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2022-11-04
Per evitare il crollo al voto di midterm Biden chiama Obama a fargli da badante
Barack Obama e Joe Biden (Getty Images)
Volete una prova che il Partito democratico americano è terrorizzato dalle elezioni di metà mandato di martedì prossimo? Quella prova c’è. Ed è il ritorno in campo di Barack Obama. Negli ultimi giorni, l’ex presidente americano ha tenuto alcuni comizi in cui ha rispolverato una strategia degna di Enrico Letta: la demonizzazione dell’avversario. «Se avete negazionisti elettorali che servono come vostro governatore, senatore, segretario di Stato e procuratore generale, allora la democrazia come la conosciamo potrebbe non sopravvivere in Arizona», ha detto l’altro ieri in un discorso a Phoenix. Anche il giorno prima, parlando in Nevada, aveva sottolineato la necessità di «salvare la democrazia». Ora, tralasciando il fatto che i «negazionisti elettorali» stanno anche nel Partito democratico (nel settembre 2019 Hillary Clinton disse che Donald Trump era un «presidente illegittimo»), andrebbero forse sottolineate alcune criticità.
Che Obama sia nervoso è innanzitutto comprensibile dai sondaggi. Secondo due rilevazioni di Cnn e Quinnipiac University, nelle intenzioni di voto generiche i repubblicani sono attualmente avanti di quattro punti. Un segnale positivo che trova conferma anche nelle più importanti gare per il Senato, dove i principali candidati trumpisti stanno macinando terreno. Secondo il sito Fivethirtyeight, Adam Laxalt è avanti dello 0,6% in Nevada, JD Vance detiene un vantaggio di oltre il 2% in Ohio e Mehmet Oz sarebbe indietro di appena lo 0,7% in Pennsylvania (quando a settembre scontava invece uno svantaggio di ben 10 punti). I repubblicani sono in rimonta anche in Arizona, sebbene qui vada tenuto presente che il senatore uscente, Mark Kelly, è un dem di centrodestra: un candidato che dunque risulta più difficile da scalzare per l’elefantino. Infine si sta registrando un ampio ricorso al voto anticipato e il tasso di repubblicani che ne sta facendo uso è in crescita rispetto alle tornate del 2020 e del 2018.
È chiaro che, davanti a una simile situazione, i dem non dormano sonni troppo tranquilli. Ed ecco che Obama ha fatto la sua ennesima ricomparsa. Ci sarebbe tuttavia da chiedersi se sia realmente una strategia efficace rivedere l’ex presidente che parla in continuazione di «pericolo per la democrazia» in caso di trionfo repubblicano. In primis, questo ritorno evidenzia ancora una volta la crisi in cui è piombata la classe dirigente dell’asinello, che non trova niente di meglio se non riproporre un ex presidente che - avendo già svolto due mandati - non è tecnicamente rieleggibile. Anziché investire sul rinnovamento, le alte sfere dem preferiscono quindi guardare al passato (altrimenti non esprimerebbero una speaker della Camera e un presidente ottuagenari come Nancy Pelosi e Joe Biden). Andrebbe poi sfatato il mito che Obama sia ancora un idolo per la totalità della sinistra americana. In realtà, non è più così. I sandersiani non gli perdonano di aver dato il suo endorsement alla Clinton nel 2016 e lo accusano - non senza ragione - di essersi lasciato assorbire da quell’establishment a cui, nel 2008, aveva dichiarato guerra.
È inoltre paradossale che Obama scenda oggi in campo per «salvare» il Partito democratico dai disastri di Biden. Come rivelato da Nbc News nel marzo 2020, Obama si diede molto da fare dietro le quinte, durante le primarie dem di allora, per far emergere il suo ex vice (che in Iowa e New Hampshire aveva rimediato delle sonore batoste). E attenzione: questo «aiuto» non avvenne perché Obama nutra chissà quale stima di Biden: ad agosto 2020, Politico raccontò infatti di un rapporto non esattamente idilliaco tra i due. Non si può quindi escludere che Biden sia stato sostenuto proprio in forza della sua debole leadership. Una leadership che avrebbe poi permesso di lottizzare l’amministrazione americana, per accontentare il più possibile le rissose anime in seno al Partito democratico, in cui il peso politico dell’ex presidente resta comunque ben rilevante. Tra l’altro, non è neanche detto che stavolta la strategia della demonizzazione funzioni. Cavalcandola, i dem rimediarono infatti una sonora sconfitta a novembre dell’anno scorso in occasione delle elezioni governatoriali della Virginia. Segno che, forse, l’elettorato americano sta iniziando a stancarsi di sante alleanze e crociate contro gli avversari politici. Ascoltare Biden che incolpa Trump dell’aggressione al marito della Pelosi o Obama che parla di apocalisse democratica potrebbe spingere molti elettori indipendenti a votare per reazione i repubblicani. Non si può infine escludere che l’ex presidente voglia tirare la volata a sua moglie Michelle per le presidenziali del 2024. Resta però il fatto che il mezzo naufragio politico di Kamala Harris ha messo in evidenza tutta l’inconsistenza di quella «identity politics» che, fino a due anni fa, veniva considerata sulla cresta dell’onda. Un elemento, questo, che potrebbe danneggiare seriamente l’ex first lady. Insomma, per alcuni Obama continua ad essere una risorsa del Partito democratico. Bisognerebbe invece chiedersi se non sia proprio lui la causa dei suoi problemi.
Erdogan tiene sulle spine la Svezia: «Sulla Nato decideremo nel 2023»
Mosca punta il dito contro Londra, addebitando alle azioni britanniche l’aumento della tensione in Ucraina. La possibilità di un’escalation diventa concreta dopo la convocazione dell’ambasciatrice britannica in Russia: senza mezzi termini, il Cremlino indica la Gran Bretagna come artefice dell’attacco a Sebastopoli e del sabotaggio al gasdotto Nord Stream. «L’addestramento di militari a scopo di sabotaggio in mare può provocare conseguenze imprevedibili e pericolose», fa sapere il ministero degli Esteri russo, secondo cui «la Marina britannica ha fornito alla parte ucraina anche droni sottomarini». Ma le accuse di Mosca non finiscono qui. Proprio ieri l’Aiea ha effettuato ispezioni in tre siti nucleari in Ucraina per rispondere ai dubbi della Russia, che aveva accusato Kiev di preparare attacchi con una «bomba sporca». L’Aiea non ha però trovato «alcun segno di attività nucleari non documentate». Frizioni si registrano anche sull’accordo sul grano, con la Russia che ribadisce che non necessariamente questo verrà applicato dopo il 18 novembre. Mosca continua a mandare segnali di insoddisfazione poiché, come sottolineato dal ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov in visita in Giordania, l’accordo raggiunto lo scorso 22 luglio a Istanbul «va applicato anche al grano e ai fertilizzanti russi, ma non ci sono segnali in questa direzione». La Turchia intanto si intesta il successo delle trattative che hanno portato, almeno per il momento, a ricominciare con le esportazioni e fa sapere che «dopo la ripresa dell’iniziativa sul grano, sei navi sono partite dai porti ucraini». Ankara cerca di mantenere il suo ruolo di mediatore in questi fragili equilibri e di tirare l’acqua al suo mulino, evitando di prendere decisioni sull’ingresso della Svezia nella Nato prima delle prossime elezioni turche. Il Parlamento non ratificherà infatti i protocolli di adesione alla Nato della Svezia entro la fine dell’anno. Lo hanno detto funzionari turchi, sostenendo che ci sono poche possibilità che la ratifica arrivi anche prima delle prossime elezioni in Turchia, in programma a giugno del 2023. Secondo le fonti, la linea di condotta è dovuta al programma fitto del Parlamento turco fino a fine 2022 e al fatto che la Svezia non ha ancora soddisfatto le richieste di Ankara rispetto all’estradizione di militanti curdi, ritenuti da Erdogan terroristi. Nubi scure si addensano anche sul G20. Il presidente dell’Ucraina, Zelensky, ha dichiarato che non parteciperà al vertice in Indonesia se sarà presente Putin. «La mia posizione personale e quella dell’Ucraina è che se parteciperà il leader della Federazione Russa, allora l’Ucraina non ci sarà», ha detto, nonostante il nuovo invito del presidente indonesiano Joko Widodo. Negli Usa, intanto, si registra un netto mutamento delle posizioni dell’elettorato repubblicano nei confronti della solidarietà verso Kiev. Per il 48% degli elettori repubblicani, gli Stati Uniti stanno facendo troppo per aiutare, economicamente e militarmente, l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa. Alla vigilia delle elezioni di midterm in cui si prevede una vittoria repubblicana, questo è quanto risulta dal sondaggio realizzato dal Wall Street Journal .
Sul campo, si registra un massiccio attacco ucraino sulla riva destra del fiume Dnipro a Kherson: sono state colpite le imbarcazioni russe e le chiatte con cui le truppe russe stavano spostando attrezzature militari. Il ponte Antoniv è passato al momento sotto il controllo ucraino.
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I repubblicani volano nei sondaggi, così i dem si affidano all’ex presidente. Ma stavolta il trucco potrebbe non funzionare.Intanto Volodymyr Zelensky punta i piedi: «Non sarò al G20 se sarà presente anche Vladimir Putin».Lo speciale contiene due articoli.Volete una prova che il Partito democratico americano è terrorizzato dalle elezioni di metà mandato di martedì prossimo? Quella prova c’è. Ed è il ritorno in campo di Barack Obama. Negli ultimi giorni, l’ex presidente americano ha tenuto alcuni comizi in cui ha rispolverato una strategia degna di Enrico Letta: la demonizzazione dell’avversario. «Se avete negazionisti elettorali che servono come vostro governatore, senatore, segretario di Stato e procuratore generale, allora la democrazia come la conosciamo potrebbe non sopravvivere in Arizona», ha detto l’altro ieri in un discorso a Phoenix. Anche il giorno prima, parlando in Nevada, aveva sottolineato la necessità di «salvare la democrazia». Ora, tralasciando il fatto che i «negazionisti elettorali» stanno anche nel Partito democratico (nel settembre 2019 Hillary Clinton disse che Donald Trump era un «presidente illegittimo»), andrebbero forse sottolineate alcune criticità. Che Obama sia nervoso è innanzitutto comprensibile dai sondaggi. Secondo due rilevazioni di Cnn e Quinnipiac University, nelle intenzioni di voto generiche i repubblicani sono attualmente avanti di quattro punti. Un segnale positivo che trova conferma anche nelle più importanti gare per il Senato, dove i principali candidati trumpisti stanno macinando terreno. Secondo il sito Fivethirtyeight, Adam Laxalt è avanti dello 0,6% in Nevada, JD Vance detiene un vantaggio di oltre il 2% in Ohio e Mehmet Oz sarebbe indietro di appena lo 0,7% in Pennsylvania (quando a settembre scontava invece uno svantaggio di ben 10 punti). I repubblicani sono in rimonta anche in Arizona, sebbene qui vada tenuto presente che il senatore uscente, Mark Kelly, è un dem di centrodestra: un candidato che dunque risulta più difficile da scalzare per l’elefantino. Infine si sta registrando un ampio ricorso al voto anticipato e il tasso di repubblicani che ne sta facendo uso è in crescita rispetto alle tornate del 2020 e del 2018. È chiaro che, davanti a una simile situazione, i dem non dormano sonni troppo tranquilli. Ed ecco che Obama ha fatto la sua ennesima ricomparsa. Ci sarebbe tuttavia da chiedersi se sia realmente una strategia efficace rivedere l’ex presidente che parla in continuazione di «pericolo per la democrazia» in caso di trionfo repubblicano. In primis, questo ritorno evidenzia ancora una volta la crisi in cui è piombata la classe dirigente dell’asinello, che non trova niente di meglio se non riproporre un ex presidente che - avendo già svolto due mandati - non è tecnicamente rieleggibile. Anziché investire sul rinnovamento, le alte sfere dem preferiscono quindi guardare al passato (altrimenti non esprimerebbero una speaker della Camera e un presidente ottuagenari come Nancy Pelosi e Joe Biden). Andrebbe poi sfatato il mito che Obama sia ancora un idolo per la totalità della sinistra americana. In realtà, non è più così. I sandersiani non gli perdonano di aver dato il suo endorsement alla Clinton nel 2016 e lo accusano - non senza ragione - di essersi lasciato assorbire da quell’establishment a cui, nel 2008, aveva dichiarato guerra. È inoltre paradossale che Obama scenda oggi in campo per «salvare» il Partito democratico dai disastri di Biden. Come rivelato da Nbc News nel marzo 2020, Obama si diede molto da fare dietro le quinte, durante le primarie dem di allora, per far emergere il suo ex vice (che in Iowa e New Hampshire aveva rimediato delle sonore batoste). E attenzione: questo «aiuto» non avvenne perché Obama nutra chissà quale stima di Biden: ad agosto 2020, Politico raccontò infatti di un rapporto non esattamente idilliaco tra i due. Non si può quindi escludere che Biden sia stato sostenuto proprio in forza della sua debole leadership. Una leadership che avrebbe poi permesso di lottizzare l’amministrazione americana, per accontentare il più possibile le rissose anime in seno al Partito democratico, in cui il peso politico dell’ex presidente resta comunque ben rilevante. Tra l’altro, non è neanche detto che stavolta la strategia della demonizzazione funzioni. Cavalcandola, i dem rimediarono infatti una sonora sconfitta a novembre dell’anno scorso in occasione delle elezioni governatoriali della Virginia. Segno che, forse, l’elettorato americano sta iniziando a stancarsi di sante alleanze e crociate contro gli avversari politici. Ascoltare Biden che incolpa Trump dell’aggressione al marito della Pelosi o Obama che parla di apocalisse democratica potrebbe spingere molti elettori indipendenti a votare per reazione i repubblicani. Non si può infine escludere che l’ex presidente voglia tirare la volata a sua moglie Michelle per le presidenziali del 2024. Resta però il fatto che il mezzo naufragio politico di Kamala Harris ha messo in evidenza tutta l’inconsistenza di quella «identity politics» che, fino a due anni fa, veniva considerata sulla cresta dell’onda. Un elemento, questo, che potrebbe danneggiare seriamente l’ex first lady. Insomma, per alcuni Obama continua ad essere una risorsa del Partito democratico. Bisognerebbe invece chiedersi se non sia proprio lui la causa dei suoi problemi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/midterm-biden-obama-2658598569.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="erdogan-tiene-sulle-spine-la-svezia-sulla-nato-decideremo-nel-2023" data-post-id="2658598569" data-published-at="1667566581" data-use-pagination="False"> Erdogan tiene sulle spine la Svezia: «Sulla Nato decideremo nel 2023» Mosca punta il dito contro Londra, addebitando alle azioni britanniche l’aumento della tensione in Ucraina. La possibilità di un’escalation diventa concreta dopo la convocazione dell’ambasciatrice britannica in Russia: senza mezzi termini, il Cremlino indica la Gran Bretagna come artefice dell’attacco a Sebastopoli e del sabotaggio al gasdotto Nord Stream. «L’addestramento di militari a scopo di sabotaggio in mare può provocare conseguenze imprevedibili e pericolose», fa sapere il ministero degli Esteri russo, secondo cui «la Marina britannica ha fornito alla parte ucraina anche droni sottomarini». Ma le accuse di Mosca non finiscono qui. Proprio ieri l’Aiea ha effettuato ispezioni in tre siti nucleari in Ucraina per rispondere ai dubbi della Russia, che aveva accusato Kiev di preparare attacchi con una «bomba sporca». L’Aiea non ha però trovato «alcun segno di attività nucleari non documentate». Frizioni si registrano anche sull’accordo sul grano, con la Russia che ribadisce che non necessariamente questo verrà applicato dopo il 18 novembre. Mosca continua a mandare segnali di insoddisfazione poiché, come sottolineato dal ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov in visita in Giordania, l’accordo raggiunto lo scorso 22 luglio a Istanbul «va applicato anche al grano e ai fertilizzanti russi, ma non ci sono segnali in questa direzione». La Turchia intanto si intesta il successo delle trattative che hanno portato, almeno per il momento, a ricominciare con le esportazioni e fa sapere che «dopo la ripresa dell’iniziativa sul grano, sei navi sono partite dai porti ucraini». Ankara cerca di mantenere il suo ruolo di mediatore in questi fragili equilibri e di tirare l’acqua al suo mulino, evitando di prendere decisioni sull’ingresso della Svezia nella Nato prima delle prossime elezioni turche. Il Parlamento non ratificherà infatti i protocolli di adesione alla Nato della Svezia entro la fine dell’anno. Lo hanno detto funzionari turchi, sostenendo che ci sono poche possibilità che la ratifica arrivi anche prima delle prossime elezioni in Turchia, in programma a giugno del 2023. Secondo le fonti, la linea di condotta è dovuta al programma fitto del Parlamento turco fino a fine 2022 e al fatto che la Svezia non ha ancora soddisfatto le richieste di Ankara rispetto all’estradizione di militanti curdi, ritenuti da Erdogan terroristi. Nubi scure si addensano anche sul G20. Il presidente dell’Ucraina, Zelensky, ha dichiarato che non parteciperà al vertice in Indonesia se sarà presente Putin. «La mia posizione personale e quella dell’Ucraina è che se parteciperà il leader della Federazione Russa, allora l’Ucraina non ci sarà», ha detto, nonostante il nuovo invito del presidente indonesiano Joko Widodo. Negli Usa, intanto, si registra un netto mutamento delle posizioni dell’elettorato repubblicano nei confronti della solidarietà verso Kiev. Per il 48% degli elettori repubblicani, gli Stati Uniti stanno facendo troppo per aiutare, economicamente e militarmente, l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa. Alla vigilia delle elezioni di midterm in cui si prevede una vittoria repubblicana, questo è quanto risulta dal sondaggio realizzato dal Wall Street Journal . Sul campo, si registra un massiccio attacco ucraino sulla riva destra del fiume Dnipro a Kherson: sono state colpite le imbarcazioni russe e le chiatte con cui le truppe russe stavano spostando attrezzature militari. Il ponte Antoniv è passato al momento sotto il controllo ucraino.
Ansa
L’accordo è stato siglato con Certares, fondo statunitense specializzato nel turismo e nei viaggi, nome ben noto nel settore per American express global business travel e per una rete di partecipazioni che abbraccia distribuzione, servizi e tecnologia legata alla mobilità globale. Il piano è robusto: una joint venture e investimenti complessivi per circa un miliardo di euro tra Francia e Regno Unito.
Il primo terreno di gioco è Trenitalia France, la controllata con sede a Parigi che negli ultimi anni ha dimostrato come la concorrenza sui binari francesi non sia più un tabù. Oggi opera nell’Alta velocità sulle tratte Parigi-Lione e Parigi-Marsiglia, oltre al collegamento internazionale Parigi-Milano. Dal debutto ha trasportato oltre 4,7 milioni di passeggeri, ritagliandosi il ruolo di secondo operatore nel mercato francese. A dominarlo il monopolio storico di Sncf il cui Tgv è stato il primo treno super-veloce in Europa. Intaccarne il primato richiede investimenti e impegno. Il nuovo capitale messo sul tavolo servirà a consolidare la presenza di Fs non solo in Francia, ma anche nei mercati transfrontalieri. Il progetto prevede l’ampliamento della flotta fino a 19 treni, aumento delle frequenze - sulla Parigi-Lione si arriverà a 28 corse giornaliere - e la realizzazione di un nuovo impianto di manutenzione nell’area parigina. A questo si aggiunge la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro e il rafforzamento degli investimenti in tecnologia, brand e marketing. Ma il vero orizzonte strategico è oltre il Canale della Manica. La partnership punta infatti all’ingresso sulla rotta Parigi-Londra entro il 2029, un corridoio simbolico e ad altissimo traffico, finora appannaggio quasi esclusivo dell’Eurostar. Portare l’Alta velocità italiana su quella linea significa non solo competere su prezzi e servizi, ma anche ridisegnare la geografia dei viaggi europei, offrendo un’alternativa all’aereo.
In questo disegno Certares gioca un ruolo chiave. Il fondo americano non si limita a investire capitale, ma mette a disposizione la rete di distribuzione e le società in portafoglio per favorire la transizione dei clienti business verso il treno ad Alta velocità. Parallelamente, l’accordo guarda anche ad altro. Trenitalia France e Certares intendono promuovere itinerari integrati che includano il treno, semplificare gli strumenti di prenotazione e spingere milioni di viaggiatori a scegliere la ferrovia come modalità di trasporto preferita, soprattutto sulle medie distanze. L’operazione si inserisce nel piano strategico 2025-2029 del gruppo Fs, che punta su una crescita internazionale accelerata attraverso alleanze con partner finanziari e industriali di primo piano. Sarà centrale Fs International, la divisione che si occupa delle attività passeggeri fuori dall’Italia. Oggi vale circa 3 miliardi di euro di fatturato e conta su 12.000 dipendenti.
L’obiettivo, come spiega un comunicato del gruppo, combinare l’eccellenza operativa di Fs e di Trenitalia France con la potenza commerciale e distributiva globale di Certares per trasformare la Francia, il corridoio Parigi-Londra e i futuri mercati della joint venture in una vetrina del trasporto europeo. Un’Europa che viaggia veloce, sempre più su rotaia, e che riscopre il treno non come nostalgia del passato, ma come infrastruttura del futuro.
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Brigitte Bardot guarda Gunter Sachs (Ansa)
Ora che è morta, la destra la vorrebbe ricordare. Ma non perché in passato aveva detto di votare il Front National. Semplicemente perché la Bardot è stata un simbolo della Francia, come ha chiesto Eric Ciotti, del Rassemblement National, a Emmanuel Macron. Una proposta scontata, alla quale però hanno risposto negativamente i socialisti. Su X, infatti, Olivier Faure ha scritto: «Gli omaggi nazionali vengono organizzati per servizi eccezionali resi alla Nazione. Brigitte Bardot è stata un'attrice emblematica della Nouvelle Vague. Solare, ha segnato il cinema francese. Ma ha anche voltato le spalle ai valori repubblicani ed è stata pluri-condannata dalla giustizia per razzismo». Un po’ come se esser stata la più importante attrice degli anni Cinquanta e Sessanta passasse in secondo piano a causa delle sue scelte politiche. Come se BB, per le sue idee, non facesse più parte di quella Francia che aveva portato al centro del mondo. Non solo nel cinema. Ma anche nel turismo. Fu grazie a lei che la spiaggia di Saint Tropez divenne di moda. Le sue immagini, nuda sulla riva, finirono sulle copertine delle riviste più importanti dell’epoca. E fecero sì che, ricchi e meno ricchi, raggiungessero quel mare limpido e selvaggio nella speranza di poterla incontrare. Tra loro anche Gigi Rizzi, che faceva parte di quel gruppo di italiani in cerca di belle donne e fortuna sulla spiaggia di Saint Tropez. Un amore estivo, che però lo rese immortale.
È vero: BB era di destra. Era una femmina che non poteva essere femminista. Avrebbe tradito sé stessa se lo avesse fatto. Del resto, disse: «Il femminismo non è il mio genere. A me piacciono gli uomini». Impossibile aggiungere altro.
Se non il dispiacere nel vedere una certa Francia voltarle le spalle. Ancora una volta. Quella stessa Francia che ha dimenticato sé stessa e che ha perso la propria identità. Quella Francia che oggi vuole dimenticare chi, Brigitte Bardot, le ricordava che cosa avrebbe potuto essere. Una Francia dei francesi. Una Francia certamente capace di accogliere, ma senza perdere la propria identità. Era questo che chiedeva BB, massacrata da morta sui giornali di sinistra, vedi Liberation, che titolano Brigitte Bardot, la discesa verso l'odio razziale.
Forse, nelle sue lettere contro l’islamizzazione, BB odiò davvero. Chi lo sa. Di certo amò la Francia, che incarnò. Nel 1956, proprio mentre la Bardot riempiva i cinema mondiali, Édith Piaf scrisse Non, je ne regrette rien (no, non mi pento di nulla). Lo fece per i legionari che combattevano la guerra d’Algeria. Una guerra che oggi i socialisti definirebbero colonialista. Quelle parole di gioia possono essere il testamento spirituale di BB. Che visse, senza rimpiangere nulla. Vivendo in un eterno presente. Mangiando la vita a morsi. Sparendo dalla scena. Ora per sempre.
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«Gigolò per caso» (Amazon Prime Video)
Un infarto, però, lo aveva costretto ad una lunga degenza e, insieme, ad uno stop professionale. Stop che non avrebbe potuto permettersi, indebitato com'era con un orologiaio affatto mite. Così, pur sapendo che avrebbe incontrato la riprova del figlio, già inviperito con suo padre, Giacomo aveva deciso di chiedergli una mano. Una sostituzione, il favore di frequentare le sue clienti abituali, consentendogli con ciò un'adeguata ripresa. La prima stagione della serie televisiva era passata, perciò, dalla rabbia allo stupore, per trovare, infine, il divertimento e una strana armonia. La seconda, intitolata La sex gurue pronta a debuttare su Amazon Prime video venerdì 2 gennaio, dovrebbe fare altrettanto, risparmiandosi però la fase della rabbia. Alfonso, cioè, è ormai a suo agio nel ruolo di gigolò. Non solo. La strana alleanza professionale, arrivata in un momento topico della sua vita, quello della crisi con la moglie Margherita, gli ha consentito di recuperare il rapporto con il padre, che credeva irrimediabilmente compromesso. Si diverte, quasi, a frequentare le sue clienti sgallettate. Peccato solo l'arrivo di Rossana Astri, il volto di Sabrina Ferilli. La donna è una fra le più celebri guru del nuovo femminismo, determinata ad indottrinare le sue simili perché si convincano sia giusto fare a meno degli uomini. Ed è questa convinzione che muove anche Margherita, moglie in crisi di Alfonso. Margherita, interpretata da Ambra Angiolini, diventa un'adepta della Astri, una sua fedele scudiera. Quasi, si scopre ad odiarli, gli uomini, dando vita ad una sorta di guerra tra sessi. Divertita, però. E capace, pure di far emergere le abissali differenze tra il maschile e il femminile, i desideri degli uni e le aspettative, quasi mai soddisfatte, delle altre.
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iStock
La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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