2025-04-07
Altro che dazi, a uccidere il Pil sono le 13.000 leggi di Ursula
Ursula von der Leyen (Ansa)
Tutti urlano alle tariffe, ma gli industriali puntano il dito sui migliaia di vincoli creati dalla Commissione. Orsini: «L’Ue ha scelto l’ideologia e non i posti di lavoro». Per competere partire da qui e dal no al Green deal.In tempi di citazioni evangeliche - si sono sprecate sia dagli ultras bellici sia dai pacifinti per la crisi ucraina - viene buona, osservando il congresso della Lega Nord a Firenze, la parabola della pagliuzza e la trave: perché guardate le inezie dei distinguo di Matteo Salvini rispetto al governo e non vedete il palo di grida manzoniane a cui l’Europa impicca l’economia? Nel corpaccione imbolsito dall’arroganza burocratica del Polifemo di Bruxelles la trave l’ha piantata il presidente di Confindustria Emanuele Orsini. Intervistato sul palco leghista ha fatto un discorso della montagna sì, ma di carte che soffocano le imprese. Ha detto il capo degli industriali: «Abbiamo costruito a livello europeo 13.000 norme in cinque anni. Nello stesso periodo gli Stati Uniti ne hanno fatte 3.500. La Gdpr, la legge per la privacy, è importante ma», ha denunciato Orsini, «costa l’8% dei ricavi. Siamo in un mercato dove dobbiamo competere geopoliticamente con gli Stati Uniti, con i cinesi, con i Paesi emergenti. Vogliamo la responsabilità sociale, ma se lottiamo con quelli che non l’hanno o noi siamo in grado di cambiare loro, oppure siamo finiti». E i dati vengono proprio dall’Ue, ovvero dal rapporto Draghi per la competitività. Faro anche sul problema del costo dell’energia, tanto che Orsini ha detto che il nucleare «va fatto subito e ci vuole coraggio» perché quello delle bollette è «il tema dei temi». Poi ha chiesto un piano strategico per le imprese, «potenziando da subito l’aiuto».Più chiaro di così non si può. Meglio lo dice Giorgia Meloni che dal congresso leghista insiste: «Torneremo a chiedere in Europa di rivedere le normative ideologiche del Green deal e l’eccesso di regolamentazione in ogni settore, che oggi costituiscono dei veri e propri dazi interni». Il centro studi di Confindustria ha peraltro stimato che l’incidenza dei dazi comporta un ribasso di crescita del Pil al +0,6% quest’anno e all’1% il prossimo. Un’ ulteriore guerra dei dazi innescata da una contromossa europea però aggraverebbe il quadro di un ulteriore -0,4%. Viale dell’Astronomia avverte: il primo fattore di debolezza restano la crisi tedesca e la bassa quota di investimenti. Ma la baronessa Ursula von der Leyen non si dà per intesa. Ieri in una telefonata col premier britannico Keir Starmer ha confermato: «L’Ue è pronta a difendere i propri interessi attraverso contromisure proporzionate, se necessario anche se siamo pronti a trattare». Se ne parlerà con tutta probabilità mercoledì al Consiglio europeo che si occupa formalmente di Ucraina. Insomma lei non molla l’idea di contromisure per colpire prima di tutto le Big tech americane. Che come minaccia è assai spuntata. Quattro - come ha scritto Claudio Antonelli ieri su La Verità - sono le misure possibili, una sola forse senza ricadute sui consumatori: chiedere alle Big tech di pagare un affitto delle infrastrutture. Tutto il resto sarebbe affetto da eterogenesi dei fini: per colpire Trump pagano gli europei! E infatti da quel che si sa a Washington i telefoni bollono. Il segretario all’agricoltura Brooke Rollins alla Cnn ha detto: «Ci sono già 50 Paesi che ci chiedono di trattare». Lo conferma anche segretario al Tesoro Scott Bessent che era stato - si era detto in Europa - molto critico sulla strategia tariffaria di Trump. Non si sa quali sono i Paesi che hanno avviato i negoziati, ma tutti confermano che ci sono. Tutto ciò mette a nudo le fragilità dell’Ue. È sicura Ursula von der Leyen - continua a dirsi profondamente turbata - che l’Irlanda che pratica il 12,5% di tasse alle Big tech e che così ha raddrizzato i suoi conti diventando di fatto una piattaforma fiscale offshore sarebbe contenta? E l’Olanda che si accontenta del 24% di tasse tace? Giusto per avere un’idea sulle società di capitali, la tassazione in Italia oltrepassa il 53% Ecco un tema che Orsini ha appena sfiorato: la distorsione di mercato che in Europa c’è in forza delle diverse aliquote fiscali. Le cronache si sforzano di testimoniare alti lai contro i dazi trumpiani. Così - per dirne una - dal Vinitaly aperto da ieri giunge l’eco di un piagnisteo dei vignaioli (in effetti gli Usa sono il nostro primo mercato estero). Non è del tutto cosi e comunque l’Irlanda, senza che nessuno protesti, mette un’accisa di 3,9 euro a bottiglia, la Germania lo fa sugli spumanti e la stessa Von der Leyen vuole una tassa anti alcol per finanziare il Rearm. I dati sui dazi interni all’Ue sono incontrovertibili. Mario Draghi - assai rispettato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che esige una risposta ferma a Donald Trump forse per contrapporsi in maniera felpata a Giorgia Meloni che invece chiede una trattativa ragionata - nel suo strafamoso rapporto scrive: «Finora l’Europa si è concentrata su obiettivi singoli o nazionali senza calcolarne il costo collettivo. Il denaro pubblico è servito a mantenere la sostenibilità del debito e la diffusione della regolamentazione è stata progettata per proteggere i cittadini dai nuovi rischi tecnologici. Agire così non ha portato né benessere agli europei, né finanze pubbliche sane, né autonomia nazionale». La rampogna di Draghi parte da uno studio del Fmi in cui Kristalina Georgieva evidenzia «il ruolo fondamentale dell’eliminazione delle barriere intraeuropee per migliorare il dinamismo delle imprese e rilanciare la produttività: gli ostacoli interni all’Ue equivalgono a dazi del 44% sui beni e del 110% sui servizi». E se avercela con Trump servisse all’Ue per celare le proprie colpe? Draghi le sintetizza così: «I decisori politici hanno rivelato una preferenza per una costellazione economica basata sullo sfruttamento della domanda estera e sull’esportazione di capitale con bassi livelli salariali: questa costellazione non è più sostenibile».