2022-04-30
«Morto perché gli tolsero il casco»
Giorgio Scuotto, 81 anni, malato di Covid, perse la vita in ospedale nel marzo 2020. I figli accusano i medici: «Preferirono salvare un altro». Ma la Procura chiede di archiviare.Era stata una verità sussurrata e negata. Era stata fonte di polemiche e poi rimossa. Al culmine della prima ondata di pandemia, nel 2020, girava voce che negli ospedali - sovraffollati di pazienti ricoverati in gravi condizioni per il Covid - la limitata disponibilità di strumenti di terapia intensiva, i «salvavita», imponesse scelte drammatiche. E che i medici spesso fossero costretti a scegliere tra salvare un malato anziano o uno più giovane. Un processo, oggi, riaccende i dubbi e le polemiche di due anni fa, e lo fa con la dura concretezza di una storia vera: quella di Giorgio Scuotto, 81 anni, morto di Covid il 19 marzo 2020 all’Ospedale San Paolo di Milano. I suoi figli hanno denunciato alla Procura una serie di gravi anomalie e incongruenze, ipotizzando il reato di omicidio colposo a carico dei medici della struttura. La vicenda comincia all’alba del 18 marzo di due anni fa, quando l’anziano paziente, dopo otto giorni di febbre alta, viene portato in ambulanza al San Paolo. Scuotto respira con affanno e ha un livello di saturazione polmonare inferiore al 92%, così gli viene subito fatto indossare il casco Cpap: un sistema di ventilazione assistita non invasivo, il passo che tecnicamente precede l’intubazione. Sono le 6,15. La cartella clinica consegnata ai figli indica a quel punto «un rapido miglioramento della saturimetria», con il livello dell’ossigeno che risale velocemente sopra il 92%. Trascorre meno di mezz’ora, e una dottoressa annota che la saturazione polmonare è tornata al 98%, anche se il paziente continua a respirare con affanno. Quel che la famiglia non si spiega avviene poco dopo le 13, quando la stessa dottoressa toglie il casco al signor Scuotto. Già alle 14,52 un altro medico annota che il paziente è tornato in «dispnea in addensamento parenchimale»: respira male, insomma, e il suo tessuto polmonare risulta più denso perché l’aria non riesce più a riempirlo bene. Nelle ore successive la situazione peggiora. Poiché le visite sono proibite per la pandemia, alle 16,53 un terzo medico avverte telefonicamente i familiari che il signor Scuotto purtroppo «è in gravi condizioni». Alle 17,05 nella cartella clinica si legge che «si è verificato un episodio di desaturazione fino al 68%». Secondo la denuncia, da quel momento e in modo del tutto anomalo, il referto dell’ospedale non riporta più alcuna annotazione fino alle 23, quando il signor Scuotto viene posto in «osservazione breve intensiva», cioè l’anticamera della terapia intensiva. E un altro vuoto di refertazione dura altre sei ore, fino alle 5,18 della mattina successiva, quando un medico attesta una «grave insufficienza respiratoria», ma non prescrive nulla. Né farmaci, né - soprattutto - una nuova e urgente applicazione del casco Cpap. Sostiene Daria Pesce, legale della famiglia Scuotto: «Il nostro concreto sospetto è che quel casco fosse stato assegnato a un altro paziente di Covid, in difficoltà respiratorie e assai probabilmente più giovane». Sta di fatto che alle 5,25 del 19 marzo 2020 viene «constatato il decesso» del signor Scuotto. Nella denuncia, i suoi figli accusano l’ospedale di avere sostanzialmente abbandonato il padre. Segnalano falle e incongruenze nella cartella clinica. Chiedono perché mai vi si legga che alle ore 17 del 18 marzo gli sia stata somministrata morfina, notoriamente controindicata per il Covid. Contestano come «assolutamente falsa» una diagnosi di pregressa ipertensione. Sottolineano anche l’assurdità di un referto radiologico, una lastra al torace eseguita la mattina del 18 marzo, dove si legge che «la base polmonare destra non è valutabile per sovrapposizione della mano del paziente»: il medico non solo non si sarebbe accorto di quel movimento, ma non ha nemmeno provveduto a ripetere l’esame. Rilevano serie inesattezze anche nel certificato di morte.La loro denuncia è stata presentata il 26 novembre 2020, e il 10 dicembre la Procura di Milano ha aperto un fascicolo a carico di ignoti. Ma in soli cinque giorni - il 15 dicembre - il pubblico ministero Mauro Clerici ha chiesto l’archiviazione del caso. In meno di due pagine, il pm scrive che Scuotto «è stato sottoposto a cure adeguate», che «nei primi venti giorni del marzo 2020 non esistevano protocolli consolidati di cure per le infezioni da Covid» e che «le condizioni delle strutture ospedaliere lombarde erano all’epoca di totale stress». L’avvocato Pesce ha fatto opposizione: «Alla Procura di Milano abbiamo chiesto di indagare», accusa con durezza, «e per capire che cosa sia accaduto crediamo che il pm avrebbe dovuto almeno interrogare gli operatori sanitari. Solo se avesse riscontrato la falsità di quanto abbiamo denunciato avrebbe potuto chiedere l’archiviazione. Invece abbiamo assistito a una pressoché totale assenza di attività investigativa». L’Ospedale San Paolo, cui La Verità ha chiesto un commento su quanto è accaduto, ha deciso di non rispondere. La parola sul caso Scuotto, ora, passa al giudice delle indagini preliminari, Roberto Crepaldi.
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