2023-03-01
«I nostri cari morti sedati e legati al letto, soli nei reparti Covid»
Le famiglie delle vittime chiedono giustizia per quanto accadeva negli ospedali: «Dovevi metterti il casco anche senza sintomi».Trascurata l’officina farmaceutica di Stato che fornisce le medicine troppo care per le società private.Lo speciale contiene due articoli.Durante la pandemia, negli ospedali diventati bunker, è successo che tanti malati di Covid siano stati legati al letto contro la loro volontà, che sia stato tolto loro il cellulare, rimasto poi perennemente spento, mentre chiamavano disperati i parenti chiedendo di poter tornare a casa; troppi sono stati sedati con morfina e oppiacei, pur non essendo in fase terminale; troppi sono entrati in ambulanza con le loro gambe, con una saturazione buona, spesso neppure con una polmonite, neppure in fase iniziale, però sono morti, di Covid, in quegli ospedali e dopo settimane, o addirittura un mese... Come se il Covid avesse sancito che il malato quando entrava in ospedale perdeva i diritti del cittadino e anche la dignità della persona; come se il Covid avesse fatto perdere a questi poveretti il diritto di poter vigilare sull’assistenza medica e sulle terapie che stavano ricevendo, o lo avesse fatto perdere, questo diritto, a chi poteva vigilare per loro, ovvero i propri cari, zittiti dai medici a fronte di ogni appunto, dubbio, incredulità... Come se col Covid fossero diventati impossibili gli errori medici; talvolta i crimini dei medici; come se fosse obbligatorio fidarsi di quei medici senza volto che spesso arrivavano in quei reparti già nel caos alle prime armi, e ancora, spesso eseguivano senza fare alcuna valutazione protocolli sbagliati... Ora, ci sono 80 famiglie che di tutto questo chiedono al governo giustizia. Vogliono essere ascoltati in Parlamento dalla futura Commissione d’inchiesta affinché sia fatta luce sulle morti dei loro cari. Hanno deciso di manifestare davanti al ministero della Salute la mattina del 7 marzo e qui riportiamo alcune storie di queste famiglie che si sono unite nel Comitato Familiari vittime del Covid. La storia di Gianni Caon, di Gorizia, è emblematica: morto di Covid a 62 anni, nessuna patologia, arrivato in ospedale «per un controllo, con la saturazione ottima, a 99, e dopo un giorno e mezzo lo hanno intubato dicendo che era gravissimo», racconta la moglie, piangendo. «E dire che qualche ora prima mi avevano detto che mangiava da solo... dopo tre giorni mi hanno telefonato dicendo che lo avevano estubato perché respirava da solo, e che però lui aveva iniziato a dire che voleva tornare a casa e allora avevano dovuto reintubarlo perché si agitava troppo ed è stato atroce... Io non riesco a rassegnarmi, mio marito è morto il 5 febbraio 2022, ed era entrato in ospedale il 10 gennaio, un mese prima, con le sue gambe, perché aveva il Covid e da un giorno gli era venuta febbre alta... Aveva la polmonite ma in ospedale non l’hanno curato, l’hanno ammazzato», conclude la signora, Ornella Bovin. Il povero Berardo Gualini, invece, 79 anni, era entrato in ospedale Covid da asintomatico e ne è uscito anche lui cosparso di candeggina, in un sacco nero. «È successo a Teramo, era il 10 luglio del 2021 quando mio papà manifestò astenia e io allora, siccome lui aveva un’insufficienza renale e non poteva assumere antinfiammatori per bocca, decisi di accompagnarlo in ospedale per farlo controllare», racconta sua figlia, Sabrina Gualini. «Da quel momento in poi non l’ho visto se non qualche ora dopo, un attimo, su una sedia a rotelle, da lontano. Non aveva la polmonite. Non aveva alcun sintomo del Covid né altra sintomatologia acuta. Io chiesi la terapia anticorpale in day hospital, perché era prevista questa possibilità e lui rientrava nei requisiti, ma mi risposero che era meglio ricoverarlo per tenerlo monitorato e fargli la terapia specifica, dopo di che è sparito, era senza cellulare. Non ho neanche potuto abbracciarlo per l’ultima volta perché mi hanno urlato che non potevo toccarlo perché era positivo. Così mio padre, che parlava e camminava, anche se aveva qualche difficoltà motoria, è stato immediatamente allettato senza motivo; gli è stato messo il catetere, flebo e occhialini per la somministrazione di due litri di ossigeno e gli è stato somministrato cortisone anche se gli esami radiologici e clinici non ne indicavano la necessità. Non gli hanno fatto alcuna terapia antivirale. Dopo la morte, aveva le braccia gonfie di edemi. Io che in quei giorni chiamavo disperata per avere notizie di papà sono stata insultata dal primario che mi diceva che era colpa mia perché mio padre non era vaccinato».Anche la storia Antonio Stellabotte, 77 anni, di Monza, legato mani e piedi perché si agitava, lascia senza fiato. «Entrato in ospedale con sintomi influenzali, senza febbre, ricoverato per esami. Il giorno dopo ero d’accordo che al mattino seguente lo avrebbero dimesso quando la dottoressa mi dice che siccome aveva la febbre non lo potevano dimettere», racconta sua figlia, Elisabetta. «Gli viene data Tachipirina, antibiotico, il Remdesivir che era già sconsigliato dall’Oms e viene subito trattato con ossigeno. Dopo tre giorni mi dicono che lo avevano dovuto “contenere” legandolo mani e piedi. Io ero disperata, ho insistito per farlo slegare. Mio padre era lucidissimo. Finché siamo riusciti a parlarci ci diceva che voleva tornare a casa. Lo sento finché non mi dicono che gli era stato messo il casco, poi rimosso - scopro leggendo la cartella - per “dubbio funzionale”. La mattina dopo alle 11 mi chiama la dottoressa e mi dice che non c’è più nulla da fare. Alle 12 sento mio padre che è lucidissimo e dice che vuole tornare a casa, finché viene interrotta la comunicazione dall’infermiere che dice che deve rimettergli il casco. Mi dice che mi avrebbe richiamato la dottoressa, che invece non mi chiama. Il giorno dopo mi dicono che è finita... che ci sono solo cure palliative. Dico che non do il consenso alle cure palliative e la dottoressa mi risponde che non è necessario il consenso… e mi viene concessa una videochiamata da un minuto e vi assicuro che mio padre non era morente... Dopo si è interrotta la chiamata... Chiamo nel pomeriggio e mi dicono che stava dormendo ed era probabile che nella notte si sarebbe spento... e io stavo impazzendo e alla fine la dottoressa mi ha detto che se la mattina era ancora vivo me lo avrebbe fatto vedere e alla fine l’ho visto, aveva il casco attaccato con lo scotch…». Liliana Salvini, invece, 70 anni, di Brescia, ipertesa e sovrappeso, è morta dopo quasi un mese di ospedale, dove era «entrata per un controllo», racconta la figlia, Cristina Fasani, «con saturazione buona, a 96. Le hanno dato farmaci che l’hanno uccisa. Cardiotossici, immunosoppressori. In ospedale si è presa tutte le infezioni possibili». Ci sono altre testimonianze, di persone che non fanno parte del comitato ma i drammi sono gli stessi, come nel caso del papà di Nicoletta Bosica, di Bergamo, entrato in ospedale con tampone negativo, trovato a terra dalla figlia, caduto dal letto in reparto e nessuno che se ne era accorto; o come il padre di Anastasia Ziu, di Genova, entrato in pronto soccorso con tampone negativo, anche lui legato al letto e alla fine, alla figlia che diceva alla dottoressa di non autorizzare la morfina è stata anche negata l’ultima videochiamata. Storie spaventose. Verosimilmente quelle arrivate a chi scrive sono solo una minima parte di un numero molto più ampio.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/morti-covid-ospedali-2659482241.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="leccellenza-farmaceutica-nazionale-e-senza-fondi-e-riduce-la-produzione" data-post-id="2659482241" data-published-at="1677672058" data-use-pagination="False"> L’eccellenza farmaceutica nazionale è senza fondi e riduce la produzione Dopo gli sconquassi provocati dalle restrizioni anti Covid, la ripresa economica dell’Italia dipende dai fondi del Pnrr. O, almeno, così ci hanno detto. Tuttavia, osservando la ripartizione delle risorse nei vari settori, salta subito all’occhio un paradosso: se la parte del leone la fanno digitalizzazione e transizione ecologica, la salute rappresenta invece la voce di spesa più bassa, addirittura dietro all’oggetto misterioso «inclusione e coesione». Insomma, a livello teorico dovremmo preparare le nostre strutture mediche a una presunta «era delle pandemie» (come specificato da Ursula von der Leyen due anni fa esatti), ma a livello pratico la sanità rimane, ancora una volta, l’ultima ruota del carro. Per osservare gli effetti di cotanta lungimiranza, basta leggere l’allarme lanciato dalla rappresentanza sindacale dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, che denuncia la natura obsoleta di molte strutture e la carenza di personale. Quando parliamo dello stabilimento di Firenze, stiamo parlando dell’unica officina farmaceutica ancora di proprietà dello Stato. In altri termini, è l’unica industria che provvede a produrre quei farmaci essenziali che il settore privato non intende commercializzare perché li ritiene poco redditizi. E pensare che, ai tempi del Covid, lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze era ovviamente diventato strategico, anche perché si occupava della produzione di anticorpi monoclonali. Un settore, questo, a cui sono stati destinati fondi consistenti. Ma, per il resto, la struttura si ritrova in grave sofferenza. Ecco quindi che la Rsu dello stabilimento, attraverso il suo portavoce Umberto Fragassi, ha denunciato pubblicamente che lo stato deplorevole in cui versa l’istituto «sta determinando lo stop forzato delle linee di approvvigionamento dei cosiddetti farmaci orfani», cioè «quelli destinati a curare alcune malattie rare», nonché la produzione della cannabis terapeutica. Tutto ciò, ha spiegato la Rsu, «determina inevitabilmente gravi ripercussioni sulle legittime richieste di tutti i pazienti che necessitano dei farmaci salvavita che l’Istituto non riesce più ad assicurare, probabilmente a causa di un disegno politico, in atto già da diverso tempo. Tale strategia ha creato, fatalmente, una situazione di estremo disagio nel personale civile, consapevole di non riuscire più ad essere interlocutore di tutti coloro che consideravano l’Istituto la loro unica àncora di salvezza». Ecco perché la rappresentanza sindacale ha accolto con favore l’interpellanza parlamentare di Andrea Quartini, capogruppo del Movimento 5 Stelle in Commissione affari sociali alla Camera, il quale ha sottolineato che «la pandemia ci ha mostrato l’importanza, per il sistema sanitario pubblico, di disporre di farmaci emergenziali e di quelli che, poco redditizi, vengono dismessi dalla produzione o sostituiti». Queste difficoltà sono state confermate anche dal direttore dello stabilimento, il colonnello Gabriele Picchioni, che ha però ribadito la volontà di valorizzare al meglio l’azienda: «Non c’è alcun disimpegno», ha puntualizzato Picchioni, «al contrario ci sono state delle ristrutturazioni molto importanti, con l’obiettivo di rafforzare lo Stabilimento, che hanno ovviamente determinato qualche blocco alla produzione. Ma ad esempio, se ora non produciamo la penicillamina, la stiamo importando».