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2024-06-09
«Stadi di Milan e Inter incompatibili». Ma il modello Londra smentisce Sala
Il sindaco di MIlano, Beppe Sala, che si lamenta della possibile nascita di due nuovi stadi di Milan e Inter, è lo stesso che ormai da cinque anni tiene in ostaggio la città sul futuro di San Siro e sulla nascita di un nuovo impianto sportivo appeso al progetto di ristrutturazione di Webuild. Anche perché in questo modo, per «merito» della giunta Sala, Milano non rischia solo di perdere Milan e Inter ma anche diversi altri appuntamenti, tra cui la finale di Champions League 2027 e gli Europei del 2032 che l’Italia dovrebbe organizzare con la Turchia.
San Siro ospiterà la cerimonia dei Giochi olimpici invernali a inizio 2026, difficile che i lavori inizino prima. Ma questo rappresenta un grosso problema per la città e per tutta Italia, perché all’estero Madrid può sfoggiare uno stadio all’avanguardia, costato 1,7 miliardi di euro e rimesso a posto in 5 anni. Poteva succedere anche a Milano. Era il 2019, infatti, quando le due squadre di calcio del capoluogo lombardo iniziavano a parlare della possibilità di sostituire lo storico Meazza con un progetto più innovativo, in linea con i grandi stadi del mondo. E, nonostante la pandemia, alla fine una soluzione era stata anche trovata. Il progetto era per un impianto da 60.000 posti (13.500 sarebbero stati quelli premium) che si sarebbe dovuto costruire nei dintorni di San Siro.
Quest’ultimo, lo storico campo inaugurato nel 1926, era invece destinato a essere completamente demolito per lasciar spazio a un distretto sportivo-commerciale e a una nuova «Cittadella dello sport» del valore di 1,3 miliardi di euro. Tutte le spese sarebbero state a carico delle due società, senza che i cittadini milanesi tirassero fuori un euro. Se quel progetto fosse stato portato avanti all’epoca, ora (forse) sarebbe già quasi pronto un nuovo stadio avveniristico, simile a quello che, per esempio, ha appena finito di costruire il Real Madrid. In questi anni le due squadre avrebbero potuto continuare a usare tranquillamente San Siro, mentre poco distante sarebbero stati portati avanti i lavori per il nuovo impianto. Peccato che, con il passare degli anni, quel fantasmagorico progetto, che avrebbe potuto chiamarsi la Cattedrale come tributo al Duomo, sia stato fermato più volte: prima dalla burocrazia, poi dalla cittadinanza e talvolta anche dagli alleati ambientalisti del sindaco che lo hanno sostenuto alle ultime elezioni. Poi ci si è messa anche la Sovrintendenza, che decise di inserire un vincolo di tutela sul Meazza rendendo, così, impossibile la demolizione di un impianto che non viene ristrutturato dagli anni Novanta.
Ora Sala ha deciso di attaccare di nuovo Milan e Inter, squadra quest’ultima dove da poco si è insediato Beppe Marotta come presidente, espressione della nuova società statunitense Oaktree che va a sostituirsi alla proprietà cinese di Steven Zhang. «Due stadi così vicini non possono coesistere. Consociamo il territorio e quando si pensa di costruire qualcosa di imponente, si pensa al Sud di Milano perché il Nord è completamente antropizzato. Vuol dire, però, inserirsi in aree verdi e due stadi così vicini è ovvio che non potrebbero coesistere. Non so come sia ipotizzabile fare a pochissima distanza due impianti del genere», ha ribadito Sala. Sentendosi rispondere dal Milan, con una nota ufficiale, che in realtà il «progetto non trova alcuna incompatibilità con l’eventuale realizzazione di un nuovo stadio dell’Inter a Rozzano. La distanza tra le due strutture sarebbe infatti di 13 km in linea d’aria (18 km in auto), mentre per esempio nella città di Londra convivono ben otto stadi costruiti a distanze anche decisamente più ridotte». Invece di avere uno stadio pronto, Milano rischia di restarne senza per molto tempo. E poi quando dureranno i lavori di ristrutturazione di Webuild? E quanto ci perderanno le società a giocare in uno stadio che non potrà neppure essere pieno?
«Il Comune ha perso molto tempo e non ha saputo cogliere l’opportunità offerta da Milan e Inter per riqualificare l’intera area. Tutti i milanesi sono affezionati al Meazza, ma non possiamo impedire ai club di portare avanti progetti per realizzare stadi più moderni», spiegava nelle scorse settimane Gianluca Comazzi, assessore regionale al Territorio di Regione Lombardia. Una posizione sensata, al contrario di quella di palazzo Marino.
De Siervo choc: «Europei a rischio»
La notizia circola da ieri e fa già discutere: «I nostri stadi dovranno essere adeguati entro il termine ultimo di ottobre 2026, altrimenti c’è il rischio che quella parte di Euro 2032 ci venga ritirata. Rappresenta una sfida che non possiamo permetterci di perdere, è l’ultima chiamata. A ottobre 2026 la Uefa farà le proprie verifiche e dovremo dimostrare di aver adeguato gli impianti».A parlare non è uno qualunque, è Luigi De Siervo, ad della Lega di Serie A, a margine del Festival del nostro campionato maggiore tenutosi a Parma. «È questo il momento per dimostrare che siamo un sistema compatto», prosegue il capo della Serie A, «non si possono fare le infrastrutture solo per i grandi eventi, ma farlo sempre con metodo». Il campanello d’allarme era suonato già l’anno scorso, quando l’Italia si era accordata con la Turchia del sultano Recep Tayyip Erdogan per dividersi oneri e onori della competizione. L’accordo al ribasso per il nostro Paese nasceva da una necessità: i gironi verrebbero divisi tra le due nazioni e, per quanto riguarda i nostri impianti, invece dei 10 stadi previsti (Milano, Torino, Verona, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Cagliari) si giocherebbe su cinque. La metà, una cifra più abbordabile per rimettere in sesto stadi antidiluviani. Il problema è che, al di là dello Juventus Stadium e della nuova arena dell’Atalanta, non si è ancora mossa ulteriore foglia e spostato mattone. I turchi hanno, invece, già una decina di impianti belli e pronti e non vedono l’ora di bagnarci il naso, magari ottenendo la finale di torneo. E pensare che La Figc aveva presentato il 12 aprile 2023 un dossier all’Uefa, «ispirato a un Nuovo Rinascimento», come aveva affermato il presidente Gabriele Gravina. Senza un intervento energico della politica, tutto è destinato a restare una chimera. Il 2026 è dietro l’angolo per un Paese che da decenni non trova accordi sugli ammodernamenti da fare. Su San Siro si bisticcia, Inter e Milan vorrebbero costruire i propri stadi a Rozzano e a San Donato Milanese, la Sovrintendenza vuole porre vincoli sullo storico stadio meneghino dimenticando che, in nazioni molto più pragmatiche come il Regno Unito, un monumento come Wembley è stato demolito e ricostruito secondo criteri contemporanei, nella consapevolezza che non si tratta certo del Colosseo.Un caso emblematico in Italia è rappresentato anche dall’Artemio Franchi di Firenze. Da un bel po’ si discute di rinnovarlo. L’arena è di proprietà del Comune e data in concessione alla Fiorentina: inizialmente la società aveva deciso di abbatterla per costruirne un’altra, poi l’ipotesi è stata accantonata perché il Franchi è vincolato dalla Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per ragioni di interesse architettonico. La società aveva cercato di imbastire un progetto per costruire fuori da Firenze, ma non aveva mai trovato una collocazione ufficiale. Si era poi optato per il compromesso salomonico: ristrutturare il Franchi coi fondi del Pnrr, il piano di investimenti dell’Unione Europea per aiutare i Paesi membri a uscire dalla crisi causata dalla pandemia. Il problema è che quei fondi non basterebbero e senza un intervento della politica, il guado diventerebbe impossibile da attraversare in ogni città.
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Il sindaco giudica troppo vicine (e in mezzo al verde) le arene su cui le due società di calcio sono al lavoro Una posizione respinta dai rossoneri: «Ci sono 13 km di distanza...». Ancora mistero sul restyling di San Siro. L’ad della Serie A: «Se i nostri impianti non verranno adeguati entro il 2026, l’assegnazione all’Italia dell’edizione 2032 potrebbe essere ritirata dalla Uefa». Lo speciale contiene due articoli.Il sindaco di MIlano, Beppe Sala, che si lamenta della possibile nascita di due nuovi stadi di Milan e Inter, è lo stesso che ormai da cinque anni tiene in ostaggio la città sul futuro di San Siro e sulla nascita di un nuovo impianto sportivo appeso al progetto di ristrutturazione di Webuild. Anche perché in questo modo, per «merito» della giunta Sala, Milano non rischia solo di perdere Milan e Inter ma anche diversi altri appuntamenti, tra cui la finale di Champions League 2027 e gli Europei del 2032 che l’Italia dovrebbe organizzare con la Turchia. San Siro ospiterà la cerimonia dei Giochi olimpici invernali a inizio 2026, difficile che i lavori inizino prima. Ma questo rappresenta un grosso problema per la città e per tutta Italia, perché all’estero Madrid può sfoggiare uno stadio all’avanguardia, costato 1,7 miliardi di euro e rimesso a posto in 5 anni. Poteva succedere anche a Milano. Era il 2019, infatti, quando le due squadre di calcio del capoluogo lombardo iniziavano a parlare della possibilità di sostituire lo storico Meazza con un progetto più innovativo, in linea con i grandi stadi del mondo. E, nonostante la pandemia, alla fine una soluzione era stata anche trovata. Il progetto era per un impianto da 60.000 posti (13.500 sarebbero stati quelli premium) che si sarebbe dovuto costruire nei dintorni di San Siro. Quest’ultimo, lo storico campo inaugurato nel 1926, era invece destinato a essere completamente demolito per lasciar spazio a un distretto sportivo-commerciale e a una nuova «Cittadella dello sport» del valore di 1,3 miliardi di euro. Tutte le spese sarebbero state a carico delle due società, senza che i cittadini milanesi tirassero fuori un euro. Se quel progetto fosse stato portato avanti all’epoca, ora (forse) sarebbe già quasi pronto un nuovo stadio avveniristico, simile a quello che, per esempio, ha appena finito di costruire il Real Madrid. In questi anni le due squadre avrebbero potuto continuare a usare tranquillamente San Siro, mentre poco distante sarebbero stati portati avanti i lavori per il nuovo impianto. Peccato che, con il passare degli anni, quel fantasmagorico progetto, che avrebbe potuto chiamarsi la Cattedrale come tributo al Duomo, sia stato fermato più volte: prima dalla burocrazia, poi dalla cittadinanza e talvolta anche dagli alleati ambientalisti del sindaco che lo hanno sostenuto alle ultime elezioni. Poi ci si è messa anche la Sovrintendenza, che decise di inserire un vincolo di tutela sul Meazza rendendo, così, impossibile la demolizione di un impianto che non viene ristrutturato dagli anni Novanta. Ora Sala ha deciso di attaccare di nuovo Milan e Inter, squadra quest’ultima dove da poco si è insediato Beppe Marotta come presidente, espressione della nuova società statunitense Oaktree che va a sostituirsi alla proprietà cinese di Steven Zhang. «Due stadi così vicini non possono coesistere. Consociamo il territorio e quando si pensa di costruire qualcosa di imponente, si pensa al Sud di Milano perché il Nord è completamente antropizzato. Vuol dire, però, inserirsi in aree verdi e due stadi così vicini è ovvio che non potrebbero coesistere. Non so come sia ipotizzabile fare a pochissima distanza due impianti del genere», ha ribadito Sala. Sentendosi rispondere dal Milan, con una nota ufficiale, che in realtà il «progetto non trova alcuna incompatibilità con l’eventuale realizzazione di un nuovo stadio dell’Inter a Rozzano. La distanza tra le due strutture sarebbe infatti di 13 km in linea d’aria (18 km in auto), mentre per esempio nella città di Londra convivono ben otto stadi costruiti a distanze anche decisamente più ridotte». Invece di avere uno stadio pronto, Milano rischia di restarne senza per molto tempo. E poi quando dureranno i lavori di ristrutturazione di Webuild? E quanto ci perderanno le società a giocare in uno stadio che non potrà neppure essere pieno? «Il Comune ha perso molto tempo e non ha saputo cogliere l’opportunità offerta da Milan e Inter per riqualificare l’intera area. Tutti i milanesi sono affezionati al Meazza, ma non possiamo impedire ai club di portare avanti progetti per realizzare stadi più moderni», spiegava nelle scorse settimane Gianluca Comazzi, assessore regionale al Territorio di Regione Lombardia. Una posizione sensata, al contrario di quella di palazzo Marino.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/modello-londra-smentisce-sala-2668484841.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="de-siervo-choc-europei-a-rischio" data-post-id="2668484841" data-published-at="1717914995" data-use-pagination="False"> De Siervo choc: «Europei a rischio» La notizia circola da ieri e fa già discutere: «I nostri stadi dovranno essere adeguati entro il termine ultimo di ottobre 2026, altrimenti c’è il rischio che quella parte di Euro 2032 ci venga ritirata. Rappresenta una sfida che non possiamo permetterci di perdere, è l’ultima chiamata. A ottobre 2026 la Uefa farà le proprie verifiche e dovremo dimostrare di aver adeguato gli impianti».A parlare non è uno qualunque, è Luigi De Siervo, ad della Lega di Serie A, a margine del Festival del nostro campionato maggiore tenutosi a Parma. «È questo il momento per dimostrare che siamo un sistema compatto», prosegue il capo della Serie A, «non si possono fare le infrastrutture solo per i grandi eventi, ma farlo sempre con metodo». Il campanello d’allarme era suonato già l’anno scorso, quando l’Italia si era accordata con la Turchia del sultano Recep Tayyip Erdogan per dividersi oneri e onori della competizione. L’accordo al ribasso per il nostro Paese nasceva da una necessità: i gironi verrebbero divisi tra le due nazioni e, per quanto riguarda i nostri impianti, invece dei 10 stadi previsti (Milano, Torino, Verona, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Cagliari) si giocherebbe su cinque. La metà, una cifra più abbordabile per rimettere in sesto stadi antidiluviani. Il problema è che, al di là dello Juventus Stadium e della nuova arena dell’Atalanta, non si è ancora mossa ulteriore foglia e spostato mattone. I turchi hanno, invece, già una decina di impianti belli e pronti e non vedono l’ora di bagnarci il naso, magari ottenendo la finale di torneo. E pensare che La Figc aveva presentato il 12 aprile 2023 un dossier all’Uefa, «ispirato a un Nuovo Rinascimento», come aveva affermato il presidente Gabriele Gravina. Senza un intervento energico della politica, tutto è destinato a restare una chimera. Il 2026 è dietro l’angolo per un Paese che da decenni non trova accordi sugli ammodernamenti da fare. Su San Siro si bisticcia, Inter e Milan vorrebbero costruire i propri stadi a Rozzano e a San Donato Milanese, la Sovrintendenza vuole porre vincoli sullo storico stadio meneghino dimenticando che, in nazioni molto più pragmatiche come il Regno Unito, un monumento come Wembley è stato demolito e ricostruito secondo criteri contemporanei, nella consapevolezza che non si tratta certo del Colosseo.Un caso emblematico in Italia è rappresentato anche dall’Artemio Franchi di Firenze. Da un bel po’ si discute di rinnovarlo. L’arena è di proprietà del Comune e data in concessione alla Fiorentina: inizialmente la società aveva deciso di abbatterla per costruirne un’altra, poi l’ipotesi è stata accantonata perché il Franchi è vincolato dalla Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per ragioni di interesse architettonico. La società aveva cercato di imbastire un progetto per costruire fuori da Firenze, ma non aveva mai trovato una collocazione ufficiale. Si era poi optato per il compromesso salomonico: ristrutturare il Franchi coi fondi del Pnrr, il piano di investimenti dell’Unione Europea per aiutare i Paesi membri a uscire dalla crisi causata dalla pandemia. Il problema è che quei fondi non basterebbero e senza un intervento della politica, il guado diventerebbe impossibile da attraversare in ogni città.
Emmanuel Macron (Ansa)
Donald Trump è stato criticato per aver ricevuto lo zar in Alaska ad agosto: da più parti, il presidente americano è stato accusato di aver fatto il gioco di Putin o di avergli regalato un immeritato prestigio diplomatico. Per non parlare poi di Viktor Orbán! Quando a novembre il premier ungherese incontrò lo zar a Mosca, finì bersagliato dagli strali di Friedrich Merz, che lo tacciò di agire senza alcun mandato europeo. Eppure con Macron, sia da Bruxelles che da Berlino, sono arrivati commenti soft. «Restiamo in coordinamento in termini di contatti bilaterali per raggiungere una pace sostenibile in Ucraina e accogliamo con favore gli sforzi di pace», ha dichiarato un portavoce dell’Ue, parlando dell’eventualità di una telefonata tra il presidente francese e Putin. «Non abbiamo alcuna preoccupazione che l’unità europea sulla guerra possa incrinarsi. Non c’è alcun dubbio sulla nostra posizione comune», ha inoltre affermato il governo tedesco, riferendosi alle aperture di Macron allo zar, per poi sottolineare (non senza un po’ di freddezza) che Berlino «ha preso atto dei segnali di disponibilità al dialogo».
Ora, è forse possibile formulare alcune considerazioni. La prima è che la diplomazia è un concetto differente dall’appeasement. Il problema è che alcuni settori politici e mediatici hanno finito indebitamente col sovrapporli. Trump, per esempio, ha, sì, ripreso il dialogo con Mosca. Ma lo ha anche alternato a forme di pressione (si pensi soltanto alle sanzioni americane contro Lukoil e Rosneft). Questo dimostra che si può dialogare senza essere necessariamente arrendevoli. D’altronde, se si chiudono aprioristicamente tutti i canali di comunicazione con l’avversario o con il potenziale avversario, si pongono le basi affinché una crisi sia essenzialmente irrisolvibile. Andrebbe inoltre ricordato che, secondo lo storico John Patrick Diggins, anche Ronald Reagan fu criticato dai neoconservatori per il suo dialogo con Mikhail Gorbachev.
Tutto questo per dire che, se Bruxelles non ha quasi toccato palla sulla crisi ucraina per quattro anni, è per due ragioni. Una strutturale: l’Ue non è un soggetto geopolitico. Un’altra più contingente: rinunciando pressoché totalmente all’opzione diplomatica, Bruxelles ha perso margine di manovra, raffreddando anche i rapporti con ampie parti del Sud globale. Paesi come l’India o l’Arabia Saudita hanno infatti sempre rifiutato di mollare Mosca, al netto della sua invasione dell’Ucraina. La strategia dell’isolamento perseguita dall’Ue ha quindi soltanto spinto sempre più il Cremlino tra le braccia della Cina e di vari Paesi del Sud globale.
La seconda considerazione da fare riguarda invece Macron. Dobbiamo veramente pensare che il presidente francese sia improvvisamente diventato uno stratega della diplomazia? Probabilmente no. Da quando la crisi ucraina è cominciata, il capo dell’Eliseo ha fatto tutto e il contrario di tutto. All’inizio, voleva tenere i contatti col Cremlino e diceva che Putin non doveva essere umiliato. Poi, dall’anno scorso, si è improvvisamente riscoperto falco antirusso. Addirittura, a maggio 2024, l’amministrazione Biden prese le distanze dalla proposta francese di inviare addestratori militari in Ucraina. Ciò non impedì comunque a Macron di essere, sempre a maggio 2024, uno dei pochi leader europei a mandare un ambasciatore alla cerimonia d’insediamento di Putin. Non solo. A marzo, il presidente francese quasi derise gli sforzi diplomatici di Trump in Ucraina, mentre, poche settimane fa, ha cercato di avviare un processo diplomatico parallelo a quello della Casa Bianca, tentando di convincere Xi Jinping a raffrenare lo zar. Tutto questo fino a venerdì, quando il capo dell’Eliseo ha aperto alla possibilità di parlare con Putin.
Macron sa di essere finito all’angolo. E sa perfettamente che gli interessi geopolitici alla base del riavvicinamento tra Washington e Mosca sono troppo forti per essere ostacolati. Sta quindi cercando di rientrare in partita. Non solo. Il leader francese sembra sempre più insofferente verso Berlino. Prima ha rotto con Merz sulla questione degli asset russi. Poi, con la sua svolta dialogante, ha de facto sconfessato la linea dura del cancelliere, che ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Nel frattempo, non si registrano commenti significativi da parte del Regno Unito, che potrebbe temere un disallineamento di Parigi dall’asse dei volenterosi. Il punto è che il presidente francese gioca una partita molto «personale». Pertanto, anziché affidarsi a lui, Bruxelles, per contare finalmente qualcosa, dovrebbe forse coordinarsi maggiormente con Trump, sostenendo il suo processo diplomatico e rafforzando le relazioni transatlantiche. Esattamente quanto propone da mesi il governo italiano.
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