’ambizione, quest’ossessione del rilancio nazionale, con cui Mattei diviene uno dei grandi protagonisti della vita italiana. Allo stesso tempo, è anche una storia istituzionale e legislativa, che lo vede lavorare al fianco di Alcide De Gasperi, il quale sposa il progetto, e soprattutto di Ezio Vanoni, un padre della Repubblica oggi dimenticato, ministro delle Finanze e amico fraterno di Mattei, grande protagonista della stagione delle riforme degli anni Cinquanta prima della sua prematura scomparsa nel 1956, dopo aver pronunciato un accorato discorso in Senato.
Il ricordo del settantennale dell’Ente nazionale idrocarburi, oltre all’importanza di quella stagione fondamentale, suscita alcune riflessioni sull’impronta di Enrico Mattei, sulla profonda attualità dei suoi insegnamenti e dell’esempio della sua vita, spezzata da un attentato di cui non sono mai stati individuati i mandanti, e forse mai lo saranno.
Dall’istituzione di Eni, Mattei ha davanti a sé meno di dieci anni di azione, in una stagione molto felice per l’economia italiana. In quel periodo, comunque lungo per i nostri standard, è in grado di conseguire importanti risultati, sul piano nazionale e internazionale. A livello interno, la prospettiva di Mattei ha due pilastri lungimiranti: l’ossessione per la realizzazione di infrastrutture e la costruzione di una classe dirigente. Mattei impegna le realtà industriali pubbliche in un grande progetto di infrastrutturazione dell’Italia, che ha anche caratteristiche «violente» perché, per rispondere alle necessità di una società in cambiamento, bisogna fare in fretta, senza essere bloccati da veti.
Quel lavoro dimostra l’importanza delle infrastrutture per creare occupazione e benessere in un Paese povero, che cerca di rialzarsi. Inoltre, le persone sono al centro del progetto di Mattei, sia nelle strutture organizzative dell’Ente sia nella volontà di attirare giovani brillanti e promossi velocemente a dirigenti. Inoltre Mattei, che ha un chiaro orientamento politico, è forse la persona della storia d’Italia che ha voluto lavorare meglio con gli altri a prescindere dalle loro convinzioni. Come consulenti e collaboratori, trattiene e attira democristiani, socialisti, fascisti, comunisti. Se l’ex banchiere del Reich, Hjalmar Schacht, poteva essere utile per i progetti energetici in Baviera, Mattei era ben felice di lavorarci. Così come ha mandato il brillante giornalista comunista Mario Pirani a Tunisi come alto ufficiale di collegamento con l’Algeria.
Questo era possibile perché la forza di un progetto nazionale funzionava come un magnete, un centro di passione più forte delle varie differenze. Questa prospettiva si riflette anche nel rapporto essenziale tra energia e politica estera, che per Mattei risponde a un doppio schema: l’uscita dell’Italia da alcune limitazioni dello status di Paese sconfitto dalla Seconda guerra mondiale; la volontà di usare l’opportunità della decolonizzazione per fare gli interessi nazionali. Qui si inserisce l’attivismo di Mattei in quello che oggi definiremmo Mediterraneo allargato e in Africa: un elemento fondamentale del suo progetto, ripreso oggi dall’idea di un «Piano Mattei» dell’attuale governo.
Ora, non dobbiamo pensare che Mattei volesse distruggere i rapporti di forza dell’energia a livello mondiale. Però voleva di certo cambiarli, visto che cercava un ruolo per l’Italia, che ne era priva. In quest’azione c’erano anche limiti, finanziari e geopolitici. La ricerca storica, al di là di documenti occasionali che non meritano troppa attenzione, ha per esempio mostrato che, all’inizio degli anni Sessanta, Mattei cercava la riconciliazione con Washington.
Il fulcro di quella debordante ambizione erano sempre le persone. Pensiamo, per esempio, alla Scuola di studi superiori sugli idrocarburi, un progetto avviato da Mattei per formare quadri e tecnici dell’energia. Non solo italiani ma anche futuri «ambasciatori» in altri Paesi. Nei discorsi alla Scuola degli anni Cinquanta, in cui Mattei espone la sua strategia e in cui sciorina i numeri di tutte le tipologie di tecnici che ha assunto, descrive così il suo Ente: una «grande armata in movimento, che si estende dappertutto, in Italia, nella Valle Padana, nel Centro, nel Sud, in Sicilia, nel mare, in Persia, nel Sahara marocchino e potete essere certi che raggiungerà anche altri Paesi».
Pertanto, quello di Mattei è l’esempio più alto di un’ambizione internazionale che si ritrova anche in altre esperienze italiane dimenticate, per esempio le collaborazioni con l’Africa avviate dal banchiere Giordano Dell’Amore. Mattei avrebbe continuato a rilanciare: pensava a un Ene, Ente nazionale dell’energia, per contare ancora di più a livello europeo ed era un grande sostenitore della capacità nucleare italiana, nei tragici anni Sessanta colpita anche dal trattamento riservato a Felice Ippolito.
Mattei portò l’Eni nel mondo pensando sempre all’Italia. A una certa idea dell’Italia. Era un provinciale marchigiano, orgoglioso di esserlo. Aveva il gusto dell’Italia interna, dei suoi paeselli. Anche se Milano è stata importante per la sua crescita, sapeva che l’Italia non è né sarà mai ridotta ai grandi centri urbani. L’Italia è fatta diversamente. E Mattei voleva e sapeva portare cambiamento senza inventare modelli astratti.
Anche gli aspetti scherzosi del suo radicamento territoriale, a partire dall’acronimo Snam sui dipendenti marchigiani («Siamo nati a matelica»), parlano di questa passione. È ragionevole pensare che anche per questa ragione sia così amato e citato, e continuerà a esserlo. Soprattutto, come gli uomini veramente grandi, Mattei ha dedicato la sua vita a un progetto in grado di sopravvivergli. Il settantennale della sua impresa dedicata all’Italia ci parla ancora di questa impronta unica.
Veldhoven è un comune di poco più di quarantamila abitanti, che fa parte dell’area metropolitana di Eindhoven. […] È a Veldhoven che l’umanità persegue il sogno della macchina perfetta. È lì che ha trovato la sua casa «la più importante azienda di cui non avete mai sentito parlare». Così i suoi stessi dirigenti amano descrivere Asml.
[…] Abbiamo visto in precedenza che l’equipaggiamento dei semiconduttori è uno degli ambiti più rilevanti della supply chain dell’industria delle industrie. E nel nostro secolo questa nicchia di mercato ha conosciuto una crescita rilevante, passando dai 22 miliardi di dollari del 2003 ai 69 del 2020. I processi produttivi richiedono diversi passaggi (deposizione, litografia, cleaning e process control) e i fornitori di equipaggiamento hanno una collaborazione stretta con i venditori di prodotti chimici, con le fonderie e con le organizzazioni di ricerca. Anche i segmenti di assemblaggio e test sono complessi e sempre più avanzati. Oltre a essere indispensabili: se wafer di silicio e chip non sono adeguatamente testati, non possono essere commercializzati, perché l’affidabilità richiesta è assoluta. Tutto questo implica altri pezzi della catena con attori di primo piano, concentrazioni, rischi, sfide per la frontiera dell’innovazione. Inoltre, il cosiddetto advanced packaging riceve sempre più attenzione, non solo per equilibrare una catena del valore troppo spostata verso l’Asia orientale, ma per consentire una nuova generazione di semiconduttori: dominare i suoi nuovi processi consente un vantaggio tecnologico, come riconosciuto dai documenti del governo degli Stati Uniti.
[…] Asml è l’unica a fornire la tecnologia a litografia ultravioletta per produrre i semiconduttori sotto i 7 nm. Ciò significa che controlla il 100% del mercato di questo segmento, essenziale per la produzione dei chip più avanzati, utilizzati per esempio negli smartphone e in alcuni data center. […]
L’incredibile storia di Asml ha inizio nel laboratorio di fisica di Philips, Natuurkundig Laboratorium, noto come NatLab. Il giovane ingegnere Frits Klostermann nel 1964 viaggia negli Stati Uniti e visita alcune aziende di macchinari e strumentazione. In Europa, Klostermann è interessato alla collaborazione con una storica azienda tedesca di ottica, nata nel diciannovesimo secolo: Carl Zeiss. […] Asml ha bisogno di capacità ottiche, di lenti che possano fornire dettagli microscopici. I giapponesi Canon e Nikon le producono internamente, come l’americana Gca (Geophysics Corporation of America), che usa come fornitore anche un’azienda tedesca: Zeiss. Nel 1983, dapprima Zeiss non accetta di lavorare per Asml, che è costretta a rivolgersi ai francesi di Cerco. Smit non li ama. Li definisce «persone amabili, ottime per andare a cena e per discutere di Debussy e Rousseau, ma pessime per investirci i nostri soldi». Così, torna a Oberkochen e riesce a convincere Zeiss. […] Nel 1987, mentre Canon e Nikon sono dominanti, Asml perde soldi. Ma quell’anno succede un’altra cosa in Asia: la nascita di Tsmc. L’azienda di Morris Chang nasce anche grazie allo zampino decisivo di Philips, che al momento della sua creazione ha una quota del 28%, superiore perfino a quella del governo di Taiwan (21%). È Morris Chang in persona a convincere gli olandesi a investire, e tra Philips e Tsmc c’è un importante scambio di competenza e di tecnologia. Inizia un matrimonio decisivo per l’industria dei semiconduttori. Lo testimonia la presenza dell’amministratore delegato di Asml alla grande festa dei 30 anni di Tsmc. L’azienda di Taiwan diventa il principale cliente di Asml già nel 1989. […] Ma il dominio del mercato non sarebbe possibile senza una grande discontinuità tecnologica. Dagli anni Ottanta si comincia a parlare di litografia ultravioletta estrema. Il punto è sempre la stampa nel wafer di silicio di circuiti integrati di ultima generazione sempre più piccoli.
[…] L’impronta del NatLab, i sogni degli ingegneri, l’intelligenza finanziaria, le acquisizioni, il rapporto con clienti e fornitori, il fidanzamento tra Veldhoven e Oberkochen, tutto ciò converge verso un obiettivo: la Macchina. Le due più avanzate sono Twinscan NXE:3400C, che supporta la produzione di nodi a 7 e 5 nm e Twinscan NXE:3600D, per i nodi a 5 e 3 nm e per i più avanzati nodi Dram. Nei prossimi anni ne arriveranno altre. Per il trasporto di una delle macchine più avanzate, il cui prezzo di listino è di circa 150 milioni di dollari, servono quaranta container, venti camion e tre Boeing 747. E la manutenzione richiede una specifica assistenza. Solo i tecnici di Asml sono in grado di parlare con le macchine, di decifrare i loro impulsi, di prevedere i loro problemi. Nel 2021, Asml ha venduto 309 sistemi di litografia, e di essi 81 sono di litografia a immersione e 42 sono di litografia ultravioletta estrema. Le storie delle sue acquisizioni e partnership indicano la direzione che porta alla Macchina. Non è solo l’avanzamento della tecnologia e dell’ingegneria. È anche un capolavoro organizzativo, che deve essere sempre rinnovato. Asml è una supply chain, che lavora costantemente con fornitori e clienti, per valutare ogni tassello che andrà a comporre la Macchina. Attualmente il gigante di Veldhoven ha 4700 fornitori, di cui 800 sono relativi alla produzione e pesano per il 70% delle spese. I fornitori critici sono circa 200, e pesano per il 92% delle spese. Questa incredibile supply chain richiede una costante analisi del rischio. Dobbiamo immaginare la plancia di comando di Asml come un centro di controllo dove si muovono materie prime, componenti chimici, dispositivi per test, aeroporti, porti, incentivi, conflitti, sanzioni, sviluppi tecnologici. Tutto deve tenere.
[…] Asml ha cominciato le sue attività in Cina nel 2000, e nella Repubblica popolare ha nel complesso più di mille dipendenti. Dal 2018, l’azienda diventa oggetto di un’importante campagna degli Stati Uniti per bloccare la vendita delle macchine alla Repubblica popolare. […] Tutto nasce dalla richiesta dell’azienda al governo olandese di una licenza per l’esportazione del suo materiale, considerato sensibile, verso un’azienda cinese, che è facile identificare con Smic. Gli apparati degli Stati Uniti, attraverso gli incontri riservati degli olandesi con il National Security Council, premono affinché la licenza non venga mai concessa. Durante la visita ufficiale del primo ministro Rutte negli Stati Uniti, a luglio 2019, gli viene mostrato un rapporto di intelligence sulle ripercussioni dell’acquisizione cinese della tecnologia di Asml. Gli uffici del sanzionismo sono impegnati in un calcolo relativo alla supply chain americana di Asml, per stabilire se il gigante dei macchinari raggiunga la soglia del 25% di componenti provenienti dagli Stati Uniti, per poter applicare le restrizioni sulle esportazioni del Bureau of Industry and Security. La risposta sembra essere negativa, ma il governo olandese segue le indicazioni di Washington.
[…] Il sanzionismo degli Stati Uniti lavora all’ultima cambiale per il gigante di Veldhoven: l’allargamento del divieto di vendita in Cina anche ai macchinari meno avanzati di litografia a immersione. A luglio 2022, il governo olandese ha ammesso che ci sono consultazioni in corso con gli Stati Uniti sul tema. Secondo la Cina, la strategia degli Stati Uniti è «terrorismo tecnologico», destinato a riflettersi contro Washington, perché alimenterà ulteriormente la corsa all’autosufficienza tecnologica e la separazione tra i due sistemi. La Repubblica popolare è stata il primo compratore mondiale di macchinari per semiconduttori nel 2020 e nel 2021, e la spesa è cresciuta del 58%, fino a quasi 30 miliardi dollari nel 2021. Ancora una volta, l’appartenenza geopolitica e le esigenze di mercato si scontrano. Le incertezze del pressappoco si intrufolano nell’universo della precisione. E rendono più difficile l’esecuzione della sinfonia di Morris Chang e degli ingegneri di Veldhoven. L’amministratore delegato di Asml, Peter Wennink, ricorda che la Cina è ormai un fornitore importante per i mercati maturi dei semiconduttori, e che i pesanti interventi richiesti da Washington possono causare gravi danni alla supply chain.





