- Le 50.000 cooperative italiane fatturano 135 miliardi. Grazie ai prestiti sociali, si finanziano con tassi di interesse spesso sganciati dal livello di rischio. Bankitalia ha le mani legate e il nuovo regolamento latita.
- Le partecipazioni portano a Unipol. Legacoop controlla il fondo che gestisce la cassa. Ma c’è chi si lamenta dell’«obolo» annuale, diventato con il tempo una sorta di tassa da pagare alla holding bolognese.
Le 50.000 cooperative italiane fatturano 135 miliardi. Grazie ai prestiti sociali, si finanziano con tassi di interesse spesso sganciati dal livello di rischio. Bankitalia ha le mani legate e il nuovo regolamento latita.Le partecipazioni portano a Unipol. Legacoop controlla il fondo che gestisce la cassa. Ma c’è chi si lamenta dell’«obolo» annuale, diventato con il tempo una sorta di tassa da pagare alla holding bolognese.Lo speciale comprende due articoli.Dentro al mondo delle coop, ancora oggi si celano 10 miliardi di prestiti sociali, non vigilati da Bankitalia, con tassi di interesse spesso sganciati dal livello di rischio. Un mondo che si trascina problematiche simili ai fiumi carsici. Appaiono e scompaiono. Sei anni fa l’emersione fece scalpore. Nell’aprile del 2016 uscì infatti in libreria un libro inchiesta scritto da Antonio Amorosi, Coop Connection. Vi si documentavano i lati oscuri dell’universo delle coop di consumo che raccolgono anche finanziamenti dai soci e non garantiscono il rimborso se qualcosa va storto. Quelle che offrono assistenza sanitaria pagando meno tasse di una clinica «normale». Il neocapitalismo delle grandi multiutility emiliane che gestiscono rifiuti e servizi energetici e le «sette sorelle del mattone» finite in liquidazione o in concordato lasciando a casa i dipendenti. Le piccole cooperative di facchinaggio, logistica, pulizie o preparazione di alimenti che lavorano in subappalto e pagavano tre euro l’ora, in gran parte «al nero». Sullo sfondo, Unipol, uno dei maggiori gruppi assicurativi italiani, quotato in Borsa ma controllato dalle coop. Sono passati quasi sette anni da quell’inchiesta. Cosa è cambiato? L’ultima fotografia scattata dal Censis al settore mostra un esercito di 50.000 cooperative (considerando quelle con bilancio depositato) con un fatturato che si aggira sui 135 miliardi e un’occupazione superiore a 1,2 milioni di persone. I casi di cronaca non mancano, l’ultimo quello che ha coinvolto Aboubakar Soumahoro. Ma ce ne sono anche di meno eclatanti, come quello del dissesto della cooperativa emiliana di costruzioni, la Cmr di Reggiolo. Il 29 luglio scorso, 124 soci prestatori, alcuni dei quali in rappresentanza di altri, per un totale di 250, hanno sporto denuncia in Procura. Si tratta di persone che nei libretti hanno depositato somme intorno ai 7 milioni di euro. I soci chiedono in particolare che venga fatta luce sugli investimenti e le operazioni immobiliari condotte poco prima del concordato del 2012. I prestatori hanno ottenuto da Legacoop il 40% delle somme che avevano conferito alla coop reggiolese, una realtà che in paese godeva di grande fiducia. Nel 2021 le aste per la vendita dei beni ancora di proprietà della Cmr sono andate deserte, circostanza che viene attribuita anche all’epidemia di Covid. Dallo stato patrimoniale del bilancio 2021 della Cmr, che a luglio i soci prestatori hanno bocciato, emerge che la coop ha ancora debiti per quasi 92 milioni di euro. E qui si innesta il capitolo sul prestito sociale, cioè la raccolta di risparmio tra soci delle coop che oggi vale attorno ai 10 miliardi. Tecnicamente il prestito sociale costituisce una forma di finanziamento della società cooperativa che si concretizza nell’apporto, da parte dei soci persone fisiche, di capitale rimborsabile, solitamente a medio e a breve termine, a fronte del quale vengono corrisposti normalmente degli interessi. Il prestito da soci si distingue dal conferimento di capitale sociale (finanziamento di rischio) e dalle obbligazioni (accessibili anche a soggetti non soci e rimborsabili a medio-lungo termine). Bankitalia nel 2016 ha stabilito che l’ammontare complessivo del prestito sociale non possa superare il limite del triplo del patrimonio della società cooperativa. Ma non ha poteri di vigilanza. Certo, ci sono i regolamenti interni dalle singole coop. Il problema però è che i fallimenti di grandi operatori hanno provocato per i soci sottoscrittori la perdita di svariate decine di milioni di euro. Per questo la legge di bilancio del 2018 aveva posto nuovi e più stringenti limiti al prestito sociale. Ad esempio, la definizione di maggiori obblighi informativi al fine di assicurare la tutela dei soci, dei creditori e dei terzi. La stretta era prevista al comma 240 del suo primo articolo, demandandone l’attuazione ad un provvedimento ad opera del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio. La delibera del Cicr richiesta al fine di definire i limiti alla raccolta del prestito sociale e le relative forme di garanzia doveva prendere forma entro il 30 giugno 2018, ma non ha ancora visto la luce.Nel frattempo, Coop Italia ha chiuso il 2021 con un patrimonio netto salito a quasi 6,6 miliardi e un valore del prestito sociale poco sotto i 7,9 miliardi con oltre 1 milione di soci prestatori a cui le cooperative hanno distribuito 22 milioni di interessi. Al 31 dicembre 2021 l’ammontare del prestito sociale di Unicoop Tirreno risultava pari a 594,6 milioni, in calo rispetto ai 606 del 2020 (l’anno scorso la cooperativa, per la prima volta nella sua storia, ha inoltre emesso due prestiti obbligazionari rivolti ai soci prestatori). La consistenza del prestito sociale riconducibile, invece, a Coop Alleanza 3.0 - ovvero la più grande cooperativa di consumatori d’Italia - nel 2021 è stata di quasi 3,2 milioni con 417.682 soci prestatori (-1,46% rispetto al 2020 insieme a una flessione nel numero dei libretti attivi), il tasso unico dello 0,30% per i prestiti ordinari e piani diversi per quelli vincolati (1% il tasso lordo annuo per il piano di prestito vincolato a 24 mesi, 1,5% per il piano a 36 mesi). Ma ci sono anche i prestiti sociali delle altre coop, come quelle edili o agricole. Con tassi che, secondo i critici, non sono commisurati al rischio. E senza un sistema di garanzia come per i depositi bancari. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nel-mondo-delle-coop-10-miliardi-di-risparmi-ancora-senza-vigilanza-2659081308.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-partecipazioni-portano-a-unipol" data-post-id="2659081308" data-published-at="1673034890" data-use-pagination="False"> Le partecipazioni portano a Unipol Il mondo di quelle che un tempo venivano etichettate come cooperative rosse è stato stravolto negli ultimi anni da una complessa riorganizzazione che da una parte ha fatto pulizia, ma dall’altra ha messo ancora più in luce i rischi di un sistema che lega a doppio filo i consumatori alla finanza. Creando qualche mal di pancia soprattutto per come vengono gestiti i soldi custoditi nel fondo mutualistico che viene alimentato dal 3% degli utili realizzati ogni anno da tutte le cooperative aderenti a Legacoop e dai patrimoni residui di quelle poste in liquidazione. La spa che gestisce il fondo si chiama Coopfond, è presieduta da Mauro Lusetti, numero uno di Legacoop, controllata dalla stessa Lega e sottoposta alla vigilanza del ministero dello Sviluppo Economico. La società, si legge sul sito, punta a «promuovere, rafforzare ed estendere la presenza cooperativa all’interno del sistema economico nazionale». Lo scorso 30 dicembre sul Corriere della Sera, il direttore generale Simone Gamberini ha spiegato che «Coopfond agisce prevalentemente attraverso interventi rotativi, cioè attivando partecipazioni temporanee al capitale di cooperative oppure concedendo prestiti, da solo o in partnership con altri soggetti con cui ha attive convenzioni». «Tutti gli interventi del fondo, che durano in media sette anni, presuppongono sempre l’elaborazione di un business plan da parte del soggetto che propone il progetto», ha assicurato Gamberini al Corriere. Di certo, il fondo mutualistico nato nel 1993 oggi può contare su un patrimonio di quasi 500 milioni di euro e sul contributo di oltre 2.300 cooperative. Ma negli ambienti delle coop c’è chi sostiene che Coopfond sia diventata una holding da fare invidia ai salotti della finanza e che quell’«obolo» da consegnare ogni anno al fondo sia diventata una sorta di tassa da pagare a Unipol. Gli scontenti puntano in particolare il dito su un’ altra spa che si chiama Cooperare, di cui Coopfond detiene quasi il 50% e che a sua volta è azionista con il 3,78% del gruppo assicurativo guidato da Carlo Cimbri (che controlla il 20% di Bper Banca che possiede il 3,6% di Cooperare). La rete e gli intrecci finanziari sono fitti. Abbiamo consultato gli ultimi bilanci disponibili. In quello di Coopfond, chiuso al 30 settembre 2021, si legge che il valore delle partecipazioni azionarie di questa spa ha superato i 300 milioni di euro. Dall’elenco delle quote spuntano l’11,5% della holding alimentare Unibon (azionista di Unipol) che controlla i Grandi salumifici italiani e finanziarie locali che distribuiscono capitale a piccole coop. Ma anche 166 milioni relativi a Cooperare, la spa presieduta da Carlo Zini (che siede anche nel cda del gruppo Unipol. Cooperare ha chiuso il bilancio al 30 giugno 2022 con 20,8 milioni di euro di utile (in aumento rispetto ai 12,2 milioni dell’anno precedente) e un patrimonio netto contabile di 347,6 milioni. La partecipazione in Unipol ha un valore di bilancio di oltre 268 milioni. I ricavi da partecipazioni sono raddoppiati proprio «per effetto del doppio dividendo percepito da Unipol (ottobre 2021 e maggio 2022)», si legge nella relazione al bilancio di Cooperare. Non solo. Cooperare possiede anche il 17,8% di Koru spa (partecipata anche da Coop Alleanza 3.0 e da altre cooperative) alla cui patrimonializzazione ha partecipato con 10 milioni. Koru ha acquisito il 3,3% di Unipol investendo 107,6 milioni. Il sogno che anche le coop possano fare finanza per sostenere la propria crescita continua.
Ansa
Centinaia di tank israeliani pronti a invadere la Striscia. Paesi islamici coesi contro il raid ebraico in Qatar. Oggi Marco Rubio a Doha.
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Considerato un superfood, questo seme (e l’olio che se ne ricava) combatte trigliceridi, colesterolo e ipertensione. E in menopausa aiuta a contrastare l’osteoporosi. Accertatevi però di non essere allergici.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Parla Roberto Catalucci, il maestro di generazioni di atleti: «Jannik è un fenomeno che esula da logiche federali, Alcaraz è l’unico al suo livello. Il passaggio dall’estetica all’efficienza ha segnato la svolta per il movimento».
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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