Qualche settimana fa (inizio ottobre), era balzato agli onori delle cronache un report degli analisti di Berenberg che per la prima volta parlavano di un vero e proprio scambio di ruoli all’interno dell’Ue: «La Francia sembra la nuova Italia». Dietro a quel giudizio tranchant ci passa un’epoca di almeno tre lustri che parte da un altro mese di ottobre, quello del 2011, e dalla risatina tra gli allora leader di Parigi e Berlino, Sarkozy e Merkel. Il sorrisetto beffardo nascondeva un giudizio di inaffidabilità politica ed economica rispetto alla traballante situazione del governo Berlusconi e ai conti pubblici che a detta dei sostenitori dell’austerity dell’epoca, nel Belpaese non rispettavano gli impegni presi.
Ecco, con il governo Meloni in carica e dopo circa 15 anni, la Francia, adesso nelle mani di un Macron a fine regno, è messa come se non peggio dell’Italia del 2001. Lo dicono i fatti. Parigi vive la crisi politica più grave della Quinta Repubblica ed è guidata da un governo di minoranza, primo ministro è il macronista Sébastien Lecornu (nominato per la seconda volta dopo un primo flop) che non riesce nemmeno ad approvare la legge di bilancio. E i conti pubblici parlano di una deriva inarrestabile tant’è che lo spread, cioè il differenziale tra titoli di Stato Italiani e gli Oat (i corrispondenti francesi) si è praticamente annullato. Il debito viaggia intorno al 115% in rapporto al Pil, e il deficit (sempre in rapporto al Pil) è poco sotto il 6% (a fine 2025 dovrebbe raggiungere quota 5,6%). Al punto che viene spontaneo chiedersi quale manovra avrebbe potuto regalare il governo Meloni agli italiani se avesse usufruito degli stessi margini di bilancio francesi e se anziché raggiungere il target del 3% avesse contato su una sessantina di miliardi aggiuntivi.
Se lo stanno chiedendo le principali istituzioni internazionali. Al punto che Standard & Poor’s e Fitch, tanto per andare sul pratico, hanno di recente tagliato il rating di Parigi che resta ancora a livelli molto alti e secondo una parte consistente degli analisti dovrebbe scalare ancora di qualche «notch» (grado) per rispecchiare la realtà dei suoi valori. Sono le stesse società di rating che hanno invece rivisto in positivo (con degli upgrade) il giudizio sulla capacità di sostenere il debito da parte dell’Italia.
Una situazione che può anche essere anomala, ma è palese e facilmente leggibile numeri alla mano. Lo è per tutti tranne che per la Banca Centrale Europea che guarda caso è guidata dalla francese Christine Lagarde. E che nel consueto bollettino economico sul terzo trimestre 2025 è arrivata a evidenziare che «l’economia dell’area dell'euro è cresciuta dello 0,2% rispetto allo 0,1% del secondo trimestre». Insomma, un leggerissimo miglioramento. E di chi è il merito. Tra luglio e settembre «la crescita ha continuato a registrare notevoli differenze tra le maggiori economie dell’area dell'euro», continua il rapporto, «il Pil in termini reali (cioè depurato dall’effetto dell’inflazione ndr) è aumentato dello 0,6% in Spagna, dello 0,5 in Francia e dello 0,4 nei Paesi Bassi, mentre è rimasto invariato in Germania e in Italia. Fra i paesi più piccoli, il Pil è diminuito solo lievemente in Irlanda». Al punto da Francoforte parla di una crescita in Europa «a due velocità».
Capiamo che si tratta di un dato parziale, il riferimento è a un trimestre, e che prende in considerazione solo l’elemento dell’incremento del prodotto interno lordo depurato dall’inflazione, e quindi si tratta di un’analisi incompleta. Ma arrivare a sostenere che questa Francia fa da traino e l’Italia sarebbe il tappo della crescita, vuol dire vedere davvero l’Europa al contrario. E se a vedere il Vecchio continente capovolto è la Banca centrale c’è di che preoccuparsi.
Non che la cosa ci sorprenda. Anche se molto da sorprendersi. Del resto sempre la Verità ha evidenziato in più di un’occasione con gli articoli di Giuseppe Liturri che nei periodi di maggiore difficoltà finanziaria che nei momenti in cui la crisi politica era diventata più acuta, l’aiutino della Lagarde a Parigi è arrivato eccome.
Da giugno a settembre del 2025 infatti la Bce ha dismesso una grande quantità di titoli tedeschi e italiani: rispettivamente 31 e 28 miliardi di euro, mentre c’è andata molto cauta con le obbligazioni di Stato transalpine. Nello stesso arco temporale ne ha messe sul mercato meno di mezzo miliardo. Stesso discorso a settembre con dismissioni per 186 milioni degli Oat transalpini e di 5 e 4 miliardi per i titoli di Berlino e Roma.
Ma non sono le uniche chicche. Perché sempre nel bollettino di ieri la Banca centrale ha lanciato l’allarme per la crisi dell’automotive. «Il limitato interesse delle famiglie per i veicoli elettrici», si legge, «indica che probabilmente il passaggio all’elettrificazione continuerà ad essere graduale. E quindi che la ripresa di un settore che rappresenta circa il 10% del valore aggiunto della manifattura e quasi il 2% del Pil sarà lenta». Peccato che la spinta al Green deal e quindi all’elettrificazione senza se e senza sia stata sostenuta dagli economisti di Francoforte in svariati rapporti recenti. Al punto che vine da pensare che oltre a essere parziali e incoerenti alla Bce siano anche anche un filino incompetenti.





