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2019-04-13
Moduli, fatture e impronte dentarie. Così si fabbrica la morte in provetta
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«Gentile signora Giordano…». L'incipit delle lettere sequestrate dalla Procura di Catania è sempre lo stesso. Così come il mittente: la clinica svizzera Dignitas, specializzata in eutanasia. Anche il destinatario non cambia: Alessandra Giordano, 46 anni, morta di morte assistita il 27 marzo 2019. I magistrati, ha rivelato La Verità, indagano per istigazione al suicidio. Tra gli atti sequestrati è finito pure il lugubre carteggio tra la Dignitas e Alessandra. Un altro pezzo del puzzle investigativo. Mentre i pm preparano nuove, clamorose, mosse. Il prossimo lunedì sarà depositato il ricorso contro la decisione del gip di non convalidare il sequestro preventivo dei beni della donna. Per i magistrati, invece, il timore resta fondato: potrebbe aver fatto testamento «a favore della clinica o di terzi». La Procura poi è pronta a chiedere una consulenza tecnica: per approfondire il quadro psichiatrico e neurologico dell'insegnante. Alessandra soffriva di depressione e della sindrome di Eagle. Ma non era una malata terminale. Qualcuno l'ha spinta? I risultati della perizia saranno incrociati con i documenti sequestrati. A partire dalle comunicazioni inviate dalla Dignitas. Burocratiche e dolorose, raccontano come si muore per eutanasia.
La prima lettera è del 3 maggio 2018. Contiene una serie di indicazioni. La prima: mandare una richiesta, meglio se scritta a macchina, per avviare «la fase di preparazione dell'accompagnamento alla morte». Nella domanda, Alessandra dovrà spiegare le sue condizioni di salute: «Molto brevemente», però. Stringatezza a cui la struttura sembra tenere molto: «La preghiamo di non aggiungere altre informazioni, che ci potrà comunicare separatamente». Insomma: niente dettagli. Almeno per iscritto. Punto secondo: serve un'autobiografia. «Per dare a Dignitas un quadro della situazione personale e familiare e aiutare i medici a valutare la domanda». La terza istanza è un chiarimento. Alessandra ha spedito un referto, con la diagnosi della sindrome di Eagle cronica. Lo specialista spiega però «che dopo tre giorni di trattamento infiltrativo, il dolore le è passato del tutto». La struttura chiede allora di certificare «che il dolore purtroppo è tornato o riapparirà imperterrito». Richiesta che sembrerebbe avere uno scopo preciso: mantenere inalterata la gravità della diagnosi.
Passano più di tre mesi. Il 24 agosto la Dignitas manda un'altra missiva. Anche questa sembra finalizzata a evitare grane. Le autorità svizzere, si legge, hanno difficoltà a identificare i deceduti, abitualmente cremati, con il passaporto o la carta d'identità. Meglio evitare rogatorie e parenti inopportuni. E dunque: bisogna trasmettere «uno schema odontoiatrico».
Risvolti macabri abbondano pure nella lettera del 28 agosto 2018. Premessa: dal 1998 la Dignitas ha concluso più di 1.700 suicidi assistiti, «in modo dolce, sicuro e indolore». Poi, si entra nel dettaglio: «Dai due ai cinque minuti dopo aver ingerito la medicina letale, Pentobarbarital di sodio, ci si addormenta». Segue totale incoscienza: una sorta di anestesia totale. La respirazione quindi si fa debole, fino a cessare. «Come conseguenza, porta a un processo di morte naturale». Proprio così: «Morte naturale». Tra sonno e trapasso possono volerci da 20 minuti a un'ora. Alla lettera è allegata una delega da firmare. Che vieta a chiunque, autorità o terzi, di intervenire. Segue ennesima procura: per richiedere il sodio pentorbital. E un'altra comunicazione, in cui la clinica annuncia ad Alessandra che ha ottenuto «luce verde provvisoria». Ovvero: «Un medico con cui collaboriamo è in principio disposto a prescriverle la ricetta».
Otto gennaio 2019. Stavolta l'oggetto della missiva è: «Date importanti per l'accompagnamento alla morte volontaria». Segue il dettaglio del programma, con una prosa che ricorda quella dei viaggi organizzati. Martedì: sistemazione in albergo e primo appuntamento. Mercoledì: incontro con il dottore. Giovedì: arrivo nell'appartamento di Dignitas e conoscenza degli accompagnatori. Il luogo designato è una casetta di Pfäffikon, vicino Zurigo, a bordo di un piccolo lago. Alla lettera viene allegata una fattura di 7.000 franchi. Si aggiungono ai 4.000 già versati a maggio 2018, per avere la «luce verde». Totale: quasi 10.000 euro. La nuova parcella dettaglia le singole voci. Visita medica:
1.000 franchi. Accompagnamento alla morte volontaria: 2.500. Costi per le esequie, inclusa cremazione: altri 2.500. Varie ed eventuali: 500. Iva inclusa fanno, appunto, 7.000 franchi. Efficienti e risparmiosi, gli svizzeri suggeriscono ai morituri perfino come ottenere qualche risparmio. Per importi bassi, meglio Paypal: «Ha spese molto più convenienti di un pagamento bancario. La preghiamo quindi di elevare il bonifico del 5% per coprire i costi». Non si accettano assegni: «Poiché l'incasso causa spese molto elevate». Invece, «un'alternativa interessante per evitare spese elevate è Transferwise».
Quel pagamento viene però rinviato di alcuni mesi. I familiari scoprono gli intenti Alessandra e la fermano. L'insegnante, come ha raccontato il fratello Massimiliano alla Verità, viene ricoverata il 19 gennaio 2019 a Paternò. Diagnosi: «Depressione maggiore con manie psicotiche». La signora è dimessa più di un mese dopo. All'insaputa di tutti, torna sui suoi passi. Il 25 marzo prende un aereo per Zurigo. I familiari però scoprono i suoi intenti. Massimiliano scrive una diffida alla clinica, allegando l'ultimo certificato medico: «Mia sorella non si trova nelle facoltà mentali, allo stato attuale, di prendere una simile decisione. Ci riserviamo, qualora doveste procedere, ad adire le vie legali». Un tasto su cui continua a battere l'agguerrito pool di avvocati che rappresenta la famiglia della donna: Giuseppe Camonita, Marco Tringali, Francesco Pantaleo, Anna Maria Parisi. Perché quelle parole disperate si perdono nel vento. La Dignitas non risponde. Il 27 marzo Alessandra raggiunge la casetta sul lago. Nel mentre, Massimiliano e la sorella Barbara arrivano in Svizzera. Ma è troppo tardi. «La gentile signora Giordano» è morta. Senza nemmeno immaginare lo strepitio del suo ultimo gesto.
Antonio Rossitto
Exit ora nega i contatti con la donna Ma le carte mostrano il contrario
«Noi i depressi non li prendiamo nemmeno». Così Emilio Coveri, il presidente dell'associazione pro eutanasia Exit, ha risposto a Giuseppe Cruciani della Zanzara, che gli chiedeva se Exit c'entrasse qualcosa con la vicenda di Alessandra Giordano. La quarantasettenne di Paternò (Catania) era andata in Svizzera per ottenere il suicidio assistito. Non aveva il cancro, non era tetraplegica. Era depressa e afflitta dai dolori della sindrome di Eagle, una nevralgia che colpisce i legamenti tra collo e cranio. Patologia che si può curare con un intervento, come ha spiegato alla Verità il chirurgo Pier Francesco Nocini.
Cattolica
Dunque, il leader di Exit nega ogni legame con la donna. Eppure, nel numero di gennaio 2018 della rivista dell'associazione, Coveri aveva raccontato di un suo lungo colloquio telefonico con una certa Alessandra di Paternò, avvenuto il 24 dicembre 2017. Scrive Coveri che la sua interlocutrice «incomincia subito con il dirmi che è cattolica ma che ha una malattia, che è sola e che i suoi parenti non accettano che lei voglia andare a morire in Svizzera». Coveri sembra stizzito dal riferimento al credo di Alessandra: «Quando mi dicono che uno è cattolico, io rispondo subito innervosito che io invece sono juventino!». Alla fine della conversazione, il numero uno di Exit si sente «felice». Perché avverte «che ancora una volta la mia teoria, quella che la vita è nostra e non è di nessuno, tanto meno di quel Dio che vuole farci soffrire inutilmente, ha prevalso». Ergo, a Coveri non sembrava interessare tanto il dramma interiore di un desiderio di morte che si scontrava con le convinzioni religiose di Alessandra. A lui interessava aver provato la sua «teoria»: che Dio si sbaglia.
L'articolo è stato acquisito dalla Procura di Catania, che sta conducendo un'inchiesta per induzione al suicidio, per ora senza indagati. Gli inquirenti credono che quell'Alessandra di Paternò sia proprio la Giordano. Ovviamente, ciò non significa che Exit c'entri con il viaggio, anzi, i viaggi della donna in Svizzera (come rivelato da Antonio Rossitto, un primo tentativo di suicidio assistito della quarantasettenne era stato sventato grazie all'intervento dei suoi parenti). Ma che Alessandra fosse in contatto con l'associazione di Coveri lo prova pure la tessera da socio ordinario, la A4638, che Exit ha rilasciato alla Giordano il 5 febbraio 2018 e che è stata sequestrata a casa sua.
D'altro canto, ai microfoni di Cruciani e David Parenzo, il presidente di Exit ha affermato a chiare lettere che lui, l'eutanasia, la concederebbe a chiunque. E «senza nemmeno guardare le cartelle cliniche». E perché? Per evitare che uno si suicidi per la disperazione di non potersi suicidare. Un apparente paradosso (se proprio ti devi suicidare, meglio che tu lo faccia per migliaia di euro in Svizzera, anziché buttandoti sotto un treno), su cui insiste, nelle sue brochure, anche la clinica Dignitas. Ovvero, quella in cui è morta Alessandra Giordano e con la quale, nel suo statuto, Exit dichiara di aver stipulato nel 2007 «uno specifico accordo per l'assistenza e l'accompagnamento alla morte volontaria assistita per una persona che ne faccia richiesta».
E pensare che persino Marco Cappato, raggiunto dalla Verità, aveva detto che il caso dei depressi non può essere equiparato a quello, per esempio, di Dj Fabo. Infatti, aveva precisato, «la nostra proposta di legge per l'eutanasia libera non include i depressi». E, immaginiamo, men che meno chi soffre di una malattia non irreversibile. Ma se Cappato sosteneva che «in alcuni casi rari la depressione non è curabile», bisogna citare il parere di una psichiatra, Daniela Polese, che in un'intervista a Left aveva commentato: «Non curare un depresso è omissione di soccorso. Portarlo a morire è omicidio». Ribadiamo: un'intervista a Left, settimanale progressista. Peraltro, pochi mesi dopo quella telefonata tra Coveri e «Alessandra di Paternò», sulla Rivista di psichiatria, tre specialisti firmavano un articolo per ribadire che il ricorso al suicidio assistito da parte dei depressi «impone considerazioni cliniche profonde, poiché la depressione è unanimemente riconosciuta come una malattia curabile». Non proprio l'equivalente del «concediamo l'eutanasia a tutti senza guardare le cartelle».
Lo statuto
Nel suo statuto, Exit s'impegna a promuovere «una cultura della dignità della morte». Il fratello di Alessandra ha riferito alla Verità che, alla sua lettera a Dignitas, con cui chiedeva di impedire il suicidio assistito della sorella, che non era «nelle facoltà mentali di prendere una simile decisione», la clinica elvetica aveva risposto solo: «Le faremo sapere». Eppure, Dignitas stessa sottolinea nei suoi opuscoli che se «nascono dubbi sulla capacità di giudizio» del malato, l'iter viene sospeso. Quella di Alessandra è stata una morte dignitosa?
Alessandro Rico
In Emilia il Pd affossa la legge anti utero in affitto
Il re è nudo, la parte estremista del movimento Lgbt e l'ala più radicale del Pd hanno messo giù la maschera, mostrando il vero volto delle loro battaglie tese a legittimare la propaganda pro utero in affitto. A squarciare la cortina fumogena è stata la legge sull'omotransnegatività in discussione al consiglio regionale dell'Emilia Romagna.
Il provvedimento è stato incardinato in Regione sotto pressione di alcuni Comuni emiliani e degli ambienti arcobaleno. Il testo è stato contestato a più riprese dai partiti del centrodestra che lo giudicano un strumento liberticida volto a tappare la bocca alle realtà pro family e pro life. Dopo una fase molto faticosa di confronto serrato anche all'interno del Pd, la legge è arrivata in commissione Parità della Regione mercoledì mattina, con un accordo nella maggioranza di centrosinistra su 25 emendamenti; 23 a firma della relatrice Roberta Mori e due presentati da una minoranza di nove consiglieri catto dem con lo scopo dichiarato di escludere da sostegni e finanziamenti di ogni tipo le associazioni che promuovano in qualche modo, oltre a violenze e discriminazioni di genere, la maternità surrogata.
In altre parole l'accordo nella coalizione del governo regionale era quello di far passare una legge che finanziasse progetti per combattere l'omofobia e le discriminazioni a patto che questi fondi non finissero ad alimentare organizzazioni che promuovono il turismo riproduttivo. L'intesa aveva scontentato molti, come il sindaco di Bologna Virginio Merola che in un post del 9 aprile aveva commentato che è «discutibile equiparare tout court la maternità surrogata alla violenza sessuale», ma sembrava ormai blindata.
Dunque l'emendamento era ampiamente previsto e condiviso, eppure mercoledì mattina è saltato il tavolo per la forte opposizione di Sinistra italiana, che ha minacciato di far cadere la maggioranza. Per il colpo di scena dell'ultimo minuto compiuto dal centrodestra che ha deciso di appoggiare la legge emendata per costringere il Pd a scoprire le carte.
Su tutte le furie sono andate soprattutto le sigle della galassia Lgbt che difende la maternità surrogata. Non caso a chiedere a gran voce la legge era anche l'ex deputato Pd Sergio Lo Giudice che ha avuto due figli proprio con la maternità surrogata. Giovedì il mondo arcobaleno bolognese si è quindi ritrovato davanti alla sede della Regione per contestare il convegno Sì alle leggi per la famiglia, No alla legge sulla omotransnegatività organizzato da Generazione famiglia e Citizengo, associazioni aderenti al Family day, e per protestare contro i «dissidenti» Pd.
Su un cartello campeggiava la scritta «Stop omofobia istituzionale» con le foto dei consiglieri dem Giuseppe Parruolo e Giuseppe Boschini, principali sostenitori dell'emendamento anti utero in affitto. Ma a dirla lunga sulle reali intenzioni di certi ambienti è l'intervento dello storico attivista Lgbt, Franco Grillini: «Con quella schifezza di emendamento è meglio che la legge non passi».
Marco Guerra
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Nello scambio di mail fra Alessandra Giordano e la Dignitas, tutti i passaggi burocratici per arrivare al suicidio assistito.Un articolo e la tessera di socio la collegano all'associazione pro eutanasia presieduta da Emilio Coveri, che ieri alla Zanzara ha detto: «Io direi sì a chiunque, senza neanche guardare le cartelle cliniche».La norma vietava di finanziare sia gruppi omofobi, sia organizzazioni a favore della maternità surrogata.Lo speciale contiene tre articoli «Gentile signora Giordano…». L'incipit delle lettere sequestrate dalla Procura di Catania è sempre lo stesso. Così come il mittente: la clinica svizzera Dignitas, specializzata in eutanasia. Anche il destinatario non cambia: Alessandra Giordano, 46 anni, morta di morte assistita il 27 marzo 2019. I magistrati, ha rivelato La Verità, indagano per istigazione al suicidio. Tra gli atti sequestrati è finito pure il lugubre carteggio tra la Dignitas e Alessandra. Un altro pezzo del puzzle investigativo. Mentre i pm preparano nuove, clamorose, mosse. Il prossimo lunedì sarà depositato il ricorso contro la decisione del gip di non convalidare il sequestro preventivo dei beni della donna. Per i magistrati, invece, il timore resta fondato: potrebbe aver fatto testamento «a favore della clinica o di terzi». La Procura poi è pronta a chiedere una consulenza tecnica: per approfondire il quadro psichiatrico e neurologico dell'insegnante. Alessandra soffriva di depressione e della sindrome di Eagle. Ma non era una malata terminale. Qualcuno l'ha spinta? I risultati della perizia saranno incrociati con i documenti sequestrati. A partire dalle comunicazioni inviate dalla Dignitas. Burocratiche e dolorose, raccontano come si muore per eutanasia. La prima lettera è del 3 maggio 2018. Contiene una serie di indicazioni. La prima: mandare una richiesta, meglio se scritta a macchina, per avviare «la fase di preparazione dell'accompagnamento alla morte». Nella domanda, Alessandra dovrà spiegare le sue condizioni di salute: «Molto brevemente», però. Stringatezza a cui la struttura sembra tenere molto: «La preghiamo di non aggiungere altre informazioni, che ci potrà comunicare separatamente». Insomma: niente dettagli. Almeno per iscritto. Punto secondo: serve un'autobiografia. «Per dare a Dignitas un quadro della situazione personale e familiare e aiutare i medici a valutare la domanda». La terza istanza è un chiarimento. Alessandra ha spedito un referto, con la diagnosi della sindrome di Eagle cronica. Lo specialista spiega però «che dopo tre giorni di trattamento infiltrativo, il dolore le è passato del tutto». La struttura chiede allora di certificare «che il dolore purtroppo è tornato o riapparirà imperterrito». Richiesta che sembrerebbe avere uno scopo preciso: mantenere inalterata la gravità della diagnosi. Passano più di tre mesi. Il 24 agosto la Dignitas manda un'altra missiva. Anche questa sembra finalizzata a evitare grane. Le autorità svizzere, si legge, hanno difficoltà a identificare i deceduti, abitualmente cremati, con il passaporto o la carta d'identità. Meglio evitare rogatorie e parenti inopportuni. E dunque: bisogna trasmettere «uno schema odontoiatrico». Risvolti macabri abbondano pure nella lettera del 28 agosto 2018. Premessa: dal 1998 la Dignitas ha concluso più di 1.700 suicidi assistiti, «in modo dolce, sicuro e indolore». Poi, si entra nel dettaglio: «Dai due ai cinque minuti dopo aver ingerito la medicina letale, Pentobarbarital di sodio, ci si addormenta». Segue totale incoscienza: una sorta di anestesia totale. La respirazione quindi si fa debole, fino a cessare. «Come conseguenza, porta a un processo di morte naturale». Proprio così: «Morte naturale». Tra sonno e trapasso possono volerci da 20 minuti a un'ora. Alla lettera è allegata una delega da firmare. Che vieta a chiunque, autorità o terzi, di intervenire. Segue ennesima procura: per richiedere il sodio pentorbital. E un'altra comunicazione, in cui la clinica annuncia ad Alessandra che ha ottenuto «luce verde provvisoria». Ovvero: «Un medico con cui collaboriamo è in principio disposto a prescriverle la ricetta».Otto gennaio 2019. Stavolta l'oggetto della missiva è: «Date importanti per l'accompagnamento alla morte volontaria». Segue il dettaglio del programma, con una prosa che ricorda quella dei viaggi organizzati. Martedì: sistemazione in albergo e primo appuntamento. Mercoledì: incontro con il dottore. Giovedì: arrivo nell'appartamento di Dignitas e conoscenza degli accompagnatori. Il luogo designato è una casetta di Pfäffikon, vicino Zurigo, a bordo di un piccolo lago. Alla lettera viene allegata una fattura di 7.000 franchi. Si aggiungono ai 4.000 già versati a maggio 2018, per avere la «luce verde». Totale: quasi 10.000 euro. La nuova parcella dettaglia le singole voci. Visita medica: 1.000 franchi. Accompagnamento alla morte volontaria: 2.500. Costi per le esequie, inclusa cremazione: altri 2.500. Varie ed eventuali: 500. Iva inclusa fanno, appunto, 7.000 franchi. Efficienti e risparmiosi, gli svizzeri suggeriscono ai morituri perfino come ottenere qualche risparmio. Per importi bassi, meglio Paypal: «Ha spese molto più convenienti di un pagamento bancario. La preghiamo quindi di elevare il bonifico del 5% per coprire i costi». Non si accettano assegni: «Poiché l'incasso causa spese molto elevate». Invece, «un'alternativa interessante per evitare spese elevate è Transferwise». Quel pagamento viene però rinviato di alcuni mesi. I familiari scoprono gli intenti Alessandra e la fermano. L'insegnante, come ha raccontato il fratello Massimiliano alla Verità, viene ricoverata il 19 gennaio 2019 a Paternò. Diagnosi: «Depressione maggiore con manie psicotiche». La signora è dimessa più di un mese dopo. All'insaputa di tutti, torna sui suoi passi. Il 25 marzo prende un aereo per Zurigo. I familiari però scoprono i suoi intenti. Massimiliano scrive una diffida alla clinica, allegando l'ultimo certificato medico: «Mia sorella non si trova nelle facoltà mentali, allo stato attuale, di prendere una simile decisione. Ci riserviamo, qualora doveste procedere, ad adire le vie legali». Un tasto su cui continua a battere l'agguerrito pool di avvocati che rappresenta la famiglia della donna: Giuseppe Camonita, Marco Tringali, Francesco Pantaleo, Anna Maria Parisi. Perché quelle parole disperate si perdono nel vento. La Dignitas non risponde. Il 27 marzo Alessandra raggiunge la casetta sul lago. Nel mentre, Massimiliano e la sorella Barbara arrivano in Svizzera. Ma è troppo tardi. «La gentile signora Giordano» è morta. Senza nemmeno immaginare lo strepitio del suo ultimo gesto.Antonio Rossitto<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/moduli-fatture-e-impronte-dentarie-cosi-si-fabbrica-la-morte-in-provetta-2634466012.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="exit-ora-nega-i-contatti-con-la-donna-ma-le-carte-mostrano-il-contrario" data-post-id="2634466012" data-published-at="1765898326" data-use-pagination="False"> Exit ora nega i contatti con la donna Ma le carte mostrano il contrario «Noi i depressi non li prendiamo nemmeno». Così Emilio Coveri, il presidente dell'associazione pro eutanasia Exit, ha risposto a Giuseppe Cruciani della Zanzara, che gli chiedeva se Exit c'entrasse qualcosa con la vicenda di Alessandra Giordano. La quarantasettenne di Paternò (Catania) era andata in Svizzera per ottenere il suicidio assistito. Non aveva il cancro, non era tetraplegica. Era depressa e afflitta dai dolori della sindrome di Eagle, una nevralgia che colpisce i legamenti tra collo e cranio. Patologia che si può curare con un intervento, come ha spiegato alla Verità il chirurgo Pier Francesco Nocini. Cattolica Dunque, il leader di Exit nega ogni legame con la donna. Eppure, nel numero di gennaio 2018 della rivista dell'associazione, Coveri aveva raccontato di un suo lungo colloquio telefonico con una certa Alessandra di Paternò, avvenuto il 24 dicembre 2017. Scrive Coveri che la sua interlocutrice «incomincia subito con il dirmi che è cattolica ma che ha una malattia, che è sola e che i suoi parenti non accettano che lei voglia andare a morire in Svizzera». Coveri sembra stizzito dal riferimento al credo di Alessandra: «Quando mi dicono che uno è cattolico, io rispondo subito innervosito che io invece sono juventino!». Alla fine della conversazione, il numero uno di Exit si sente «felice». Perché avverte «che ancora una volta la mia teoria, quella che la vita è nostra e non è di nessuno, tanto meno di quel Dio che vuole farci soffrire inutilmente, ha prevalso». Ergo, a Coveri non sembrava interessare tanto il dramma interiore di un desiderio di morte che si scontrava con le convinzioni religiose di Alessandra. A lui interessava aver provato la sua «teoria»: che Dio si sbaglia. L'articolo è stato acquisito dalla Procura di Catania, che sta conducendo un'inchiesta per induzione al suicidio, per ora senza indagati. Gli inquirenti credono che quell'Alessandra di Paternò sia proprio la Giordano. Ovviamente, ciò non significa che Exit c'entri con il viaggio, anzi, i viaggi della donna in Svizzera (come rivelato da Antonio Rossitto, un primo tentativo di suicidio assistito della quarantasettenne era stato sventato grazie all'intervento dei suoi parenti). Ma che Alessandra fosse in contatto con l'associazione di Coveri lo prova pure la tessera da socio ordinario, la A4638, che Exit ha rilasciato alla Giordano il 5 febbraio 2018 e che è stata sequestrata a casa sua. D'altro canto, ai microfoni di Cruciani e David Parenzo, il presidente di Exit ha affermato a chiare lettere che lui, l'eutanasia, la concederebbe a chiunque. E «senza nemmeno guardare le cartelle cliniche». E perché? Per evitare che uno si suicidi per la disperazione di non potersi suicidare. Un apparente paradosso (se proprio ti devi suicidare, meglio che tu lo faccia per migliaia di euro in Svizzera, anziché buttandoti sotto un treno), su cui insiste, nelle sue brochure, anche la clinica Dignitas. Ovvero, quella in cui è morta Alessandra Giordano e con la quale, nel suo statuto, Exit dichiara di aver stipulato nel 2007 «uno specifico accordo per l'assistenza e l'accompagnamento alla morte volontaria assistita per una persona che ne faccia richiesta». E pensare che persino Marco Cappato, raggiunto dalla Verità, aveva detto che il caso dei depressi non può essere equiparato a quello, per esempio, di Dj Fabo. Infatti, aveva precisato, «la nostra proposta di legge per l'eutanasia libera non include i depressi». E, immaginiamo, men che meno chi soffre di una malattia non irreversibile. Ma se Cappato sosteneva che «in alcuni casi rari la depressione non è curabile», bisogna citare il parere di una psichiatra, Daniela Polese, che in un'intervista a Left aveva commentato: «Non curare un depresso è omissione di soccorso. Portarlo a morire è omicidio». Ribadiamo: un'intervista a Left, settimanale progressista. Peraltro, pochi mesi dopo quella telefonata tra Coveri e «Alessandra di Paternò», sulla Rivista di psichiatria, tre specialisti firmavano un articolo per ribadire che il ricorso al suicidio assistito da parte dei depressi «impone considerazioni cliniche profonde, poiché la depressione è unanimemente riconosciuta come una malattia curabile». Non proprio l'equivalente del «concediamo l'eutanasia a tutti senza guardare le cartelle». Lo statuto Nel suo statuto, Exit s'impegna a promuovere «una cultura della dignità della morte». Il fratello di Alessandra ha riferito alla Verità che, alla sua lettera a Dignitas, con cui chiedeva di impedire il suicidio assistito della sorella, che non era «nelle facoltà mentali di prendere una simile decisione», la clinica elvetica aveva risposto solo: «Le faremo sapere». Eppure, Dignitas stessa sottolinea nei suoi opuscoli che se «nascono dubbi sulla capacità di giudizio» del malato, l'iter viene sospeso. Quella di Alessandra è stata una morte dignitosa? Alessandro Rico <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/moduli-fatture-e-impronte-dentarie-cosi-si-fabbrica-la-morte-in-provetta-2634466012.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="in-emilia-il-pd-affossa-la-legge-anti-utero-in-affitto" data-post-id="2634466012" data-published-at="1765898326" data-use-pagination="False"> In Emilia il Pd affossa la legge anti utero in affitto Il re è nudo, la parte estremista del movimento Lgbt e l'ala più radicale del Pd hanno messo giù la maschera, mostrando il vero volto delle loro battaglie tese a legittimare la propaganda pro utero in affitto. A squarciare la cortina fumogena è stata la legge sull'omotransnegatività in discussione al consiglio regionale dell'Emilia Romagna. Il provvedimento è stato incardinato in Regione sotto pressione di alcuni Comuni emiliani e degli ambienti arcobaleno. Il testo è stato contestato a più riprese dai partiti del centrodestra che lo giudicano un strumento liberticida volto a tappare la bocca alle realtà pro family e pro life. Dopo una fase molto faticosa di confronto serrato anche all'interno del Pd, la legge è arrivata in commissione Parità della Regione mercoledì mattina, con un accordo nella maggioranza di centrosinistra su 25 emendamenti; 23 a firma della relatrice Roberta Mori e due presentati da una minoranza di nove consiglieri catto dem con lo scopo dichiarato di escludere da sostegni e finanziamenti di ogni tipo le associazioni che promuovano in qualche modo, oltre a violenze e discriminazioni di genere, la maternità surrogata. In altre parole l'accordo nella coalizione del governo regionale era quello di far passare una legge che finanziasse progetti per combattere l'omofobia e le discriminazioni a patto che questi fondi non finissero ad alimentare organizzazioni che promuovono il turismo riproduttivo. L'intesa aveva scontentato molti, come il sindaco di Bologna Virginio Merola che in un post del 9 aprile aveva commentato che è «discutibile equiparare tout court la maternità surrogata alla violenza sessuale», ma sembrava ormai blindata. Dunque l'emendamento era ampiamente previsto e condiviso, eppure mercoledì mattina è saltato il tavolo per la forte opposizione di Sinistra italiana, che ha minacciato di far cadere la maggioranza. Per il colpo di scena dell'ultimo minuto compiuto dal centrodestra che ha deciso di appoggiare la legge emendata per costringere il Pd a scoprire le carte. Su tutte le furie sono andate soprattutto le sigle della galassia Lgbt che difende la maternità surrogata. Non caso a chiedere a gran voce la legge era anche l'ex deputato Pd Sergio Lo Giudice che ha avuto due figli proprio con la maternità surrogata. Giovedì il mondo arcobaleno bolognese si è quindi ritrovato davanti alla sede della Regione per contestare il convegno Sì alle leggi per la famiglia, No alla legge sulla omotransnegatività organizzato da Generazione famiglia e Citizengo, associazioni aderenti al Family day, e per protestare contro i «dissidenti» Pd. Su un cartello campeggiava la scritta «Stop omofobia istituzionale» con le foto dei consiglieri dem Giuseppe Parruolo e Giuseppe Boschini, principali sostenitori dell'emendamento anti utero in affitto. Ma a dirla lunga sulle reali intenzioni di certi ambienti è l'intervento dello storico attivista Lgbt, Franco Grillini: «Con quella schifezza di emendamento è meglio che la legge non passi».Marco Guerra
(Arma dei Carabinieri)
Presso la Scuola Ufficiali Carabinieri l'evento è stato presentato da Licia Colò, alla presenza del Ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, e del Gen. C.A. Fabrizio Parrulli, Comandante del Cufaa(Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari Carabinieri). Nel corso dell’evento, anche il Segretario Generale della Convenzione delle Nazioni Unite Cites, Ivonne Higuero, ha rivolto un video-messaggio di saluto alla platea, elogiando l’impegno pluriennale profuso dai Carabinieri e dalle autorità italiane nel contrasto ai traffici di specie selvatiche protette.
La Convenzione Cites, ratificata dall’Italia con la legge n. 874 del 19 dicembre 1975, rappresenta oggi il più importante strumento internazionale per garantire un commercio sostenibile di oltre 40.000 specie di fauna e flora protette. Adottata dalle Nazioni Unite e ratificata da 185 Paesi, la Convenzione costituisce il pilastro normativo per impedire che mercati illegali, abusi e prelievi eccessivi compromettano la sopravvivenza delle specie più vulnerabili.
Il Calendario Cites 2026, realizzato dal Raggruppamento Carabinieri Cites del Comando Carabinieri per la Tutela della Biodiversità del Cufaa, ripercorre l’incessante lavoro svolto prima dal Corpo Forestale dello Stato e, dal 2017, dall’Arma dei Carabinieri attraverso i Nuclei Cites, nel contrasto ai traffici illegali e nella salvaguardia della biodiversità globale.
L’opera accompagna il pubblico in un viaggio attraverso 12 storie emblematiche, ognuna dedicata a una specie protetta che, grazie all’azione dei Carabinieri, ha trovato una nuova possibilità di vita. Tra queste, Edy e Bingo, due scimpanzé sottratti a gravi maltrattamenti in circhi e locali notturni; il leopardo rinvenuto in uno zoo privato illegale a Guspini (VS) e trasferito in una struttura idonea; Oscar, una rara tigre bianca recuperata da condizioni incompatibili con il benessere animale.
Il calendario racconta, inoltre, il ritorno alla libertà di centinaia di esemplari di Testudo graeca e Testudo hermanni, reimmessi nei loro habitat naturali dopo essere stati sequestrati ai traffici illegali, così come il delicato rimpatrio di numerose piante del genere Copiapoa nel deserto di Atacama, in Cile.
A chiudere il racconto, l’energia dei tursiopi, nuovamente liberi di nuotare in acque pulite e adeguate, testimonianza del successo delle attività di recupero e trasferimento operate dagli specialisti Cites.
Ogni storia rappresenta un simbolo del trionfo della legalità sulla sofferenza, sull’abuso e sul profitto illecito, e riflette l’impegno quotidiano dei Carabinieri nel difendere ecosistemi, specie rare e patrimoni naturali che appartengono all’intera umanità.
Nel corso dell’evento, sempre all’interno della Scuola Ufficiali Carabinieri, è stata allestita una mostra fotografica a cura del fotografo Marco Lanza, dal titolo: “Vite spezzate: dal contrasto al commercio illegale in Italia, i reperti confiscati del deposito centrale dei Carabinieri Cites”, con scatti realizzati nel Deposito di Magliano dei Marsi (AQ), gestito dal Raggruppamento Carabinieri Cites, dove viene custodita gran parte dei reperti confiscati durante le attività di contrasto al traffico illecito di animali e piante in via d’estinzione. Ogni fotografia riporta animali diventati oggetti tra oggetti, volutamente inseriti dall’autore in un contesto scarno ed essenziale, che quasi fanno percepire incredulità nel trovarsi in un luogo come questo; animali che interrogano l’osservatore mentre sembra vogliano uscire e riconquistare il proprio ruolo in natura.
Il cinquantesimo anniversario della Cites e il nuovo Calendario 2026 sono dunque l’occasione per riaffermare il valore della cooperazione internazionale e il ruolo determinante dell’Italia – e dell’Arma dei Carabinieri – nel contrasto alla criminalità ambientale e nella protezione della biodiversità mondiale.
Sul Calendario è riportata anche una personale dichiarazione del Gen. C.A. Salvatore Luongo, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri: «L’anniversario per i 50 anni dell’Atto di ratifica in Italia della Convenzione di Washington rappresenta un’occasione di riflessione sull’importanza della salvaguardia della biodiversità su scala planetaria e sulla necessità di affrontare sempre più efficacemente la criminalità che lucra senza alcuno scrupolo sullo sfruttamento della fauna e flora minacciate di estinzione. Conservazione attiva, educazione alla legalità, prevenzione e contrasto sono le direttrici che vedono l’Arma dei Carabinieri, nel suo insieme e con i propri assetti di specialità del Cufaa, sempre più impegnata per dare piena attuazione ai principi fondamentali della Carta Costituzionale su tutto il territorio nazionale e negli scenari di cooperazione internazionale».
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Guido Carlino (Imagoeconomica)
È mancato quindi, grazie al «salvacondotto» approvato dal governo Conte nel 2020, quel controllo preventivo che ha portato i magistrati contabili a bocciare il progetto per la realizzazione del Ponte di Messina. Un paradosso in parte comprensibile, visto che l’emergenza per definizione richiede una certa flessibilità, ma che da quello che è emerso nel corso dell’audizione non viene applicata ad altre strutture commissariali che gestiscono emergenze. Come quella che gestisce la ricostruzione post terremoto del Centro Italia e quella che ha in carico le alluvioni dell’Emilia-Romagna.
In particolare, si legge ancora nel documento, «il perimetro stesso del controllo è stato delimitato attraverso la sottrazione al sindacato preventivo dei contratti relativi all’acquisto di dispositivi e, più in generale, di ogni altro atto negoziale posto in essere dal dipartimento della Protezione civile della presidenza del consiglio dei ministri e dai soggetti attuatori, in quanto conseguente all’urgente necessità di far fronte all’emergenza. A ciò si è accompagnata la limitazione della responsabilità amministrativo-contabile per tali atti “ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario o dell’agente che li ha posti in essere o che vi ha dato esecuzione”». «Ne è derivata», è la lapidaria conclusione, «una significativa compressione delle funzioni di controllo e di quelle giurisdizionali che ha coinvolto anche l’attività del commissario straordinario».
Sta di fatto che gli approfondimenti svolti dai magistrati contabili sembrano essere importanti: «Ad oggi, particolarmente intensa è stata l’istruttoria svolta nei confronti della presidenza del consiglio dei ministri, del dipartimento della Protezione civile, del ministero della Salute, del ministero dell’Economia e delle finanze nonché dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, con riferimento ai flussi finanziari, ai costi della struttura commissariale, alle procedure negoziali, alle eventuali criticità gestionali rilevate e alle conseguenti azioni correttive, agli eventuali contenziosi, nonché alle attività di monitoraggio poste in essere, anche a seguito della chiusura dello stato di emergenza.
Oggetto di approfondimento è stato altresì lo sdoganamento dei dispositivi di protezione individuale e dei beni mobili di qualsiasi genere occorrenti per fronteggiare l’emergenza pandemica». I risultati delle attività in corso però sono ancora top secret: «Della conclusione dell’indagine si darà atto al momento della sua approvazione e pubblicazione».
Per Carlino l’argomento delle emergenze è delicato: «Non può tuttavia non richiamarsi sin d’ora la rilevanza di una particolare attenzione alle modalità di gestione attraverso strutture commissariali, alla luce di quanto è stato osservato dalla Corte dei Conti rispetto a fattispecie analoghe. È evidente che situazioni emergenziali impongono risposte rapide, capaci di superare l’ordinario assetto delle competenze e le regole che governano il normale svolgimento dell’azione amministrativa».
Una riflessione che ha portato la capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Covid, Alice Buonguerrieri a chiedere a Carlino: «Esistono delle limitazioni ad oggi di controlli preventivi concomitanti pari a quelle che abbiamo letto nel Cura Italia per la struttura commissariale, anche su altre strutture emergenziali?». La risposta del magistrato contabile è netta: «Per quanto riguarda i controlli concomitanti, non abbiamo avuto altre limitazioni nelle attività di controllo. L’unica limitazione avuta è quella che riguarda i controlli sulle gestioni del Pnrr e del piano nazionale complementare».
Più diplomatica, ma altrettanto chiara, la risposta alla domanda della parlamentare di Fdi che chiedeva se quello messo in piedi da Giuseppe Conte fosse un modello da replicare. «Io ritengo», spiega Carlino, «che l’obiettivo non solo della Corte dei Conti ma del legislatore debba essere quello di garantire il buon andamento dell’azione amministrativa allora il buon andamento dell’azione amministrativa va garantito attraverso l’introduzione, attraverso il mantenimento di controlli seri, efficaci, esterni quali sono i controlli svolti dalla Corte dei Conti, siano essi controlli preventivi di legittimità, ovvero i controlli successivi».
Ma non basta. Nel documento c’è anche una frase che mette in discussione il modello sanitario sviluppato nel corso degli anni dai governi precedenti, in larga misura a trazione progressista, con un esplicito riferimento ai tagli, più volte minimizzati dagli esponenti del centrosinistra: «Dagli esami svolti dalla Corte è emerso come il biennio dell’emergenza pandemica abbia evidenziato criticità strutturali, quali le carenze nella rete dei servizi territoriali e il sottodimensionamento delle risorse umane, particolarmente incise dalle misure di contenimento della spesa operate nel decennio precedente».
L’audizione della toga ha portato a una dura presa di posizione di Fratelli d’Italia. «Il presidente della Corte dei Conti, Guido Carlino, ha confermato in commissione Covid che, durante la prima fase della pandemia, si è consumato un fatto gravissimo: soltanto la struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri ha goduto, grazie alle norme del governo Conte, di un annullamento dei controlli da parte della Corte dei Conti. Nessun controllo, né preventivo né concomitante». A dirlo sono i capigruppo FdI a Camera e Senato, Galeazzo Bignami e Lucio Malan. «Questo fatto», prosegue la nota, «è stato aggravato da uno scudo penale, previsto dallo stesso esecutivo, che ha determinato una vera e propria immunità totale, poiché danni erariali ingenti venivano archiviati restando dunque impuniti». «Tutte le spese», concludono i due esponenti di Fdi, «erano giustamente attenzionate, tranne quelle di Arcuri e della sua struttura. I risultati di questo trattamento di favore, li abbiamo visiti: sperperi, mascherine inidonee cinesi e mediatori occulti amici».
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L’imam Shahin lascia il CPR: per i giudici non sarebbe una minaccia tale da giustificare la detenzione, nonostante le sue parole sul 7 ottobre e un passato già segnalato dal Viminale. Il provvedimento di espulsione resta, ma la decisione riapre una questione cruciale: fino a che punto la sicurezza nazionale può essere messa in secondo piano rispetto ai ricorsi e alle interpretazioni giudiziarie?
Friedrich Merz, che sabato, al congresso della Csu in Baviera, ha detto che i decenni di pax americana sono finiti, ha rassicurato nei giorni scorsi i siderurgici tedeschi affermando che proteggerà l’acciaio nazionale, anche con dazi alla Cina se necessario. Il suo governo ha cambiato idea circa la clausola Made in Europe su appalti e beni industriali e ora la sostiene.
Un mese fa il Consiglio di sicurezza nazionale tedesco ha espresso preoccupazione per il predominio cinese sui materiali critici e le filiere strategiche. Dopo che il presidente francese Emmanuel Macron si è espresso a favore dei dazi per fermare lo strapotere cinese, anche Berlino sta vincendo la propria riluttanza e sembra intenzionata a intensificare quello che Ursula von der Leyen aveva chiamato sinora, prudentemente, derisking.
La Germania ha perso quote di mercato a favore della Cina proprio nei settori industriali più pesanti, cioè macchinari industriali, apparecchiature elettriche, autoveicoli, componentistica e chimica.
La banca statale Kfw, una specie di Cassa depositi e prestiti tedesca che il governo usa per mascherare gli aiuti di Stato, sta chiedendo al governo di decidere cosa acquistare in Cina e cosa produrre in casa. La produzione manifatturiera tedesca è scesa del 14% dal picco raggiunto nel 2017, con un calo costante. Il deficit commerciale nei confronti della Cina è arrivato a 73 miliardi nei primi dieci mesi di quest’anno, mentre il surplus complessivo cinese tra gennaio e novembre ha superato per la prima volta i 1.000 miliardi di dollari.
Ma Merz è in una posizione difficile, per un paio di serissime ragioni. La prima è la frattura tra le grandi case automobilistiche e chimiche tedesche, che ancora stanno investendo in Cina (vedi Volkswagen e Bmw, che hanno annunciato di poter produrre là al 100%), e l’associazione degli industriali produttori di macchinari di Vorstadt-Dach-Main (Vdma), che accusa Pechino di concorrenza sleale e chiede al governo di difendere l’industria tedesca.
La seconda è una ragione ben più profonda. La situazione attuale della Germania è il risultato stesso della spinta europea alla competitività sui mercati mondiali basata su moneta unica, austerità e bassi salari. La delocalizzazione in Cina e l’abbraccio con l’economia cinese è servita all’Ue per mantenere il proprio modello export-led. Importare dalla Cina ha permesso di ricevere prodotti a basso prezzo che i lavoratori europei, pagati meno del giusto, possono permettersi. In altre parole, il deficit commerciale con la Cina è uno strumento politico di supporto alla compressione delle dinamiche salariali.
L’austerità interna all’eurozona si nutre delle merci cinesi meno costose, che ne sono un pilastro. La Germania, e di riflesso l’eurozona, hanno favorito e coltivato questo modello e ora ne sono soverchiate. Ecco perché per Berlino scegliere di rompere i legami con la Cina e rendere più care le importazioni con i dazi può significare la fine del proprio modello economico e sociale, basato sulla crescita trainata dalle esportazioni e sulla compressione della domanda interna. Per Merz non si tratta tanto di proteggere la propria industria, quanto di decidere se cambiare l’assetto complessivo della Germania o perire. Cioè se ridare fiato alla domanda interna, investendo risorse pubbliche, lasciando aumentare i salari e gestendo l’inflazione senza panico, o proseguire nella strategia suicida perseguita sinora.
La necessità delle merci cinesi per tenere in piedi il baraccone della moneta unica europea è un fatto, ma il cancelliere tedesco si trova davanti ad un compito per il quale non sembra preparato, né culturalmente né politicamente.
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