Donald Tusk (Ansa)
La Corte di giustizia Ue ha dichiarato guerra alla Consulta di Varsavia: non rispetterebbe «la giurisprudenza comunitaria». Per il Paese guidato da Donald Tusk, invece, sono le toghe dell’Unione a «esorbitare» dai propri poteri.
«La Costituzione di un Paese non è un giudice imparziale e indipendente». Scintille e fumo nero: due locomotive lanciate l’una contro l’altra su un binario unico. Sono l’Unione europea, con il suo braccio armato della Corte di giustizia, e la Polonia, riluttante a dimenticarsi (come spesso accade ad altri membri dell’Unione) di essere un Paese sovrano. Vengono prima le leggi comunitarie o la Costituzione delle singole nazioni? La questione rimane lì, sospesa in un limbo leguleio dove i principi astratti fungono da innocui placebo. Ma quando tocca situazioni concrete, ecco gli attriti, le minacce, le controdeduzioni al curaro. A conferma che l’Europa dei popoli è ancora una pia apparizione scomparente. Niente a che vedere con quella del denaro, oliata con piglio dittatoriale dalla Bce.
L’ultimo episodio di un lungo braccio di ferro risale a ieri, quando i giudici lussemburghesi della Corte Ue hanno stabilito con una sentenza che «la Consulta polacca ha violato diversi principi fondamentali del diritto dell’Unione, non rispettando la giurisprudenza comunitaria». Una dichiarazione di guerra perché i giudici che rispondono a Bruxelles hanno aggiunto in neretto: «la Corte costituzionale polacca non è un giudice imparziale e indipendente», riguardo a presunte irregolarità che avrebbero «viziato» la nomina di tre suoi membri. Una delegittimazione in piena regola della carta fondativa della democrazia di Varsavia che i progressisti europei hanno applaudito con entusiasmo.
La diatriba partì una decina di anni fa quando la Polonia decise di cambiare il sistema di nomina dei giudici della Corte costituzionale, poi di modificare una norma della legge giudiziaria, con la novità del ministro della Giustizia supervisore della Procura generale. Allora, al tempo di Mateusz Morawiecki premier, come Paese sovrano riteneva di averne pieno diritto. Al contrario, per Bruxelles si trattava di un abuso e immediatamente scattò l’accusa di trasformare i tribunali in uno strumento del governo. Di ricorso in ricorso, si è arrivati al conflitto totale, quindi allo stallo armato. Anche oggi, con il turboeuropeista Donald Tusk al governo, lo scenario non muta: per chi ha conosciuto la schiavitù della dittatura, una cessione di sovranità a chicchessia non è mai un piacere e non è mai gratis.
I polacchi non hanno piegato la testa e hanno respinto al mittente le accuse, affidandosi perfino alle parole di Jean Jacques Rousseau che 300 anni fa, nel saggio Considérations sur le gouvernement de Pologne, teorizzava l’importanza dell’amor patrio e del concetto di libertà per recuperare l’indipendenza (dalla Russia zarista, guardacaso). La Corte costituzionale di Varsavia ha dichiarato in due sentenze che alcune norme dei trattati europei sono contrarie alla Carta nazionale, quindi da respingere. Con un’aggiunta incendiaria: «La giurisprudenza della Corte relativa al diritto a una tutela giurisdizionale effettiva è esorbitante dai poteri che le sono stati conferiti». Esorbita, quindi stia al suo posto.
Da qui è nato il ricorso della Commissione Ue ai giudici lussemburghesi per «violazione dei principi fondamentali del diritto dell’Unione». La Corte di giustizia lo ha accolto e ha accusato la Polonia «di non aver rispettato il primato, l’autonomia, l’effettività e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, nonché l’effetto vincolante delle decisioni della Corte». Poi ha demolito la Corte costituzionale polacca mettendone in dubbio indipendenza e imparzialità. Ora la palla torna alla Polonia, giudicata inadempiente. Secondo la Ue, dovrebbe ricambiare la Costituzione per adeguarla agli standard di Bruxelles, neanche fosse un motore ibrido non sufficientemente green. Pena il warning che porterebbe a pesanti sanzioni pecuniarie e a un congelamento delle risorse economiche destinate a quel Paese.
Si esorbita o non si esorbita? Il conflitto di competenza non riguarda solo Varsavia ma tutti, anche l’Italia. E spiega perché gli spiccioli di sovranità rimasti ai 27 membri dovrebbero essere difesi (per esempio dall’invadenza ricattatoria del Mes). È doveroso chiedersi una volta per tutte: in caso di disputa, è più importante la Carta costituzionale o i trattati europei? Difficile rispondere, mentre si profila un nuovo scontro sulla vicenda dei migranti, degli hub all’estero e sulla definizione di «Paesi di origine sicuri».
Nonostante le pronunce della Commissione Ue e della Corte di giustizia europea che anticipano un via libera di fatto, il giudice italiano Luca Minniti (presidente della sezione Immigrazione di Bologna) ha dichiarato che «sarà sempre un pm a decidere nel merito, le nuove norme sono a rischio incostituzionalità». In questo caso la sinistra si schiera acriticamente contro i giudici lussemburghesi e a favore di quelli italiani, dei quali è spesso succube. Di conseguenza, i polacchi vanno puniti perché non rispettano il primato di Bruxelles, il governo Meloni va punito perché lo rispetta. Titolo consigliato e tratto da una massima di Luciano De Crescenzo: «Eppure è sempre vero anche il contrario».
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Agricoltore francese protesta contro il Mercosur (Ansa)
Emmanuel Macron ha ripetuto il no all’accordo commerciale con il Sud America, imitato da Irlanda, Austria e Romania. Ungheria e Polonia pronte al veto. La baronessa cede e annuncia: «Firma posticipata a gennaio». Giorgia Meloni: «Ok italiano solo con le garanzie richieste».
Il Mercosur, così com’è, non s’ha da firmare, né domani né mai. Ursula von der Leyen viene messa all’angolo e sabato non potrà volare come sperava e come ha promesso agli industriali tedeschi, desiderosi di vendere le auto che lei ha bloccato in Europa con lo sciagurato green deal ad argentini, brasiliani, paraguaiani e uruguagi (ammesso che questi ultimi abbiano i soldi), a Foz do Iguaçu, in Brasile, dove l’attende uno smanioso Lula da Silva. Emmanuel Macron - in patria ha una situazione disastrosa: gli agricoltori gli bloccano il Paese per il Mercosur ma anche per l’epidemia di dermatite nodulare che minaccia le mandrie e Sébastien Lecornu, il primo ministro, non riesce a far passare la legge di bilancio - non può permettersi un passo indietro e ripete: il conto non torna, l’accordo non si può firmare.
È l’unico modo che ha per tenere a freno la rabbia delle campagne e non scoprirsi politicamente: tre quarti dello schieramento transalpino è contro l’accordo e da fronti opposti Jaen-Luc Mélenchon e Marine Le Pen lo attaccano. Si accodano alla posizione francese l’Irlanda, l’Austria e la Romania mentre la Polonia e l’Ungheria sono pronte a mettere il veto. La posizione italiana è decisiva: l’apporto di Roma può costituire una minoranza di blocco che immobilizza la Commissione (ieri, secondo l’Agi, la Von der Leyen avrebbe annunciato ai leader Ue la decisione di posticipare a gennaio la firma dell’accordo). Il ministro per la Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, aveva anticipato: di Mercosur si parla solo se ci sono garanzie per gli agricoltori.
Ieri Giorgia Meloni - su cui fa molta pressione la Francia - ha affidato a una nota ufficiale di Palazzo Chigi ciò che Roma vuole: «In merito all’accordo sul Mercosur, come già dichiarato in Parlamento dal presidente Meloni e ribadito anche al presidente del Brasile, Lula, il governo italiano è pronto a sottoscrivere l’intesa non appena verranno fornite le risposte necessarie agli agricoltori, che dipendono dalle decisioni della Commissione europea e possono essere definite in tempi brevi». Lula da Siva ha fatto sapere che ha avuto una telefonata con Giorgia Meloni che gli avrebbe chiesto «di avere pazienza una settimana, dieci giorni, quanto serve per arrivare alla firma». L’indiscrezione, anticipata da Le Figaro, non trova conferma, ma è indice che il presidente brasiliano vuole forzare l’accordo in ogni modo.
È, invece, la Von der Leyen che, rimangiandosi i tagli alla Pac e accogliendo in toto la posizione espressa tre giorni fa dall’Eurocamera, se vuole può sbloccare l’accordo. Il Parlamento europeo ha sancito con ampia maggioranza (Ecr-Fdi si è astenuto mentre i nazionalisti che comprendono anche la Lega e i lepenisti hanno votato contro) che di Mercosur si parla solo a due condizioni: controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità); con una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale, si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte entro tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Il fatto è che il presidente della Commissione non ha accusato ricevuta e sembra voler andare dritta per la sua strada sempreché i 10.000 agricoltori che ieri hanno messo a ferro e a fuoco Bruxelles assediando palazzo Berlaymont gliela lascino imboccare.
La baronessa, impegnatissima a sostenere l’imminenza del pericolo russo e perciò la necessità di armarsi, cerca disperatamente di far vedere che l’Europa conta. Per lei il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay più annessi che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone, è il segno della potenza europea. Ha anche un’altra esigenza: rispondere a Donald Trump andando nel suo giardino di casa a stringere accordi doganali. La Von der Leyen vuole impedire che Javier Milei, il presidente argentino, faccia totalmente rotta su Washington e che il Brasile si leghi con la Cina. Anche il presidente del Consiglio europeo, il portoghese Antonio Costa, che ha qualche nostalgia commerciale verso la ex colonia brasiliana, ha fatto molte promesse agli industriali tedeschi, moltissime alla Danimarca - attuale presidente di turno dell’Ue - e all’Olanda che aspetta l’arrivo a Rotterdam delle navi brasiliane.
Ma Roma vuole per sé l’autorità doganale europea in modo da controllare le merci in arrivo. Tutti elementi di cui la Von der Leyen non si è curata e che mettono il Mercosur su un binario morto.
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La falla nel gasdotto Nord Stream (Ansa)
«Der Spiegel»: Serhij Kuznietzov, arrestato a Rimini per la distruzione del gasdotto, stava eseguendo ordini. Attaccando un membro Nato...
I gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2, infrastrutture strategiche per l’approvvigionamento energetico europeo, corrono in parallelo sul fondo del Mar Baltico collegando direttamente la Russia alla Germania. Il primo è entrato in funzione nel 2011, diventando per oltre un decennio uno dei principali canali di fornitura di gas russo verso l’Europa. Nord Stream 2, completato nel 2021, non è invece mai entrato in esercizio a causa dello scoppio della guerra in Ucraina e del conseguente blocco politico e regolatorio imposto dai Paesi occidentali. Nella notte del 26 settembre 2022, una serie di potenti esplosioni sottomarine ha gravemente danneggiato entrambe le condotte in acque internazionali, al largo delle coste danesi e svedesi.
Fin dalle prime ore, le autorità europee hanno escluso l’ipotesi dell’incidente, parlando apertamente di atto deliberato di sabotaggio. L’attacco ha avuto un impatto immediato non solo sul piano energetico, ma anche su quello politico e strategico, alimentando tensioni già altissime nel contesto della guerra in Ucraina. Le indagini si sono concentrate su un’operazione condotta da un gruppo altamente specializzato, dotato di competenze militari, logistiche e subacquee. Nel corso dei mesi sono emersi nomi e movimenti sospetti tra diversi Paesi europei, fino all’emissione di mandati di arresto nei confronti di cittadini ucraini ritenuti coinvolti nell’azione. Tra questi figura Serhij Kuznietzov, 49 anni, cittadino ucraino arrestato in Italia mentre si trovava sul territorio nazionale e successivamente estradato in Germania, dove dovrà rispondere delle accuse legate al sabotaggio dei gasdotti. La sua posizione è diventata centrale nell’inchiesta dopo le rivelazioni pubblicate dalla rivista tedesca Der Spiegel, che ha citato documenti ufficiali del ministero della Difesa ucraino. Secondo tali documenti, Kuznietzov al momento dell’attacco era in servizio attivo in un’unità speciale dell’esercito ucraino. In una lettera del ministero della Difesa, datata 21 novembre 2025, indirizzata al Commissario per i diritti umani del Parlamento ucraino, si afferma che l’uomo ha prestato servizio dal 10 agosto 2022 al 28 novembre 2023 nell’unità A0987, identificata come il comando delle forze speciali ucraine, con il grado di capitano. A confermare la ricostruzione è stato anche Roman Chervinsky, ex superiore di Kuznietzov, che in un’intervista a Der Spiegel ha dichiarato: «Serhij era sotto il mio comando all’epoca. Ha eseguito tutti gli ordini della nostra unità e non si è mai allontanato dalla truppa senza autorizzazione», confermando di fatto la sua appartenenza operativa alle forze speciali nel periodo in cui avvenne il sabotaggio. Lo stesso Roman Chervinsky era già stato indicato in precedenti inchieste giornalistiche come figura chiave nella pianificazione dell’operazione Nord Stream. Secondo Der Spiegel, avrebbe avuto un ruolo centrale nel coordinamento dell’azione, ipotizzando che l’attacco fosse stato approvato a livelli elevati della catena di comando militare ucraina. Su questo punto, tuttavia, Chervinsky ha mantenuto il silenzio, dichiarando di non essere autorizzato a rilasciare commenti su singole operazioni militari, né per quanto riguarda se stesso né per Kuznietzov. Il caso Nord Stream rimane uno dei dossier più delicati sul tavolo europeo. Molte domande restano ancora senza risposta, ma gli ultimi sviluppi giudiziari sembrano avvicinare l’inchiesta a un punto di svolta. Ciò che appare certo, è che l’esercito di un Paese finanziato da anni da Paesi Ue e Nato, ha attaccato un’infrastruttura tedesca. Non si dovrebbe forse attivare l’articolo 5 del Patto Atlantico?
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Reprimenda di Leone XIV: «Siamo oltre la legittima difesa: è destabilizzazione planetaria. Provano persino a rieducare al conflitto tramite media e corsi scolastici. E considerano una colpa non prepararsi alla guerra».
Nel giorno in cui il Consiglio Ue dava il via libera al ReArm, il Papa ha voluto tirare le orecchie degli eurocrati, nascoste sotto gli elmetti. Lo ha fatto con un messaggio datato 8 dicembre, ma dedicato alla Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2026. Un testo nel quale Leone XIV non ha nemmeno avuto bisogno di fare nomi. Si capisce benissimo a chi possano essere rivolte parole del genere: «Nel rapporto fra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze». Una coincidenza ha voluto che, proprio ieri, contestualmente al discorso di Robert Francis Prevost, uscisse il dissennato ultimatum del premier polacco, Donald Tusk, sulla confisca degli asset russi: «O soldi oggi o sangue domani».
«Molto al di là del principio della legittima difesa», ha scritto il pontefice, «sul piano politico tale logica contrappositiva è il dato più attuale in una destabilizzazione planetaria che va assumendo ogni giorno maggiore drammaticità e imprevedibilità». Reprimenda in cui si coglie un accenno a Israele, ma che non esenta la «martoriata Ucraina» - così la definiva Francesco - per la quale è stato tirato in ballo l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che giustamente riconosce il «diritto naturale di autotutela», in caso si subisca un attacco. Lo sguardo del vescovo di Roma si spinge più in là delle ovvie attribuzioni di responsabilità ad aggressori e aggrediti. È proiettato alle conseguenze indesiderabili di una retorica bellicista che affolla le dichiarazioni dei politici e le strisce dei notiziari.
Si obietterà: la colpa è di Vladimir Putin. Che non è immune al monito papale. Leone, però, ha invitato anzitutto a considerare i rischi della corsa agli armamenti, che si pretende puramente difensiva e dalla quale deriva un’illusione di sicurezza, mentre in verità essa spiana la strada a future tragedie. «I ripetuti appelli a incrementare le spese militari e le scelte che ne conseguono», ha notato Prevost, «sono presentati da molti governanti con la giustificazione della pericolosità altrui». Viene voglia di metterli in fila: Ursula von der Leyen, Kaja Kallas, Mark Rutte, Emmanuel Macron, Friedrich Merz, i leader dei Paesi baltici, quelli di Varsavia. Benjamin Netanyahu è una nota a piè di pagina, soltanto perché si era già armato fino ai denti.
Il pontefice è arrivato a ribaltare il mantra delle classi dirigenti del Vecchio continente, Giorgia Meloni inclusa: si vis pacem, para bellum; se vuoi la pace, prepara la guerra. «Se volete attirare gli altri alla pace», ha suggerito all’opposto Leone, citando Sant’Agostino, «abbiatela voi per primi; siate voi anzitutto saldi nella pace». «La forza dissuasiva della potenza e, in particolare, la deterrenza nucleare», ha continuato infatti il vicario di Cristo, «incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza». Ne è lo specchio l’incremento degli investimenti bellici, cui corrisponde la tendenza ancora più preoccupante al «riallineamento delle politiche educative: invece di una cultura della memoria», ha denunciato il successore di Pietro, «che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza». Ricordare i morti di Stalingrado, quindi, non è solamente un favore a Maria Zakharova. Dopodiché, l’ aria che tira su giornali e televisioni la respiriamo quotidianamente; e qualcuno ricorderà il parossismo marziale dei corsi all’uso dei droni, avviati la settembre per 9.000 bambini della Lituania.
A proposito delle guerre condotte schierando robot e velivoli senza pilota, il pontefice si è soffermato pure su un altro dei suoi argomenti ricorrenti: la minaccia dell’Ia. «Constatiamo», ha scritto, «come l’ulteriore avanzamento tecnologico e l’applicazione in ambito militare delle intelligenze artificiali abbiano radicalizzato la tragicità dei conflitti armati. Si va persino delineando un processo di deresponsabilizzazione dei leader politici e militari, a motivo del crescente “delegare” alle macchine decisioni riguardanti la vita e la morte di persone umane».
La controproposta del Papa resta quella della «pace disarmata e disarmante», portata al mondo sin dall’uscita sulla Loggia delle Benedizioni in Vaticano, subito dopo l’elezione al soglio. È una lotta che rifiuta il ricorso alla forza, giacché segue la via di Gesù «che tutti», ha sottolineato Prevost, «Pietro per primo», colui che ferì il centurione incaricato di imprigionare il Maestro, «gli contestarono». È anche una campagna disarmante, perché la violenza e i soprusi dei principati e delle dominazioni - per usare la formula di San Paolo - alla fine nulla hanno potuto contro i veri cristiani.
«Apriamoci alla pace!»: è questo l’invito di Leone, che risuona alla stregua dell’esortazione di Giovanni Paolo II ad «aprire i sistemi economici come quelli politici», ai tempi del comunismo sovietico. «Accogliamola e riconosciamola», questa pace, ha insistito il pontefice, «piuttosto che considerarla lontana e impossibile». Poiché «quando trattiamo la pace come un ideale lontano, finiamo per non considerare scandaloso che la si possa negare e che persino si faccia la guerra per raggiungere la pace». Sembra la replica alla micidiale allocuzione della Von der Leyen di mercoledì: «La pace di ieri è finita. Non abbiamo tempo per indulgere nella nostalgia».
Quello del capo della Commissione Ue può sembrare un atteggiamento disilluso ma pragmatico. Quello del Papa può apparire un ideale nobile ma ingenuo. Utopismo. E invece, secondo Prevost, è questo il vero realismo. Mica quello di quanti vedono addensarsi inesorabili le nubi del disastro - di quanti ci vogliono in trincea, in attesa che sbuchino i carri dello zar. Costoro cedono «a una rappresentazione del mondo parziale e distorta, nel segno delle tenebre e della paura», a «narrazioni prive di speranza, cieche alla bellezza altrui, dimentiche della grazia di Dio che opera sempre nei cuori umani, per quanto feriti dal peccato». Forse - chissà - pure nel cuore rancido di Putin.
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