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2024-12-12
L’Italia: una nazione fondata sui luoghi comuni
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(Getty Images)
I tedeschi pignoli e inflessibili, i francesi colti ma snob, gli spagnoli simpatici e indolenti. E gli italiani? Di stereotipi sul nostro popolo ce ne sono a bizzeffe, alcuni simpatici (mangiamo e viviamo bene, gesticoliamo un sacco, siamo passionali) e altri meno (siamo disonesti, inaffidabili, incoerenti, dall’etica sin troppo flessibile). I luoghi comuni, tuttavia, non sono solo materiale da barzelletta. Quando si radicano in convinzioni forti, attraversano le ere, condizionano l’atteggiamento degli altri e di noi stessi, si autoavverano come profezie dotate di vita propria, gli stereotipi entrano a far parte a pieno titolo dell’inconscio collettivo di un popolo.
Ai luoghi comuni che hanno attraversato la storia d’Italia è dedicato un libretto uscito diversi anni fa: si intitola Miti e storia dell’Italia unita, curato da Giovanni Belardelli, Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia e Giovanni Sabbatucci. Strutturato in 27 capitoli dedicati ognuno a una «idea ricevuta», come dicono i francesi, sulla storia italiana, il saggio spazia dal Risorgimento ai giorni nostri. Troviamo quindi capitoli dedicati alla mancata rivoluziona agraria dopo l’unità, al «saccheggio del Sud» da parte dei Savoia, alla proverbiale codardia italiana, alla «vittoria mutilata», alla «Resistenza tradita» e così via, fino ai presunti misteri del caso Moro.
Non si tratta di semplici bufale basate sul nulla, spesso ci sono delle basi reali, come del resto accade in tutti gli stereotipi. Ma si tratta comunque di discorsi che vanno messi alla prova dei fatti. Prendiamo per esempio il caso del saccheggio del Sud, ovvero del mito di un Meridione borbonico florido, ridotto scientemente alla povertà dai Savoia, in favore di un Nord che avrebbe sviluppato la propria realtà industriale sulle spalle del Sud espropriato. Ora, scrive Cafagna, «questo quadro, variamente presente in molti scritti meridionalistici - da Nitti a Fortunato, da Colajanni a Salvemini - non è ovviamente privo di alcuni fondamenti fattuali, ma costituisce - nel suo insieme - una esasperata costruzione polemica, che vuole “provare troppo”. Vuole provare cioè, o come minimo vuole sottintendere, una sorta di volontà di colonizzazione da parte del capitalismo del Nord e la piena funzionalità che mercato e risorse del Mezzogiorno avrebbero avuto nello sviluppo del capitalismo industriale del Nord. Ciò non corrisponde alla realtà della dinamica storica del rapporto fra le due grandi aree del Paese, né alla logica sia dello sviluppo settentrionale sia della relativa arretratezza meridionale».
Galli della Loggia, invece, si occupa del mito della «Resistenza tradita», ovvero dell’idea – prima fatta propria dal Pci contro la Dc, poi dal movimento studentesco contro lo stesso Pci – che nel passaggio dal regime fascista alla democrazia non si fosse «andati fino in fondo», lasciando intatti non solo molti degli uomini del fascismo, ma anche molte delle strutture politiche ed economiche di esso. Si dipingeva così il ritratto di una resistenza unitaria, tutta volta alla palingenesi sociale (visione assolutamente lontana dalla realtà) e poi si aggiungeva l’atto d’accusa contro quelle forze politiche che non avevano voluto dare attuazione a tali aspirazioni. L’idea, insomma, era che non ci fosse antifascismo reale senza comunismo. E che tutto quello che era lontano dal comunismo fosse anche un tradimento dell’antifascismo stesso. Ovviamente le basi storiche di questo discorso polemico sono del tutto friabili. Ed è paradossale che, come abbiamo detto e come Galli della Loggia sottolinea, il Pci sia stato a lungo propalatore di questo mito, per poi divenirne vittima, quando una nuova generazione di militanti di sinistra cominciò ad accusare il partito di connivenza col potere e di tradimento della causa antifascista.
Di queste frasi fatte e temi ricorrenti la storia d’Italia è piena. E forse lo è anche la storia degli altri Paesi. Ma certamente l’Italia sembra avere un rapporto con la propria identità più tormentato, sempre in bilico tra masochismo storico, vittimismo passivo aggressivo e complesso dell’incompiutezza. E se i luoghi comuni attraversano il cammino di qualsiasi soggetto collettivo, l’Italia è forse l’unica nazione in cui essi abitino stabilmente nel cuore dell’autocoscienza comunitaria.
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Un libro collettaneo di qualche anno fa passa al vaglio tutti gli stereotipi della nostra storia: dal «saccheggio del Sud» alla «resistenza tradita».I tedeschi pignoli e inflessibili, i francesi colti ma snob, gli spagnoli simpatici e indolenti. E gli italiani? Di stereotipi sul nostro popolo ce ne sono a bizzeffe, alcuni simpatici (mangiamo e viviamo bene, gesticoliamo un sacco, siamo passionali) e altri meno (siamo disonesti, inaffidabili, incoerenti, dall’etica sin troppo flessibile). I luoghi comuni, tuttavia, non sono solo materiale da barzelletta. Quando si radicano in convinzioni forti, attraversano le ere, condizionano l’atteggiamento degli altri e di noi stessi, si autoavverano come profezie dotate di vita propria, gli stereotipi entrano a far parte a pieno titolo dell’inconscio collettivo di un popolo.Ai luoghi comuni che hanno attraversato la storia d’Italia è dedicato un libretto uscito diversi anni fa: si intitola Miti e storia dell’Italia unita, curato da Giovanni Belardelli, Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia e Giovanni Sabbatucci. Strutturato in 27 capitoli dedicati ognuno a una «idea ricevuta», come dicono i francesi, sulla storia italiana, il saggio spazia dal Risorgimento ai giorni nostri. Troviamo quindi capitoli dedicati alla mancata rivoluziona agraria dopo l’unità, al «saccheggio del Sud» da parte dei Savoia, alla proverbiale codardia italiana, alla «vittoria mutilata», alla «Resistenza tradita» e così via, fino ai presunti misteri del caso Moro.Non si tratta di semplici bufale basate sul nulla, spesso ci sono delle basi reali, come del resto accade in tutti gli stereotipi. Ma si tratta comunque di discorsi che vanno messi alla prova dei fatti. Prendiamo per esempio il caso del saccheggio del Sud, ovvero del mito di un Meridione borbonico florido, ridotto scientemente alla povertà dai Savoia, in favore di un Nord che avrebbe sviluppato la propria realtà industriale sulle spalle del Sud espropriato. Ora, scrive Cafagna, «questo quadro, variamente presente in molti scritti meridionalistici - da Nitti a Fortunato, da Colajanni a Salvemini - non è ovviamente privo di alcuni fondamenti fattuali, ma costituisce - nel suo insieme - una esasperata costruzione polemica, che vuole “provare troppo”. Vuole provare cioè, o come minimo vuole sottintendere, una sorta di volontà di colonizzazione da parte del capitalismo del Nord e la piena funzionalità che mercato e risorse del Mezzogiorno avrebbero avuto nello sviluppo del capitalismo industriale del Nord. Ciò non corrisponde alla realtà della dinamica storica del rapporto fra le due grandi aree del Paese, né alla logica sia dello sviluppo settentrionale sia della relativa arretratezza meridionale».Galli della Loggia, invece, si occupa del mito della «Resistenza tradita», ovvero dell’idea – prima fatta propria dal Pci contro la Dc, poi dal movimento studentesco contro lo stesso Pci – che nel passaggio dal regime fascista alla democrazia non si fosse «andati fino in fondo», lasciando intatti non solo molti degli uomini del fascismo, ma anche molte delle strutture politiche ed economiche di esso. Si dipingeva così il ritratto di una resistenza unitaria, tutta volta alla palingenesi sociale (visione assolutamente lontana dalla realtà) e poi si aggiungeva l’atto d’accusa contro quelle forze politiche che non avevano voluto dare attuazione a tali aspirazioni. L’idea, insomma, era che non ci fosse antifascismo reale senza comunismo. E che tutto quello che era lontano dal comunismo fosse anche un tradimento dell’antifascismo stesso. Ovviamente le basi storiche di questo discorso polemico sono del tutto friabili. Ed è paradossale che, come abbiamo detto e come Galli della Loggia sottolinea, il Pci sia stato a lungo propalatore di questo mito, per poi divenirne vittima, quando una nuova generazione di militanti di sinistra cominciò ad accusare il partito di connivenza col potere e di tradimento della causa antifascista.Di queste frasi fatte e temi ricorrenti la storia d’Italia è piena. E forse lo è anche la storia degli altri Paesi. Ma certamente l’Italia sembra avere un rapporto con la propria identità più tormentato, sempre in bilico tra masochismo storico, vittimismo passivo aggressivo e complesso dell’incompiutezza. E se i luoghi comuni attraversano il cammino di qualsiasi soggetto collettivo, l’Italia è forse l’unica nazione in cui essi abitino stabilmente nel cuore dell’autocoscienza comunitaria.
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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