2021-07-30
Mittal guadagna all’estero 5 miliardi in soli 6 mesi mentre l’Ilva rimane ferma
Arcelor supera dell'8% le stime degli analisti. Un risultato favorito dall'Ue e dal blocco dell'impianto di Taranto. Che produce al minimo e ha gli operai in cassa integrazione.Ai piani alti di Arcelor Mittal ieri è stata una giornata di festa: nel rilasciare i risultati del secondo trimestre, il gruppo siderurgico ha letteralmente lasciato di sasso il mercato, evidenziando un Ebitda (utile operativo lordo) di 5,1 miliardi di euro. Non che gli operatori non si attendessero una performance particolarmente solida: la stabilità dei prezzi del minerale di ferro (la principale materia prima per produrre acciaio), accompagnata al rally del prezzo del prodotto finito (il laminato a caldo è passato in un anno da 400 euro a tonnellata a 1.100 euro), da alcuni mesi mostrava un guadagno che ha toccato punte di 800 euro per ogni tonnellata vendita. Ma superare dell'8% le stime degli analisti ha rappresentato una performance che definire stellare è dir poco e che giunge in seguito ai già oltre 3 miliardi di Ebitda prodotti nel primo trimestre. Nel complesso, dunque, Arcelor Mittal ha riportato nel primo semestre dell'anno un margine operativo lordo di 8,3 miliardi, pari alla performance migliore dal 2008. Gli ottimi risultati hanno consentito al gruppo di annunciare un piano di buyback, ossia di riacquisto di azioni proprie, da 2,2 miliardi, in parte finanziato dalla vendita di attività americane. Raggiante naturalmente il Ceo, Aditya Mittal: «Guardando avanti vediamo l'outlook della domanda migliorare ulteriormente e perciò abbiamo alzato le stime di consumo mondiale per l'anno dal +4,5-5,5% al +7,5-8,5%». Insomma, per il gruppo siderurgico è un quadro quello che si dipana negli anni a venire che definire favorevole è dir poco. Una performance questa, a cui l'Ue, va detto, ha contribuito: la conferma per ben tre anni delle quote di salvaguardia al fine di ergere un muro nei confronti dell'import dai Paesi extra Ue (decisione che ha tra l'altro provocato la reazione della Cina di rimuovere i sussidi all'export di acciaio) ha aggravato la tensione sul mercato europeo, che quest'anno si appresta a registrare un deficit di 20 milioni di tonnellate. Vane sono anche le speranze che, forte di una marginalità tanto elevata, la compagnia possa aumentare la produzione: secondo uno studio recente di Bank of America, le acciaierie europee viaggiano attualmente ben oltre il 90% della capacità, lasciando così poco spazio a nuovi incrementi di produzione. Certo, si dirà, i produttori siderurgici provengono da otto anni di profitti stabili o in calo e quindi rientra nelle logiche del mercato alternare fasi sfavorevoli a periodi invece positivi, tenendo anche conto della liquidità che sarà necessaria per finanziare i piani di transizione ambientale verso la tecnologia del forno elettrico e del preridotto. Ma è proprio qui che casca l'asino: già perché l'eccezionale performance di Arcelor Mittal poggia le basi certamente da un lato sull'esplosione dei consumi mondiali, forti degli oltre 31.000 miliardi di dollari in stimoli fiscali e monetari implementati a livello mondiale dallo scoppio della pandemia a oggi; ma un ruolo non di secondo piano nel dare la stura ai prezzi è giocato anche dall'uscita di scena dell'ex impianto Ilva di Taranto, che dai quasi 10 milioni di tonnellate prodotte all'epoca dei Riva oggi è sostanzialmente ferma. Colare 2,5 milioni di tonnellate per uno stabilimento come quello di Taranto significa di fatto non produrre e quindi acuire la carenza di acciaio nel mercato italiano. Un vero e proprio fallimento politico quello dell'ex Ilva, insomma, che assume i connotati della beffa se si considera il fatto che, in un contesto così favorevole per la siderurgia, quello che una volta era il primo stabilimento europeo lascia i propri dipendenti in cassa integrazione, alimentando la rabbia tra i sindacati. La nota dolente è che in una situazione tanto complicata il governo annaspa nella più totale impotenza visto che i consiglieri di amministrazione pubblici di Acciaierie d'Italia Franco Bernabè, Carlo Mapelli e Stefano Cao (nominati da Invitalia, che ha il 38% del capitale e del 50% dei diritti di voto della holding di controllo) non avranno voce in capitolo nella gestione operativa fino al maggio 2022, ossia quando Invitalia salirà al 60% della holding stessa. «In questi giorni sto trattando per le forniture per il primo trimestre del 2022», spiega il titolare di un centro di servizio, «ma di quello che chiedo me ne viene concessa solo la metà. Temo che alla ripresa dei lavori a settembre saranno in molti a tagliare i turni di lavoro o addirittura a chiudere perché se è vero che il rincaro dei prezzi è una dinamica generale che non fa sconti a nessuno, la drammatica carenza di materiale è una dinamica particolarmente grave in Italia, che lascerà parecchi morti per strada tra le aziende del settore, soprattutto nel settore della distribuzione che da anni aziende come Arcelor provano a estromettere dal mercato. E forse stavolta ci riusciranno. Il governo lo ha capito questo?».