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2024-05-26
La Nato sdogana le bombe contro Mosca
Jens Stoltenberg (Ansa)
Il conflitto in Ucraina sembra sempre più vicino al punto di non ritorno. Alcuni Paesi della Nato nelle ultime settimane hanno alzato i toni delle dichiarazioni, a cominciare dalla Francia. Adesso però è il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, a parlare. «Penso sia giunto il tempo per gli alleati di eliminare molte delle restrizioni imposte sull’uso delle armi donate all’Ucraina, perché specialmente adesso, in un momento in cui si combatte a Kharkiv, vicino al confine, negare all’Ucraina la possibilità di usare queste armi contro obiettivi militari legittimi sul territorio russo renderebbe molto difficile per loro difendersi».
Dall’inizio della guerra a oggi, l’Occidente ha sempre sostenuto e appoggiato l’Ucraina a difendersi sul proprio territorio con un monito: vietare l’escalation per evitare la terza guerra mondiale. Le parole del più alto vertice dell’Alleanza atlantica potrebbero cambiare tutto e vanificare mesi di sforzi. «Dobbiamo ricordare di cosa si tratta. Si tratta di una guerra di aggressione della Russia all’Ucraina. Kiev ha diritto a difendersi e questo include anche colpire obiettivi in territorio russo», ha insistito Stoltenberg in un’intervista rilasciata all’Economist. «Alcuni alleati hanno già allentato queste restrizioni permettendo l’uso delle loro armi contro obiettivi militari in Ucraina. Io credo che sia giunto il tempo di considerare anche questo», ha precisato. In un’altra intervista, rilasciata questa volta al giornale tedesco Welt am Sonntag, Stoltenberg aggiusta un po’ il tiro e aggiunge: «Non ci sono piani per inviare truppe Nato in Ucraina perché l’Alleanza non entrerà nel conflitto».
Le sue parole fanno il giro del mondo ed è Mosca a reagire per prima. «Tutte le delegazioni invitate alla conferenza di pace in Svizzera sull’Ucraina dovrebbero essere consapevoli della posizione del segretario generale della Nato», ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. «I segnali che arrivano dalle autorità statunitensi sono assolutamente chiari. Washington non vuole la pace in Europa», l’accusa dell’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov. Ci pensa il presidente Usa, Joe Biden, ad abbassare i toni: «Non ci sono soldati americani in guerra in Ucraina. Sono determinato a mantenere la situazione così».
Le parole di Stoltenberg stupiscono anche i vertici del governo italiano. «Noi lavoriamo per la pace», ha detto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. «Siamo parte della Nato ma ogni decisione deve presa in modo collegiale». Poi ribadisce: «Noi non manderemo un militare italiano in Ucraina e le armi, gli strumenti militari inviati dall’Italia vengono usati all’interno dell’Ucraina». Più severa la reazione del vicepremier Matteo Salvini: «L’Italia non è in guerra con nessuno e se è stato giusto aiutare militarmente l’Ucraina, allo stesso tempo non se ne parla nemmeno di togliere il divieto a Kiev di colpire obiettivi militari in Russia, così come ribadisco che la Lega è contraria a inviare anche un solo soldato a combattere in Ucraina. Noi vogliamo la pace non l’anticamera della terza guerra mondiale». Sempre dalla Lega è il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, a rincarare la dose: «A Bruxelles parlano di vertice per la pace ma pensano alla guerra. Inebriati come sono dal furore bellicista rinnegano la stessa Costituzione europea, che nei suoi principi fondamentali si prefigge di promuovere la pace di fronte alle controversie internazionali». Per Romeo «la priorità è intensificare il lavoro diplomatico per arrivare a una tregua. Chi non comprende questo ci sta portando verso una guerra nucleare e sempre più vicini al punto di non ritorno».
E mentre il G7 ha raggiunto un accordo sull’obiettivo di sostenere l’Ucraina anche nel 2025, al confine Nato, da tempo c’è già movimento. Polonia, Finlandia e Norvegia hanno concordato di creare un «muro di droni» a protezione dei loro confini. Ad annunciarlo è il ministro dell’Interno della Lituania, Agnè Bilotaitè: «Si tratta di qualcosa di completamente nuovo: droni schierati lungo la frontiera con la Russia, dalla Norvegia alla Polonia, il cui scopo sarà quello di proteggere il nostro confine anche con altre tecnologie. Non solo infrastrutture fisiche e sistemi di sorveglianza, ma anche droni e altre tecnologie che ci permetteranno di proteggerci». Per il resto le armi continuano a scarseggiare. Anche la Germania, tra i più grandi fornitori di Kiev, comincia a non avere più risorse da inviare. Il cancelliere, Olaf Scholz, dopo aver annunciato la spedizione di una nuova fornitura di carri armati, mezzi di artiglieria e droni, ha avvertito: «La Germania ha raggiunto il limite di ciò che è possibile fornire all’Ucraina in termini di aiuti militari».
Nel frattempo il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che deve ringraziare l’Occidente per aver respinto Mosca fin qui, prosegue con le stilettate nei confronti dei suoi stessi alleati. «Chiesi al presidente Usa, Joe Biden, e all’Unione europea di imporre sanzioni contro il Cremlino, Vladimir Putin, il suo entourage, il settore energetico russo prima dell’invasione, ma nessuno ci ha sentito. Tutti dissero detto no: prima i russi devono fare un passo, poi noi faremo i passi corrispondenti. E qual è il risultato? Di conseguenza, le grandi perdite umane sono irreparabili».
Raid russo su un centro commerciale. E a Kharkiv spunta la nuova Wagner
Doppio attacco russo a Kharkiv. Ieri, un raid di Mosca ha colpito un ipermercato nella città: stando alle autorità ucraine, si sono registrati almeno due morti e 35 feriti, anche se si teme che il numero delle vittime possa salire, visto che, secondo Volodymyr Zelensky, nel megastore ci sarebbero state più di 200 persone. «Se l’Ucraina avesse avuto sufficienti sistemi di difesa aerea e moderni aerei da combattimento, attacchi russi come questo sarebbero stati impossibili», ha aggiunto il presidente ucraino. «Questo attacco a Kharkiv è un’altra manifestazione della follia russa, non c’è altro modo di dirlo. Solo pazzi come Vladimir Putin sono capaci di uccidere e terrorizzare le persone in un modo così ignobile», ha anche detto.
«La Russia ha deliberatamente colpito un obiettivo civile nel bel mezzo di un fine settimana», ha affermato, dal canto suo, il ministro dell’Interno ucraino, Ihor Klymenko. Poco dopo, stando a quanto riportato dall’agenzia di stampa Ukrinform, il sindaco di Kharkiv, Ihor Terekhov, ha reso noto che i russi avevano colpito anche il parco centrale della città. Quando La Verità è andata in stampa, il primo cittadino riferiva che la presenza di eventuali vittime e danni era ancora in fase di accertamento. Le autorità russe hanno nel frattempo accusato Kiev di aver condotto un raid contro la regione di Belgorod, uccidendo due persone.
Se ieri Mosca ha annunciato di aver conquistato un villaggio nel Donetsk, è comunque l’oblast di Kharkiv che resta al centro dell’attenzione. Alcune ore prima dei raid russi, Zelensky aveva reso noto che le forze ucraine avevano ripreso il controllo della parte settentrionale della regione, in cui le truppe di Mosca erano penetrate a inizio maggio. Inoltre, secondo l’intelligence britannica, il ministero della Difesa russo avrebbe recentemente schierato in loco gli Africa Corps, che «consistono di oltre 2.000 soldati e ufficiali regolari, così come di mercenari con esperienza, molti dei quali hanno precedentemente servito nel Wagner Group». I servizi di Londra hanno anche sottolineato che «i distaccamenti degli Africa Corps molto probabilmente sono stati in precedenza schierati in Siria, Libia, Burkina Faso e Niger».
Ricordiamo d’altronde che Mosca continua a esercitare una notevole presa sull’Est libico, mentre parte consistente del Sahel si è progressivamente inserito nell’orbita russa. Era la fine dell’anno scorso, quando il vecchio Wagner Group, ritrovatosi decapitato dopo la morte di Yevgeny Prigozhin, veniva sottoposto a un più rigido controllo del governo russo, finendo assimilato agli Africa Corps. Quegli stessi Africa Corps che, secondo l’Institute for the study of war, sono stati inviati in Niger all’inizio di aprile. Vale forse la pena di rammentare che, a settembre, proprio il Niger, insieme al Burkina Faso e al Mali, siglò un patto di sicurezza che prevedeva l’assistenza militare reciproca: uno schiaffo in piena regola alla Francia e al G5 Sahel.
Tutto questo pone nuovamente in luce la necessità di un urgente rafforzamento del fianco meridionale della Nato. La Russia non sta infatti soltanto rafforzando la sua longa manus sul Sahel, ma sta anche consolidando i propri già stretti legami con quell’Iran che, oltre a fornire droni a Mosca nell’ambito dell’invasione dell’Ucraina, è un attore centrale (e assai pericoloso) nell’attuale crisi mediorientale. D’altronde, oltre a essere i principali finanziatori di Hamas, gli ayatollah stanno rafforzando la propria influenza sul Sahel: a partire dal Niger, con cui il regime khomeinista sta trattando per l’acquisto di 300 tonnellate di uranio. Guarda caso, giusto ieri, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha confermato la volontà da parte di Mosca e Teheran di avviare un «partenariato strategico».
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Escalation di Jens Stoltenberg che autorizza Volodymyr Zelensky a usare le armi occidentali sul territorio della Russia. Antonio Tajani frena, Matteo Salvini si oppone, Joe Biden nicchia.Raid russo su un centro commerciale: le autorità condannano, due i morti. Vladimir Putin intanto invia sul campo gli Africa Corps.Lo speciale contiene due articoli.Il conflitto in Ucraina sembra sempre più vicino al punto di non ritorno. Alcuni Paesi della Nato nelle ultime settimane hanno alzato i toni delle dichiarazioni, a cominciare dalla Francia. Adesso però è il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, a parlare. «Penso sia giunto il tempo per gli alleati di eliminare molte delle restrizioni imposte sull’uso delle armi donate all’Ucraina, perché specialmente adesso, in un momento in cui si combatte a Kharkiv, vicino al confine, negare all’Ucraina la possibilità di usare queste armi contro obiettivi militari legittimi sul territorio russo renderebbe molto difficile per loro difendersi».Dall’inizio della guerra a oggi, l’Occidente ha sempre sostenuto e appoggiato l’Ucraina a difendersi sul proprio territorio con un monito: vietare l’escalation per evitare la terza guerra mondiale. Le parole del più alto vertice dell’Alleanza atlantica potrebbero cambiare tutto e vanificare mesi di sforzi. «Dobbiamo ricordare di cosa si tratta. Si tratta di una guerra di aggressione della Russia all’Ucraina. Kiev ha diritto a difendersi e questo include anche colpire obiettivi in territorio russo», ha insistito Stoltenberg in un’intervista rilasciata all’Economist. «Alcuni alleati hanno già allentato queste restrizioni permettendo l’uso delle loro armi contro obiettivi militari in Ucraina. Io credo che sia giunto il tempo di considerare anche questo», ha precisato. In un’altra intervista, rilasciata questa volta al giornale tedesco Welt am Sonntag, Stoltenberg aggiusta un po’ il tiro e aggiunge: «Non ci sono piani per inviare truppe Nato in Ucraina perché l’Alleanza non entrerà nel conflitto». Le sue parole fanno il giro del mondo ed è Mosca a reagire per prima. «Tutte le delegazioni invitate alla conferenza di pace in Svizzera sull’Ucraina dovrebbero essere consapevoli della posizione del segretario generale della Nato», ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. «I segnali che arrivano dalle autorità statunitensi sono assolutamente chiari. Washington non vuole la pace in Europa», l’accusa dell’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov. Ci pensa il presidente Usa, Joe Biden, ad abbassare i toni: «Non ci sono soldati americani in guerra in Ucraina. Sono determinato a mantenere la situazione così».Le parole di Stoltenberg stupiscono anche i vertici del governo italiano. «Noi lavoriamo per la pace», ha detto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. «Siamo parte della Nato ma ogni decisione deve presa in modo collegiale». Poi ribadisce: «Noi non manderemo un militare italiano in Ucraina e le armi, gli strumenti militari inviati dall’Italia vengono usati all’interno dell’Ucraina». Più severa la reazione del vicepremier Matteo Salvini: «L’Italia non è in guerra con nessuno e se è stato giusto aiutare militarmente l’Ucraina, allo stesso tempo non se ne parla nemmeno di togliere il divieto a Kiev di colpire obiettivi militari in Russia, così come ribadisco che la Lega è contraria a inviare anche un solo soldato a combattere in Ucraina. Noi vogliamo la pace non l’anticamera della terza guerra mondiale». Sempre dalla Lega è il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, a rincarare la dose: «A Bruxelles parlano di vertice per la pace ma pensano alla guerra. Inebriati come sono dal furore bellicista rinnegano la stessa Costituzione europea, che nei suoi principi fondamentali si prefigge di promuovere la pace di fronte alle controversie internazionali». Per Romeo «la priorità è intensificare il lavoro diplomatico per arrivare a una tregua. Chi non comprende questo ci sta portando verso una guerra nucleare e sempre più vicini al punto di non ritorno». E mentre il G7 ha raggiunto un accordo sull’obiettivo di sostenere l’Ucraina anche nel 2025, al confine Nato, da tempo c’è già movimento. Polonia, Finlandia e Norvegia hanno concordato di creare un «muro di droni» a protezione dei loro confini. Ad annunciarlo è il ministro dell’Interno della Lituania, Agnè Bilotaitè: «Si tratta di qualcosa di completamente nuovo: droni schierati lungo la frontiera con la Russia, dalla Norvegia alla Polonia, il cui scopo sarà quello di proteggere il nostro confine anche con altre tecnologie. Non solo infrastrutture fisiche e sistemi di sorveglianza, ma anche droni e altre tecnologie che ci permetteranno di proteggerci». Per il resto le armi continuano a scarseggiare. Anche la Germania, tra i più grandi fornitori di Kiev, comincia a non avere più risorse da inviare. Il cancelliere, Olaf Scholz, dopo aver annunciato la spedizione di una nuova fornitura di carri armati, mezzi di artiglieria e droni, ha avvertito: «La Germania ha raggiunto il limite di ciò che è possibile fornire all’Ucraina in termini di aiuti militari». Nel frattempo il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che deve ringraziare l’Occidente per aver respinto Mosca fin qui, prosegue con le stilettate nei confronti dei suoi stessi alleati. «Chiesi al presidente Usa, Joe Biden, e all’Unione europea di imporre sanzioni contro il Cremlino, Vladimir Putin, il suo entourage, il settore energetico russo prima dell’invasione, ma nessuno ci ha sentito. Tutti dissero detto no: prima i russi devono fare un passo, poi noi faremo i passi corrispondenti. E qual è il risultato? Di conseguenza, le grandi perdite umane sono irreparabili».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nato-sdogana-bombe-contro-mosca-2668377594.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="raid-russo-su-un-centro-commerciale-e-a-kharkiv-spunta-la-nuova-wagner" data-post-id="2668377594" data-published-at="1716675901" data-use-pagination="False"> Raid russo su un centro commerciale. E a Kharkiv spunta la nuova Wagner Doppio attacco russo a Kharkiv. Ieri, un raid di Mosca ha colpito un ipermercato nella città: stando alle autorità ucraine, si sono registrati almeno due morti e 35 feriti, anche se si teme che il numero delle vittime possa salire, visto che, secondo Volodymyr Zelensky, nel megastore ci sarebbero state più di 200 persone. «Se l’Ucraina avesse avuto sufficienti sistemi di difesa aerea e moderni aerei da combattimento, attacchi russi come questo sarebbero stati impossibili», ha aggiunto il presidente ucraino. «Questo attacco a Kharkiv è un’altra manifestazione della follia russa, non c’è altro modo di dirlo. Solo pazzi come Vladimir Putin sono capaci di uccidere e terrorizzare le persone in un modo così ignobile», ha anche detto. «La Russia ha deliberatamente colpito un obiettivo civile nel bel mezzo di un fine settimana», ha affermato, dal canto suo, il ministro dell’Interno ucraino, Ihor Klymenko. Poco dopo, stando a quanto riportato dall’agenzia di stampa Ukrinform, il sindaco di Kharkiv, Ihor Terekhov, ha reso noto che i russi avevano colpito anche il parco centrale della città. Quando La Verità è andata in stampa, il primo cittadino riferiva che la presenza di eventuali vittime e danni era ancora in fase di accertamento. Le autorità russe hanno nel frattempo accusato Kiev di aver condotto un raid contro la regione di Belgorod, uccidendo due persone. Se ieri Mosca ha annunciato di aver conquistato un villaggio nel Donetsk, è comunque l’oblast di Kharkiv che resta al centro dell’attenzione. Alcune ore prima dei raid russi, Zelensky aveva reso noto che le forze ucraine avevano ripreso il controllo della parte settentrionale della regione, in cui le truppe di Mosca erano penetrate a inizio maggio. Inoltre, secondo l’intelligence britannica, il ministero della Difesa russo avrebbe recentemente schierato in loco gli Africa Corps, che «consistono di oltre 2.000 soldati e ufficiali regolari, così come di mercenari con esperienza, molti dei quali hanno precedentemente servito nel Wagner Group». I servizi di Londra hanno anche sottolineato che «i distaccamenti degli Africa Corps molto probabilmente sono stati in precedenza schierati in Siria, Libia, Burkina Faso e Niger». Ricordiamo d’altronde che Mosca continua a esercitare una notevole presa sull’Est libico, mentre parte consistente del Sahel si è progressivamente inserito nell’orbita russa. Era la fine dell’anno scorso, quando il vecchio Wagner Group, ritrovatosi decapitato dopo la morte di Yevgeny Prigozhin, veniva sottoposto a un più rigido controllo del governo russo, finendo assimilato agli Africa Corps. Quegli stessi Africa Corps che, secondo l’Institute for the study of war, sono stati inviati in Niger all’inizio di aprile. Vale forse la pena di rammentare che, a settembre, proprio il Niger, insieme al Burkina Faso e al Mali, siglò un patto di sicurezza che prevedeva l’assistenza militare reciproca: uno schiaffo in piena regola alla Francia e al G5 Sahel. Tutto questo pone nuovamente in luce la necessità di un urgente rafforzamento del fianco meridionale della Nato. La Russia non sta infatti soltanto rafforzando la sua longa manus sul Sahel, ma sta anche consolidando i propri già stretti legami con quell’Iran che, oltre a fornire droni a Mosca nell’ambito dell’invasione dell’Ucraina, è un attore centrale (e assai pericoloso) nell’attuale crisi mediorientale. D’altronde, oltre a essere i principali finanziatori di Hamas, gli ayatollah stanno rafforzando la propria influenza sul Sahel: a partire dal Niger, con cui il regime khomeinista sta trattando per l’acquisto di 300 tonnellate di uranio. Guarda caso, giusto ieri, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha confermato la volontà da parte di Mosca e Teheran di avviare un «partenariato strategico».
Il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, risponde al Maestro Riccardo Muti e si impegna a lavorare con il ministero degli Esteri per avviare contatti ai più alti livelli con la Francia per riportare a Firenze le spoglie del grande compositore Cherubini.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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