2025-07-02
Foraggiati oppure schiavi: giochi sporchi sui migranti
«Avvenire» dice che il decreto Flussi non basta: ci sono da sostituire gli italiani «che evitano certi lavori come la peste perché all’estero trovano paghe più alte e condizioni migliori». Quindi importiamo disperati anziché alzare i salari.Schiaffo alle difficoltà del settore enologico europeo: Bruxelles regala denari a un competitor emergente. Non manca la solita sfumatura ideologica: «Per beneficiare dei fondi l’azienda deve essere gestita da neri».Lo speciale contiene due articoli.I profeti dell’immigrazione di massa hanno le idee un po’ confuse. Hanno passato anni a giustificare gli sbarchi clandestini e i recuperi delle Ong sostenendo che fossero necessari poiché mancavano vie legali per entrare in Italia, e ora che vengono - nuovamente - smentiti in modo plateale non si rassegnano, anzi insistono con la loro assurda difesa delle frontiere aperte oltre ogni ragionevole dubbio. Emblematico in tal senso Avvenire, che ormai da tempo è il principale sponsor delle frontiere aperte, anche per via degli interessi vescovili in materia. Per la penna di Paolo Lambruschi, il quotidiano curiale celebra il nuovo decreto Flussi che garantirà l’accesso a 500.000 nei prossimi tre anni. «È una buona notizia», dice Lambruschi, «perché il governo non solo prende atto della realtà e delle esigenze del nostro mercato del lavoro, ma allarga le possibilità di ingresso legale di stranieri nel nostro Paese, che resta la via maestra - al di là degli strumenti tecnici scelti - per favorire l’integrazione degli immigrati. L’azione politica dell’esecutivo è, però, in contraddizione evidente con le dichiarazioni di chiusura all’ingresso di nuovi immigrati - che rispondono alle esigenze securitarie e placano le paure di una parte della cittadinanza, altro serbatoio di voti - ritenendo che sul mercato del lavoro l’offerta sia già saturata dagli immigrati presenti e dagli italiani in cerca di occupazione». Eccola qui la confusione, voluta o involontaria che sia. Per prima cosa, il decreto Flussi non è una novità: è sempre esistito e ha consentito l’ingresso di migliaia di persone in Italia. Alcune di queste sono rimaste, altre invece - cosa molto frequente per il lavoratori stagionali - ha scelto di rientrare in patria e aspettare una successiva convocazione per tornare di nuovo in Italia. Lo conferma persino Lambruschi: «Dati recenti della campagna Ero Straniero hanno rivelato che l’anno scorso solo il 10% scarso delle domande del 120.000 lavoratori entrati con il decreto flussi nel 2023 con contratti di lavoro si è trasformato in permesso di soggiorno».Da tutto ciò è piuttosto facile evincere come l’immigrazione di massa tramite barconi o recupero da parte delle Ong o altri non c’entri assolutamente niente con il decreto Flussi. Quest’ultimo richiama persone per lo più qualificate a cui interessa trovare un impiego e che spesso sono sempre le stesse di anno in anno, specie in alcuni settori dell’agricoltura in cui il personale deve essere esperto e formato, tanto che gli imprenditori preferiscono rivolgersi ai medesimi gruppi. Si potrebbe discutere, volendo essere tignosi, riguardo alla necessità di tutta questa manodopera straniera quando certi lavori potrebbero essere svolti da italiani, ma tant’è. In ogni caso chi giunge irregolarmente con il barcone lo fa per i più svariati motivi, e non sempre per fermarsi qui a costruire una carriera e una nuova vita. Molti vorrebbero transitare in Italia e andare altrove e se non ce la fanno, poco qualificati come sono, finiscono a ingrossare le file dell’esercito di schiavi che opera in alcune zone della nazione, per altro note a tutti da tempo. L’agricoltura e altri settori che solitamente vengono descritti come bisognosi di braccia straniere sono in realtà automatizzati e all’avanguardia, e non necessitano più di centinaia di uomini di fatica che si spacchino la schiena nei campi. Chi se ne serve, di solito, lo fa al di fuori della legalità e non ha alcun interesse a regolarizzare i braccianti, come dimostra il fallimento delle recenti sanatorie. Avvenire, tuttavia, sembra ignorare la realtà dei fatti e preferisce tifare per gli ingressi liberi arrivando a sostenere tesi vagamente sconcertanti. Scrive infatti che di stranieri c’è bisogno come il pane «soprattutto nei comparti interessati dal decreto Flussi, quindi l’agricoltura, il lavoro domestico e quello stagionale, che sono sempre alla ricerca di mano d’opera e che i lavoratori italiani evitano come la peste ormai da anni preferendo emigrare nei Paesi dell’Ue dove trovano paghe più alte e condizioni migliori». Per fortuna ciò che Lambruschi afferma è solo parzialmente vero. Come dicevamo, in molti comparti gli stipendi sono piuttosto alti e le condizioni decisamente dignitose, dato che la grandissima parte degli imprenditori italiani (agricoli in particolare) è composta di persone oneste e capaci. Ma il punto è un altro. In buona sostanza il giornale dei vescovi afferma che gli immigrati servono perché ci sono lavori che gli italiani non vogliono più fare. Lavori poco pagati e sgradevoli, da svolgersi in condizioni difficili, che però gli stranieri sono disposti a fare per disperazione. Se questa ricostruzione corrispondesse totalmente al vero (e grazie a Dio, ripetiamo, non è così), non servirebbero altre ragioni per opporsi con tutta la forza possibile all’immigrazione. Questa è l’umanità del giornale cattolico? Sostenere che serva un esercito industriale di riserva disposto a lavorare per pochi spiccioli in situazioni degradanti? Chi è davvero disumano, allora? Chi vuole fermare gli ingressi e impedire lo sfruttamento o chi lo avalla fingendosi buono e accogliente?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/migranti-lavoro-sfruttamento-2672525791.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dallue-15-milioni-ai-viticoltori-del-sudafrica-solo-se-di-colore" data-post-id="2672525791" data-published-at="1751399501" data-use-pagination="False"> Dall’Ue 15 milioni ai viticoltori del Sudafrica (solo se di colore) Il settore enologico è una vera eccellenza italiana ed europea che, tuttavia, negli ultimi tempi ha qualche problemino, tra lo spettro dei dazi e le campagne salutiste. Fa piacere, quindi, che l’Ue stanzi 15 milioni di euro per aiutare il settore. Farà meno piacere, tuttavia, scoprire che questi soldi finiranno ai viticoltori… sudafricani. E in particolar modo agli imprenditori sudafricani neri, alle donne e alle varie «minoranze» impiegate nel settore vinicolo del Paese. È una vicenda che ha dell’assurdo, in effetti. South Africa Wine - l’ente nazionale che rappresenta i produttori enologici sudafricani - ha infatti annunciato di aver ricevuto «un significativo impulso per l’industria vinicola grazie ai finanziamenti messi a disposizione attraverso i fondi dell’Unione europea. I finanziamenti del valore di 15 milioni di euro contribuiranno a promuovere la crescita inclusiva, a sbloccare nuove opportunità di business e a sostenere lo sviluppo di marchi, aziende agricole, enti educativi e imprese di proprietà di neri» (black-owned brands, farms, education and enterprises). I fondi sono disponibili sotto forma di sovvenzioni e prestiti combinati. I richiedenti devono inoltre soddisfare determinati standard. Tra cui... il colore della pelle. «Ci sono diversi criteri di qualificazione e selezione che i candidati dovranno soddisfare; il principale è che devono essere imprese di proprietà e gestione nera che operano nel settore del vino e degli alcolici», si legge chiaramente nel comunicato della Land and Development Bank of South Africa, la banca di sviluppo governativa che parteciperà al progetto. I soldi provengono dal Fondo europeo per il vino e gli alcolici. Di questi 15 milioni, 10 saranno consacrati allo sviluppo delle imprese e 5 alle iniziative connesse con la commercializzazione e la distribuzione del vino sudafricano. Sandra Kramer, ambasciatrice dell’Ue in Sudafrica, ha commentato: «La nostra partnership per la trasformazione del settore vinicolo e dei distillati sudafricano è davvero rivoluzionaria. Sosterremo il governo sudafricano per garantire una trasformazione sostenibile del settore, che includa il sostegno a un accesso più equo alla terra e alle infrastrutture, all’istruzione e alla formazione, nonché allo sviluppo socioeconomico. Garantirà inoltre una commercializzazione e una distribuzione sostenibili di vini e distillati sudafricani nei mercati dei Paesi terzi, in particolare per i marchi che sono di proprietà di neri».Il finanziamento è frutto dell’accordo economico Ue-Sadc che include benefici all’esportazione senza tariffe e sostegno finanziario per far crescere l’industria locale. Si tratta di un accordo siglato nel lontano 1999. Il testo prevedeva una quota di importazione annuale, fissata a 119 milioni di litri per il 2024, affinché il vino sudafricano entrasse in Europa senza costi doganali. Più, appunto, i 15 milioni, di cui troviamo menzione già negli atti del Parlamento sudafricano del 1999: «Come ulteriore sforzo per raggiungere gli obiettivi principali concordati per il programma di sviluppo per il Sudafrica, che sarà finanziato dall’Ue, l’Ue fornirà 15 milioni di euro per la ristrutturazione del settore dei vini e dei liquori sudafricani e per la commercializzazione e la distribuzione di vini e liquori sudafricani». Nel testo dell’accordo riportato sui portali ufficiali sudafricani non si faceva menzione della motivazione «etica» della donazione. Che sta invece particolarmente a cuore sulla sponda europea. In una relazione della Commissione al Parlamento europeo sull’attuazione degli accordi di libero scambio datata 2018, a proposito dell’accordo di partenariato economico con la Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (Sadc), un intero paragrafo è dedicato alle «donne produttrici di vino in Sudafrica». Leggiamo: «In Sudafrica si produce vino da oltre tre secoli. Eppure, fino alla fine dell’apartheid, non esistevano produttori di vino neri qualificati. Le giovani donne stanno ora infrangendo questa barriera». In Francia il finanziamento europeo ha fatto molto rumore. È infatti quanto meno controintuitivo che l’Ue finanzi dei competitor emergenti (il Sudafrica è il settimo produttore al mondo, nel 2023 ha immesso sul mercato circa 933,8 milioni di litri di vino) in un settore in cui eccelle. Jérôme Despey, vicepresidente della Fnsea, il principale sindacato agricolo del Paese, ha parlato di sovvenzione «indegna e incomprensibile»: «Nel momento in cui noi viviamo una ampia crisi, trovo questa decisione inammissibile, una vera provocazione per la filiera viticola europea».La misura è ancora più difficile da comprendere se pensiamo che dalla stessa Ue arrivano le campagne salutiste che stanno già abbondantemente colpendo il settore. La curvatura woke dell’operazione contribuisce infine a rendere ancora più contraddittoria la vicenda, soprattutto se consideriamo la complessità della questione sudafricana, dove la convivenza tra bianchi e neri è tutt’altro che pacificata e dove la caccia al bianco è una pratica ampiamente tollerata dalle autorità: affrontarla con toni irenistici e con favolette su giovani imprenditrici nere che rompono soffitti di cristallo non appare saggio. Da quando in qua, poi, l’Ue fornisce finanziamenti secondo criteri razziali?«Ancora una volta il denaro dei contribuenti europei viene utilizzato per azioni discutibili. Non si riesce a vedere il valore aggiunto e oltre al danno puntuale arriva la beffa. Se l’agroalimentare europeo sogna di essere difeso da Bruxelles, l’impatto con una realtà fatta di concorrenza iniqua si materializza anche in questa occasione», ha commentato alla Verità l’europarlamentare leghista Paolo Borchia.
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
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