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2023-01-07
Nel mondo delle coop 10 miliardi di risparmi ancora senza vigilanza
Dentro al mondo delle coop, ancora oggi si celano 10 miliardi di prestiti sociali, non vigilati da Bankitalia, con tassi di interesse spesso sganciati dal livello di rischio. Un mondo che si trascina problematiche simili ai fiumi carsici. Appaiono e scompaiono. Sei anni fa l’emersione fece scalpore. Nell’aprile del 2016 uscì infatti in libreria un libro inchiesta scritto da Antonio Amorosi, Coop Connection. Vi si documentavano i lati oscuri dell’universo delle coop di consumo che raccolgono anche finanziamenti dai soci e non garantiscono il rimborso se qualcosa va storto. Quelle che offrono assistenza sanitaria pagando meno tasse di una clinica «normale». Il neocapitalismo delle grandi multiutility emiliane che gestiscono rifiuti e servizi energetici e le «sette sorelle del mattone» finite in liquidazione o in concordato lasciando a casa i dipendenti. Le piccole cooperative di facchinaggio, logistica, pulizie o preparazione di alimenti che lavorano in subappalto e pagavano tre euro l’ora, in gran parte «al nero». Sullo sfondo, Unipol, uno dei maggiori gruppi assicurativi italiani, quotato in Borsa ma controllato dalle coop.
Sono passati quasi sette anni da quell’inchiesta. Cosa è cambiato? L’ultima fotografia scattata dal Censis al settore mostra un esercito di 50.000 cooperative (considerando quelle con bilancio depositato) con un fatturato che si aggira sui 135 miliardi e un’occupazione superiore a 1,2 milioni di persone. I casi di cronaca non mancano, l’ultimo quello che ha coinvolto Aboubakar Soumahoro. Ma ce ne sono anche di meno eclatanti, come quello del dissesto della cooperativa emiliana di costruzioni, la Cmr di Reggiolo. Il 29 luglio scorso, 124 soci prestatori, alcuni dei quali in rappresentanza di altri, per un totale di 250, hanno sporto denuncia in Procura. Si tratta di persone che nei libretti hanno depositato somme intorno ai 7 milioni di euro. I soci chiedono in particolare che venga fatta luce sugli investimenti e le operazioni immobiliari condotte poco prima del concordato del 2012. I prestatori hanno ottenuto da Legacoop il 40% delle somme che avevano conferito alla coop reggiolese, una realtà che in paese godeva di grande fiducia. Nel 2021 le aste per la vendita dei beni ancora di proprietà della Cmr sono andate deserte, circostanza che viene attribuita anche all’epidemia di Covid. Dallo stato patrimoniale del bilancio 2021 della Cmr, che a luglio i soci prestatori hanno bocciato, emerge che la coop ha ancora debiti per quasi 92 milioni di euro.
E qui si innesta il capitolo sul prestito sociale, cioè la raccolta di risparmio tra soci delle coop che oggi vale attorno ai 10 miliardi. Tecnicamente il prestito sociale costituisce una forma di finanziamento della società cooperativa che si concretizza nell’apporto, da parte dei soci persone fisiche, di capitale rimborsabile, solitamente a medio e a breve termine, a fronte del quale vengono corrisposti normalmente degli interessi. Il prestito da soci si distingue dal conferimento di capitale sociale (finanziamento di rischio) e dalle obbligazioni (accessibili anche a soggetti non soci e rimborsabili a medio-lungo termine). Bankitalia nel 2016 ha stabilito che l’ammontare complessivo del prestito sociale non possa superare il limite del triplo del patrimonio della società cooperativa. Ma non ha poteri di vigilanza. Certo, ci sono i regolamenti interni dalle singole coop. Il problema però è che i fallimenti di grandi operatori hanno provocato per i soci sottoscrittori la perdita di svariate decine di milioni di euro. Per questo la legge di bilancio del 2018 aveva posto nuovi e più stringenti limiti al prestito sociale. Ad esempio, la definizione di maggiori obblighi informativi al fine di assicurare la tutela dei soci, dei creditori e dei terzi. La stretta era prevista al comma 240 del suo primo articolo, demandandone l’attuazione ad un provvedimento ad opera del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio. La delibera del Cicr richiesta al fine di definire i limiti alla raccolta del prestito sociale e le relative forme di garanzia doveva prendere forma entro il 30 giugno 2018, ma non ha ancora visto la luce.
Nel frattempo, Coop Italia ha chiuso il 2021 con un patrimonio netto salito a quasi 6,6 miliardi e un valore del prestito sociale poco sotto i 7,9 miliardi con oltre 1 milione di soci prestatori a cui le cooperative hanno distribuito 22 milioni di interessi. Al 31 dicembre 2021 l’ammontare del prestito sociale di Unicoop Tirreno risultava pari a 594,6 milioni, in calo rispetto ai 606 del 2020 (l’anno scorso la cooperativa, per la prima volta nella sua storia, ha inoltre emesso due prestiti obbligazionari rivolti ai soci prestatori). La consistenza del prestito sociale riconducibile, invece, a Coop Alleanza 3.0 - ovvero la più grande cooperativa di consumatori d’Italia - nel 2021 è stata di quasi 3,2 milioni con 417.682 soci prestatori (-1,46% rispetto al 2020 insieme a una flessione nel numero dei libretti attivi), il tasso unico dello 0,30% per i prestiti ordinari e piani diversi per quelli vincolati (1% il tasso lordo annuo per il piano di prestito vincolato a 24 mesi, 1,5% per il piano a 36 mesi). Ma ci sono anche i prestiti sociali delle altre coop, come quelle edili o agricole. Con tassi che, secondo i critici, non sono commisurati al rischio. E senza un sistema di garanzia come per i depositi bancari.
Le partecipazioni portano a Unipol
Il mondo di quelle che un tempo venivano etichettate come cooperative rosse è stato stravolto negli ultimi anni da una complessa riorganizzazione che da una parte ha fatto pulizia, ma dall’altra ha messo ancora più in luce i rischi di un sistema che lega a doppio filo i consumatori alla finanza. Creando qualche mal di pancia soprattutto per come vengono gestiti i soldi custoditi nel fondo mutualistico che viene alimentato dal 3% degli utili realizzati ogni anno da tutte le cooperative aderenti a Legacoop e dai patrimoni residui di quelle poste in liquidazione. La spa che gestisce il fondo si chiama Coopfond, è presieduta da Mauro Lusetti, numero uno di Legacoop, controllata dalla stessa Lega e sottoposta alla vigilanza del ministero dello Sviluppo Economico. La società, si legge sul sito, punta a «promuovere, rafforzare ed estendere la presenza cooperativa all’interno del sistema economico nazionale». Lo scorso 30 dicembre sul Corriere della Sera, il direttore generale Simone Gamberini ha spiegato che «Coopfond agisce prevalentemente attraverso interventi rotativi, cioè attivando partecipazioni temporanee al capitale di cooperative oppure concedendo prestiti, da solo o in partnership con altri soggetti con cui ha attive convenzioni». «Tutti gli interventi del fondo, che durano in media sette anni, presuppongono sempre l’elaborazione di un business plan da parte del soggetto che propone il progetto», ha assicurato Gamberini al Corriere. Di certo, il fondo mutualistico nato nel 1993 oggi può contare su un patrimonio di quasi 500 milioni di euro e sul contributo di oltre 2.300 cooperative.
Ma negli ambienti delle coop c’è chi sostiene che Coopfond sia diventata una holding da fare invidia ai salotti della finanza e che quell’«obolo» da consegnare ogni anno al fondo sia diventata una sorta di tassa da pagare a Unipol. Gli scontenti puntano in particolare il dito su un’ altra spa che si chiama Cooperare, di cui Coopfond detiene quasi il 50% e che a sua volta è azionista con il 3,78% del gruppo assicurativo guidato da Carlo Cimbri (che controlla il 20% di Bper Banca che possiede il 3,6% di Cooperare). La rete e gli intrecci finanziari sono fitti. Abbiamo consultato gli ultimi bilanci disponibili. In quello di Coopfond, chiuso al 30 settembre 2021, si legge che il valore delle partecipazioni azionarie di questa spa ha superato i 300 milioni di euro.
Dall’elenco delle quote spuntano l’11,5% della holding alimentare Unibon (azionista di Unipol) che controlla i Grandi salumifici italiani e finanziarie locali che distribuiscono capitale a piccole coop. Ma anche 166 milioni relativi a Cooperare, la spa presieduta da Carlo Zini (che siede anche nel cda del gruppo Unipol. Cooperare ha chiuso il bilancio al 30 giugno 2022 con 20,8 milioni di euro di utile (in aumento rispetto ai 12,2 milioni dell’anno precedente) e un patrimonio netto contabile di 347,6 milioni. La partecipazione in Unipol ha un valore di bilancio di oltre 268 milioni. I ricavi da partecipazioni sono raddoppiati proprio «per effetto del doppio dividendo percepito da Unipol (ottobre 2021 e maggio 2022)», si legge nella relazione al bilancio di Cooperare. Non solo. Cooperare possiede anche il 17,8% di Koru spa (partecipata anche da Coop Alleanza 3.0 e da altre cooperative) alla cui patrimonializzazione ha partecipato con 10 milioni.
Koru ha acquisito il 3,3% di Unipol investendo 107,6 milioni. Il sogno che anche le coop possano fare finanza per sostenere la propria crescita continua.
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Le 50.000 cooperative italiane fatturano 135 miliardi. Grazie ai prestiti sociali, si finanziano con tassi di interesse spesso sganciati dal livello di rischio. Bankitalia ha le mani legate e il nuovo regolamento latita.Le partecipazioni portano a Unipol. Legacoop controlla il fondo che gestisce la cassa. Ma c’è chi si lamenta dell’«obolo» annuale, diventato con il tempo una sorta di tassa da pagare alla holding bolognese.Lo speciale comprende due articoli.Dentro al mondo delle coop, ancora oggi si celano 10 miliardi di prestiti sociali, non vigilati da Bankitalia, con tassi di interesse spesso sganciati dal livello di rischio. Un mondo che si trascina problematiche simili ai fiumi carsici. Appaiono e scompaiono. Sei anni fa l’emersione fece scalpore. Nell’aprile del 2016 uscì infatti in libreria un libro inchiesta scritto da Antonio Amorosi, Coop Connection. Vi si documentavano i lati oscuri dell’universo delle coop di consumo che raccolgono anche finanziamenti dai soci e non garantiscono il rimborso se qualcosa va storto. Quelle che offrono assistenza sanitaria pagando meno tasse di una clinica «normale». Il neocapitalismo delle grandi multiutility emiliane che gestiscono rifiuti e servizi energetici e le «sette sorelle del mattone» finite in liquidazione o in concordato lasciando a casa i dipendenti. Le piccole cooperative di facchinaggio, logistica, pulizie o preparazione di alimenti che lavorano in subappalto e pagavano tre euro l’ora, in gran parte «al nero». Sullo sfondo, Unipol, uno dei maggiori gruppi assicurativi italiani, quotato in Borsa ma controllato dalle coop. Sono passati quasi sette anni da quell’inchiesta. Cosa è cambiato? L’ultima fotografia scattata dal Censis al settore mostra un esercito di 50.000 cooperative (considerando quelle con bilancio depositato) con un fatturato che si aggira sui 135 miliardi e un’occupazione superiore a 1,2 milioni di persone. I casi di cronaca non mancano, l’ultimo quello che ha coinvolto Aboubakar Soumahoro. Ma ce ne sono anche di meno eclatanti, come quello del dissesto della cooperativa emiliana di costruzioni, la Cmr di Reggiolo. Il 29 luglio scorso, 124 soci prestatori, alcuni dei quali in rappresentanza di altri, per un totale di 250, hanno sporto denuncia in Procura. Si tratta di persone che nei libretti hanno depositato somme intorno ai 7 milioni di euro. I soci chiedono in particolare che venga fatta luce sugli investimenti e le operazioni immobiliari condotte poco prima del concordato del 2012. I prestatori hanno ottenuto da Legacoop il 40% delle somme che avevano conferito alla coop reggiolese, una realtà che in paese godeva di grande fiducia. Nel 2021 le aste per la vendita dei beni ancora di proprietà della Cmr sono andate deserte, circostanza che viene attribuita anche all’epidemia di Covid. Dallo stato patrimoniale del bilancio 2021 della Cmr, che a luglio i soci prestatori hanno bocciato, emerge che la coop ha ancora debiti per quasi 92 milioni di euro. E qui si innesta il capitolo sul prestito sociale, cioè la raccolta di risparmio tra soci delle coop che oggi vale attorno ai 10 miliardi. Tecnicamente il prestito sociale costituisce una forma di finanziamento della società cooperativa che si concretizza nell’apporto, da parte dei soci persone fisiche, di capitale rimborsabile, solitamente a medio e a breve termine, a fronte del quale vengono corrisposti normalmente degli interessi. Il prestito da soci si distingue dal conferimento di capitale sociale (finanziamento di rischio) e dalle obbligazioni (accessibili anche a soggetti non soci e rimborsabili a medio-lungo termine). Bankitalia nel 2016 ha stabilito che l’ammontare complessivo del prestito sociale non possa superare il limite del triplo del patrimonio della società cooperativa. Ma non ha poteri di vigilanza. Certo, ci sono i regolamenti interni dalle singole coop. Il problema però è che i fallimenti di grandi operatori hanno provocato per i soci sottoscrittori la perdita di svariate decine di milioni di euro. Per questo la legge di bilancio del 2018 aveva posto nuovi e più stringenti limiti al prestito sociale. Ad esempio, la definizione di maggiori obblighi informativi al fine di assicurare la tutela dei soci, dei creditori e dei terzi. La stretta era prevista al comma 240 del suo primo articolo, demandandone l’attuazione ad un provvedimento ad opera del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio. La delibera del Cicr richiesta al fine di definire i limiti alla raccolta del prestito sociale e le relative forme di garanzia doveva prendere forma entro il 30 giugno 2018, ma non ha ancora visto la luce.Nel frattempo, Coop Italia ha chiuso il 2021 con un patrimonio netto salito a quasi 6,6 miliardi e un valore del prestito sociale poco sotto i 7,9 miliardi con oltre 1 milione di soci prestatori a cui le cooperative hanno distribuito 22 milioni di interessi. Al 31 dicembre 2021 l’ammontare del prestito sociale di Unicoop Tirreno risultava pari a 594,6 milioni, in calo rispetto ai 606 del 2020 (l’anno scorso la cooperativa, per la prima volta nella sua storia, ha inoltre emesso due prestiti obbligazionari rivolti ai soci prestatori). La consistenza del prestito sociale riconducibile, invece, a Coop Alleanza 3.0 - ovvero la più grande cooperativa di consumatori d’Italia - nel 2021 è stata di quasi 3,2 milioni con 417.682 soci prestatori (-1,46% rispetto al 2020 insieme a una flessione nel numero dei libretti attivi), il tasso unico dello 0,30% per i prestiti ordinari e piani diversi per quelli vincolati (1% il tasso lordo annuo per il piano di prestito vincolato a 24 mesi, 1,5% per il piano a 36 mesi). Ma ci sono anche i prestiti sociali delle altre coop, come quelle edili o agricole. Con tassi che, secondo i critici, non sono commisurati al rischio. 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Creando qualche mal di pancia soprattutto per come vengono gestiti i soldi custoditi nel fondo mutualistico che viene alimentato dal 3% degli utili realizzati ogni anno da tutte le cooperative aderenti a Legacoop e dai patrimoni residui di quelle poste in liquidazione. La spa che gestisce il fondo si chiama Coopfond, è presieduta da Mauro Lusetti, numero uno di Legacoop, controllata dalla stessa Lega e sottoposta alla vigilanza del ministero dello Sviluppo Economico. La società, si legge sul sito, punta a «promuovere, rafforzare ed estendere la presenza cooperativa all’interno del sistema economico nazionale». Lo scorso 30 dicembre sul Corriere della Sera, il direttore generale Simone Gamberini ha spiegato che «Coopfond agisce prevalentemente attraverso interventi rotativi, cioè attivando partecipazioni temporanee al capitale di cooperative oppure concedendo prestiti, da solo o in partnership con altri soggetti con cui ha attive convenzioni». «Tutti gli interventi del fondo, che durano in media sette anni, presuppongono sempre l’elaborazione di un business plan da parte del soggetto che propone il progetto», ha assicurato Gamberini al Corriere. Di certo, il fondo mutualistico nato nel 1993 oggi può contare su un patrimonio di quasi 500 milioni di euro e sul contributo di oltre 2.300 cooperative. Ma negli ambienti delle coop c’è chi sostiene che Coopfond sia diventata una holding da fare invidia ai salotti della finanza e che quell’«obolo» da consegnare ogni anno al fondo sia diventata una sorta di tassa da pagare a Unipol. Gli scontenti puntano in particolare il dito su un’ altra spa che si chiama Cooperare, di cui Coopfond detiene quasi il 50% e che a sua volta è azionista con il 3,78% del gruppo assicurativo guidato da Carlo Cimbri (che controlla il 20% di Bper Banca che possiede il 3,6% di Cooperare). La rete e gli intrecci finanziari sono fitti. Abbiamo consultato gli ultimi bilanci disponibili. In quello di Coopfond, chiuso al 30 settembre 2021, si legge che il valore delle partecipazioni azionarie di questa spa ha superato i 300 milioni di euro. Dall’elenco delle quote spuntano l’11,5% della holding alimentare Unibon (azionista di Unipol) che controlla i Grandi salumifici italiani e finanziarie locali che distribuiscono capitale a piccole coop. Ma anche 166 milioni relativi a Cooperare, la spa presieduta da Carlo Zini (che siede anche nel cda del gruppo Unipol. Cooperare ha chiuso il bilancio al 30 giugno 2022 con 20,8 milioni di euro di utile (in aumento rispetto ai 12,2 milioni dell’anno precedente) e un patrimonio netto contabile di 347,6 milioni. La partecipazione in Unipol ha un valore di bilancio di oltre 268 milioni. I ricavi da partecipazioni sono raddoppiati proprio «per effetto del doppio dividendo percepito da Unipol (ottobre 2021 e maggio 2022)», si legge nella relazione al bilancio di Cooperare. Non solo. Cooperare possiede anche il 17,8% di Koru spa (partecipata anche da Coop Alleanza 3.0 e da altre cooperative) alla cui patrimonializzazione ha partecipato con 10 milioni. Koru ha acquisito il 3,3% di Unipol investendo 107,6 milioni. Il sogno che anche le coop possano fare finanza per sostenere la propria crescita continua.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 18 dicembre con Flaminia Camilletti
Giorgia Meloni (Ansa)
Ne è scaturita una dichiarazione finale dei leader europei che riprende tutte le priorità che l’Italia ha sostenuto in questi mesi difficili, e che ho ribadito anche martedì scorso accogliendo a Roma il presidente Zelensky. Il cammino verso la pace, dal nostro punto di vista», aggiunge la Meloni, «non può prescindere da quattro fattori fondamentali: lo stretto legame tra Europa e Stati Uniti, che non sono competitor in questa vicenda, atteso che condividono lo stesso obiettivo, ma hanno sicuramente angoli di visuale non sovrapponibili, dati soprattutto dalla loro differente posizione geografica. Il rafforzamento della posizione negoziale ucraina, che si ottiene soprattutto mantenendo chiaro che non intendiamo abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Quanto agli altri due fattori, la Meloni non si esime dall’avvertire dei rischi che correrebbe l’Europa se Vladimir Putin fosse lasciato libero di ottenere tutto quello che vuole: «La tutela degli interessi dell’Europa», incalza la Meloni, «che per il sostegno garantito dall’inizio del conflitto, e per i rischi che correrebbe se la Russia ne uscisse rafforzata, non possono essere ignorati e il mantenimento della pressione sulla Russia, ovvero la nostra capacità di costruire deterrenza, di rendere cioè la guerra non vantaggiosa per Mosca. Come sta, nei fatti, accadendo. Oltre la cortina fumogena della propaganda russa», argomenta il premier, «la realtà sul campo è che Mosca si è impantanata in una durissima guerra di posizione, tanto che, dalla fine del 2022 ad oggi, è riuscita a conquistare appena l’1,45% del territorio ucraino, peraltro a costo di enormi sacrifici in termini di uomini e mezzi. È questa difficoltà l’unica cosa che può costringere Mosca a un accordo, ed è una difficoltà che, lo voglio ricordare, è stata garantita dal coraggio degli ucraini e dal sostegno occidentale alla nazione aggredita». La Meloni entra nel merito di quanto sta accadendo in queste ore: «Il processo negoziale», spiega ancora, «è in una fase in cui si sta consolidando un pacchetto che si sviluppa su tre binari paralleli: un piano di pace, un impegno internazionale per garantire all’Ucraina solide e credibili garanzie di sicurezza, e intese sulla futura ricostruzione della nazione aggredita. È chiaramente una trattativa estremamente complessa, che per arrivare a compimento non può, però, prescindere dalla volontà della Russia di contribuire al percorso negoziale in maniera equa, credibile e costruttiva. Purtroppo, ad oggi, tutto sembra raccontare che questa volontà non sia ancora maturata. Lo dimostrano i continui bombardamenti su città e infrastrutture ucraini, nonché sulla popolazione inerme, e lo confermano le pretese irragionevoli che Mosca sta veicolando ai suoi interlocutori. La principale delle quali riguarda la porzione di Donbass non conquistata dai russi. A differenza di quanto narrato dalla propaganda», insiste ancora la Meloni, «il principale ostacolo a un accordo di pace è l’incapacità della Russia di conquistare le quattro regioni ucraine che ha unilateralmente dichiarato come annesse già alla fine del 2022, addirittura inserendole nella costituzione russa come parte integrante del proprio territorio. Da qui la richiesta russa che l’Ucraina si ritiri quantomeno dall’intero Donbass. È chiaramente questo, oggi, lo scoglio più difficile da superare nella trattativa, e penso che tutti dovremmo riconoscere la buona fede del presidente ucraino, che è arrivato a proporre un referendum per dirimere questa controversia, proposta, però, respinta dalla Russia. In ogni caso, sul tema dei territori, ogni decisione dovrà essere presa tra le parti e nessuno può imporre da fuori la sua volontà». Si arriva agli asset russi: «L’Italia», sottolinea la Meloni con estrema chiarezza, «ha deciso venerdì scorso di non far mancare il proprio appoggio al regolamento che ha fissato l’immobilizzazione dei beni russi senza, tuttavia ancora avallare, ancora, alcuna decisione sul loro utilizzo. Nell’approvare il regolamento», precisa, «abbiamo voluto ribadire un principio che consideriamo fondamentale: decisioni di tale portata giuridica, finanziaria e istituzionale, come anche quella dell’eventuale utilizzo degli asset congelati, non possono che essere prese al livello dei leader. Intendiamo chiedere chiarezza rispetto ai possibili rischi connessi alla proposta di utilizzo della liquidità generata dall’immobilizzazione degli asset, particolarmente quelli reputazionali, di ritorsione o legati a nuovi, pesanti, fardelli per i bilanci nazionali». L’ipotesi di una forza multinazionale resta in discussione «con partecipazione volontaria di ciascun Paese», sostiene ancora la Meloni, ma «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina». Nelle repliche la Meloni ha gioco facile a rispondere alle critiche delle opposizioni, divise ancora una volta. A chi le chiede di scegliere tra Europa e Stati Uniti, la Meloni risponde di «stare con l’Italia» e rivolgendosi al Pd ricorda che se l’Europa rischia l’irrilevanza è per le politiche portate avanti negli ultimi anni dalla sinistra.
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Le macchine che incroci per le strade della capitale portano sulle fiancate dei grandi fiocchi gialli per non dimenticare le 251 persone rapite da Hamas. Il 7 ottobre del 2023 è stato uno spartiacque. È il nuovo prima e dopo Cristo per Israele. E pure per la Palestina.
Gerusalemme arranca. I turisti sono pochi nonostante si stia avvicinando il Natale. I controlli moltiplicati. Lungo la via dolorosa, quella che Cristo fece portando la croce, i militari israeliani scrutano con attenzione chiunque gli si pari davanti. Del resto, non lontano da qui, sono stati ammazzati Adiel Kolman e Aharon Bennett. Basta un coltello per togliere la vita.
Dal 1948, arabi e israeliani hanno sempre faticato a convivere. Ogni parte voleva prevalere sull’altra. «Facci caso» - ci racconta Omar, un ortodosso - «non vedrai mai un ebreo e un mussulmano insieme. Se mai dovessi vederli è perché accanto a loro c’è anche un cristiano». E pare proprio così, soprattutto a Betlemme, che torna a festeggiare il Natale dopo due anni di buio. Ne ha parecchio bisogno la città del pane. La disoccupazione, ci racconta una ragazza, è ormai arrivata all’82%. Un dramma nel dramma. L’acqua è contingentata, come dimostrano le grandi cisterne installate sopra le case. Bisogna raccoglierne il più possibile perché non è detto che domani, o dopo, ci sarà.
Alla polizia turistica non sembra vero di vedere degli stranieri. «Prego, prego», si affrettano a dire, indicando la catena che ci separa dalla chiesa della Natività che, insieme a quella del Santo sepolcro, racchiude la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù. Ci invita a scavalcarla. Le regole vanno infrante. Ci sono dei turisti e devono essere trattati bene. Meglio ancora quando viene a sapere che siamo giornalisti: «Dite che Betlemme continua a vivere», si raccomanda. Poco più in là, un gigantesco albero di Natale illumina la piazza. Sotto di lui un presepio dai colori sgargianti. È semplice ma c’è tutto: Gesù, che è già arrivato, Maria, Giuseppe, e pure i re Magi, che a quanto pare non possono permettersi il lusso di essere fermati da un’altra guerra. Meglio portarsi avanti ed essere lì ad adorare il Bambinello.
È ormai sera inoltrata. Arrivare a Betlemme non è stato semplice. Il checkpoint principale, quello che permette alle macchine dirette in Cisgiordania di defluire più facilmente, era chiuso. Bisogna fare un giro più largo, quindi. Sono già passate le 9 di sera, eppure la piazza è piena. Ci sono famiglie, bambini che giocano a pallone. Un ragazzo ci ferma e ci spiega come per lui il Natale sia innanzitutto dolcezza. Un altro, invece, ci spiega che è musulmano ma che anche per lui questa festa rappresenta innanzitutto dolcezza e che la celebrerà. In piazza c’è perfino un Babbo Natale che cerca di vendere cappellini e palloncini per bambini. È emozionato. Non faceva più questo lavoro da anni. Ed eccolo lì con il suo pancione fuori misura (ma neanche troppo visto che il cibo qui a volte scarseggia) e la voglia di far felici gli altri: «Siete tutti benvenuti a Betlemme, tutto il mondo deve venire qui».
Non è facile però. Come ci spiega un ex diplomatico dell’autorità palestinese che ha trattato a lungo i negoziati con Israele, «il 7 ottobre ha cambiato tutto, da una parte e dall’altra. La soluzione dei due Stati, che già prima era difficile da realizzare, ora è impossibile. Israele si è spostata molto a destra e quello che era il pensiero di pochi è oggi diventato il pensiero di tanti. Allo stesso tempo, però, né Hamas né l’autorità palestinese rappresentano un’alternativa valida per noi». Quale sia l’alternativa, però, non si sa. Si vive sospesi. Come se qualcosa di nuovo e tremendo dovesse accadere ancora. I coloni, a Gerusalemme Est, continuano a occupare le case dei palestinesi. E pure in Cisgiordania. La convivenza pare una chimera. Ma poi ci tornano in mente le parole di Omar: «Se c’è un cristiano, allora è possibile». Come a Betlemme, del resto.
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Che cosa dice la proposta incardinata alla Camera? Innanzitutto che chi vuole amministrare un condominio deve avere una laurea. Non è chiaro se questo preluda all’istituzione di percorsi di studi universitari con specializzazione nella gestione di condomini, sta di fatto che, se si ha un diploma senza essere iscritto a un albo, ordine o collegi di area economica, giuridica o tecnica (cioè se non si è geometra, perito industriale o ragioniere), non si potrà più amministrare un condominio. Fin qui passi, anche se ogni tanto si discute dell’abolizione del valore legale della laurea, si capisce la ratio della norma che si vuole introdurre, per evitare pasticci nella tenuta dei conti. Viene, poi, il rinnovo automatico del professionista incaricato a meno che l’assemblea non decida diversamente, così da evitare pericolosi stalli in cui chi deve occuparsi della gestione non ha un mandato e deve operare solo per l’ordinaria amministrazione.
Però, poi, ci sono un paio di novità che rischiano di trasformarsi in un salasso per moltissime famiglie. La prima riguarda i morosi, cioè quelli che non pagano le spese condominiali. Invece di rendere più spedite le esecuzioni nei loro confronti, la legge concede loro più tempo. Non solo: se un proprietario di casa non paga, per esempio le spese di manutenzione già eseguite o l’erogazione del gas che pro quota gli compete, i fornitori - cioè, manutentori e gestori - potranno rivalersi non soltanto sul condomino moroso, ma anche sul condominio e - soprattutto - sui proprietari che sono in regola con le spese. In pratica, i furbi la faranno franca perché basterà farsi trovare con il conto corrente prosciugato per non sborsare un euro. Gli onesti, invece, rischiano di dover pagare anche per i disonesti. Infatti, se passa il disegno di legge, in caso di mancato pagamento il fornitore potrà attingere direttamente al conto corrente condominiale e, poi, potrà pretendere che sia chi è in regola a saldare i conti. Una follia che sicuramente farà felici i fornitori mentre renderà furiosi i proprietari di casa che sono alle prese con vicini con forti arretrati nel versamento delle spese condominiali.
Non è finita. La proposta di legge include anche un’idea che sicuramente si trasformerà in una spesa in più per i condomini più grandi. Infatti, la legge introdurrebbe l’obbligo di nominare un revisore dei conti nei palazzi con più di venti appartamenti, poi la sicurezza delle parti comuni dovrà essere attestata da una società specializzata e l’amministratore potrà ordinare la messa a norma a prescindere dalle decisioni dell’assemblea. Non vi sfuggirà che sia il revisore sia il certificatore della sicurezza non lavoreranno gratis e, dunque, i condomini dovranno mettere mano al portafogli.
Intendiamoci, capisco le ragioni delle norme che si vogliono introdurre per fare in modo che gli edifici abbiano impianti in regola. E comprendo anche i controlli sul bilancio da parte di un professionista esterno, per evitare che l’amministratore faccia il furbo o scappi con la cassa. Tuttavia, poi, bisogna anche badare ai bilanci delle famiglie, già gravati da un’infinità di gabelle. In particolare, c’è da comprendere che, se un condomino non paga, non vanno penalizzati i vicini in regola: semmai si può disporre il pignoramento veloce dell’immobile posseduto dal furbo, disposizioni già adottate in altri Paesi, come Stati Uniti e Francia, con addirittura la messa in vendita dell’alloggio. Vedrete che i disonesti avranno meno voglia di sottrarsi al pagamento delle spese condominiali. Senza gravare sulle spalle degli onesti.
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