2019-07-16
Moavero Milanesi sogna Bruxelles e scredita i leghisti per una nomina Ue
Il ministro degli Esteri si oppone alla candidatura di un membro del Carroccio e vuole togliere a Matteo Salvini il controllo delle frontiere.La neo presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen rischia di non ottenere la maggioranza.Lo speciale contiene due articoli.Mettendo a rischio la tenuta della sua ormai leggendaria pettinatura a nido di rondine, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi si è scatenato. Per rendere l'Italia protagonista nel mondo? Per contribuire a risolvere la situazione in Libia? Per chiarire la linea contraddittoria del governo sulla Cina? Per dire una parola univoca sul Venezuela? Per protestare contro la Francia dopo l'incredibile premiazione della «capitana» Carola Rackete annunciata da Parigi? Insomma, per dare un senso alla sua presenza tra i marmi della Farnesina? Non esattamente. Su tutto questo, il ministero degli Esteri continua ad apparire ai più alla stregua di una «sede vacante».Invece, gli scopi principali di Moavero - mai dimenticare: montiano ed eurolirico - sembrano altri due. Primo: tessere la tela per la sua candidatura alla Commissione Ue. Secondo: provare a esautorare Matteo Salvini rispetto al dossier immigrazione, avanzando un piano confuso, parzialissimo, e già in buona misura archiviato dai partner Ue. Ma procediamo con ordine. Da molte settimane, Moavero briga - in tutte le sedi - negoziando per sé stesso come potenziale membro della nuova Commissione. Tra Roma e Bruxelles, a molti interlocutori - non solo italiani - è parso frenetico e perfino comico l'attivismo di un ministro degli Esteri in carica per autosponsorizzarsi per un altro incarico. Da qualche giorno, Moavero sembrava aver perso le speranze, visto che tutti nel governo davano (e danno tuttora) per certa una candidatura leghista. Ma ora due circostanze hanno nuovamente ingolosito il titolare della Farnesina: per un verso, l'affaire Savoini, che crea un problema di reputazione internazionale per il Carroccio; per altro verso, l'intolleranza con cui Ppe-Pse-macronisti hanno negato alla Lega, al Parlamento europeo, perfino elementi minimi di rappresentanza istituzionale (una vicepresidenza dell'assemblea e un paio di presidenze di Commissione). Da allora, Moavero ha ripreso a muoversi a tutta velocità, con un solo argomento: e cioè prefigurando la bocciatura parlamentare (c'è il precedente di Rocco Buttiglione) dell'eventuale candidato italiano quando l'Europarlamento dovrà convalidare le designazioni dei vari Paesi. E il fatto che il neopresidente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, pur proseguendo a trattare con i leghisti, non li abbia voluti incontrare formalmente, ha messo altra benzina nel motore di Moavero, che continua a sollecitare un'opera di persuasione per convincere la Lega a fare un passo indietro, e a designare una figura più neutra, più istituzionale, più accettata. Cioè lui. Che invece sarebbe straconfermato e stravotato dal vecchio establishment di Bruxellese: anzi, i partiti anti-sovranisti già ridono di soddisfazione all'idea che l'Italia, dovendo esprimere un candidato, finisca per scegliere quello più lontano da Salvini. Non è difficile immaginare come si comporterebbe Moavero, politicamente parlando, una volta nominato e confermato: le sue convinzioni euroliriche e pro Bruxelles sono leggibili come un libro aperto. Ma veniamo al secondo punto della strategia di Moavero, che ha a che fare con l'immigrazione. Un paio di giorni fa, con tanto di intervista solenne sul Corriere della Sera, il titolare della Farnesina ha pomposamente presentato un suo «piano». Nulla di nuovo, nulla di sconvolgente, anzi. Ma ciò che contava era il messaggio nemmeno troppo criptico o subliminale all'Ue: non trattate con Salvini nemmeno su quello che sarebbe istituzionalmente il suo dossier, ma trattate con me, così lo bypassiamo e lo scavalchiamo. In realtà, in 48 ore, quattro elementi hanno smontato almeno questa parte della strategia di Moavero. Primo: una qualche policy di ripartizione in ambito Ue (relocation) già esisterebbe, ma, com'è noto, non se n'è fatto nulla, per l'opposizione di diversi Paesi. Secondo (ed è l'aspetto decisivo): stiamo parlando solo di rifugiati e richiedenti asilo, cioè di una estrema minoranza (raramente arriva al 10%) della massa migratoria che impatta sull'Ue. Quindi il fantomatico piano è del tutto marginale e parziale. Terzo: il commissario uscente all'immigrazione, Dimitris Avramopoulos, si è subito detto «perplesso» sulle proposte di Moavero. Quarto (stop ancora più pesante): la stroncatura, solo velata da un alone di gentilezza formale, di Michael Roth, ministro degli Affari europei tedesco, che, dopo aver indorato la pillola («Sono veramente grato per il ruolo molto costruttivo e responsabile del ministro degli Esteri italiano), ha seccamente rispedito il piano al mittente («Ho l'impressione che soluzioni che non sono di immediata applicazione, non ci portino sostanzialmente molto avanti»). Quanta durezza, dopo tanto sforzo da parte del povero Moavero…<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/moavero-milanesi-sogna-bruxelles-e-scredita-i-leghisti-per-una-nomina-ue-2639201916.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-bilico-il-voto-sulla-von-der-leyen-e-accusata-di-simpatie-sovraniste" data-post-id="2639201916" data-published-at="1758178336" data-use-pagination="False"> In bilico il voto sulla von der Leyen. È accusata di simpatie sovraniste Se il buongiorno si vede dal mattino, la presidenza della Commissione europea targata Ursula von der Leyen non promette davvero nulla di buono. Nel tardo pomeriggio di oggi sapremo finalmente se l'intento di conquistare il soglio europeo sarà andato a buon fine, ma visto l'andamento dei negoziati il suo mandato si preannuncia all'insegna dell'instabilità politica. Sono lontani anni luce i tempi in cui la ratifica del nominativo proposto dal Consiglio rappresentava un passaggio pressoché scontato da parte del Parlamento europeo. L'elezione di oggi promette infatti di trasformarsi in una battaglia all'ultima preferenza, ragion per cui la von der Leyen sta passando le ore che la separano dal voto a bussare un po' a tutte le porte. Mentre sembra confermato il «no» secco di Verdi e Sinistra unitaria europea, alla vigilia del voto sono solo due i partiti che sicuramente esprimeranno l'assenso nei confronti della sua candidatura. Messi insieme, Popolari europei e Renew Europe (gli ex Alde pilotati da Emmanuel Macron) fanno 290 seggi, dunque ancora ben lontani dai 376 necessari per conquistare lo scranno più alto di Bruxelles. Mentre l'appoggio dei primi è scontato, qualche giorno fa i secondi hanno pensato bene di mettere nero su bianco le condizioni per garantire il sostegno. Tramite una lettera inviata martedì scorso e firmata dal capogruppo rumeno Dacian Ciolos i liberali hanno chiesto risposte certe, nell'ordine, sui seguenti punti: un incarico di rilievo per Margrethe Vestager (candidato di punta del partito alle elezioni europee) che sia «perfettamente alla pari» con quello riconosciuto al socialista Frans Timmermans (l'altro Spitzenkandidat); un meccanismo per garantire il rispetto dello Stato di diritto nell'intera Ue; la riduzione del 55% delle emissioni di CO2; infine, nuovi accordi di libera circolazione. La von der Leyen, pur precisando effettivamente che uno dei due vicepresidenti esecutivi «ha il compito di sostituire il presidente in sua assenza», furbescamente non ha specificato quale tra i due contendenti avrebbe la meglio in questa partita. Profondamente divisi i socialisti (153 seggi), che nella precedente legislatura facevano maggioranza con i popolari. La ferita per la bocciatura di Frans Timmermans (oggi primo vicepresidente) è ancora fresca, ma a pesare sono soprattutto le lotte intestine all'esecutivo guidato da Angela Merkel, con la Spd che accusa la cancelliera di non aver condiviso la nomina. Senza contare la polemica tutta tedesca sugli incarichi milionari firmati al ministero della Difesa. Proprio per dare un segnale di distensione nei confronti dell'alleato, la von der Leyen si è dimessa ieri dall'incarico di governo. Intanto, sempre nel pomeriggio di ieri il premier portoghese António Costa (accanito sostenitore di Timmermans e del meccanismo degli Spitzenkandidaten), ha giudicato positiva la risposta della von der Leyen e ammesso che gli sforzi dimostrati «giustificano il nostro sostegno» alla sua elezione. Ma più che le beghe interne all'esecutivo federale, a infastidire i socialisti sono le strizzatine d'occhio alla candidata da parte del gruppo Identità e democrazia, tra le cui fila siedono gli eurodeputati della Lega di Matteo Salvini e del Rassemblement national di Marine Le Pen. Nei giorni scorsi i contatti ci sono stati, anche se alla fine l'incontro con il capogruppo Marco Zanni è saltato. Le posizioni sull'immigrazione non sono poi così distanti e un'eventuale ingresso nella maggioranza potrebbe coincidere con l'assegnazione di un posto di rilievo in Commissione a Giancarlo Giorgetti. La presenza dei sovranisti sarebbe però difficile da mandare giù per i socialisti, che si troverebbero a quel punto a lavorare a stretto contatto con i loro più acerrimi avversari politici. Ad ogni modo, sommando Ppe, Renew Europe, metà dei socialisti e metà dei conservatori, più il M5s (14 seggi), la von der Leyen dovrebbe contare su circa 410 voti. La vera domanda è: quante chance di sopravvivenza avrebbe nel lungo periodo questa strana creatura europea a cinque teste?
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