True
2022-11-04
Per evitare il crollo al voto di midterm Biden chiama Obama a fargli da badante
Barack Obama e Joe Biden (Getty Images)
Volete una prova che il Partito democratico americano è terrorizzato dalle elezioni di metà mandato di martedì prossimo? Quella prova c’è. Ed è il ritorno in campo di Barack Obama. Negli ultimi giorni, l’ex presidente americano ha tenuto alcuni comizi in cui ha rispolverato una strategia degna di Enrico Letta: la demonizzazione dell’avversario. «Se avete negazionisti elettorali che servono come vostro governatore, senatore, segretario di Stato e procuratore generale, allora la democrazia come la conosciamo potrebbe non sopravvivere in Arizona», ha detto l’altro ieri in un discorso a Phoenix. Anche il giorno prima, parlando in Nevada, aveva sottolineato la necessità di «salvare la democrazia». Ora, tralasciando il fatto che i «negazionisti elettorali» stanno anche nel Partito democratico (nel settembre 2019 Hillary Clinton disse che Donald Trump era un «presidente illegittimo»), andrebbero forse sottolineate alcune criticità.
Che Obama sia nervoso è innanzitutto comprensibile dai sondaggi. Secondo due rilevazioni di Cnn e Quinnipiac University, nelle intenzioni di voto generiche i repubblicani sono attualmente avanti di quattro punti. Un segnale positivo che trova conferma anche nelle più importanti gare per il Senato, dove i principali candidati trumpisti stanno macinando terreno. Secondo il sito Fivethirtyeight, Adam Laxalt è avanti dello 0,6% in Nevada, JD Vance detiene un vantaggio di oltre il 2% in Ohio e Mehmet Oz sarebbe indietro di appena lo 0,7% in Pennsylvania (quando a settembre scontava invece uno svantaggio di ben 10 punti). I repubblicani sono in rimonta anche in Arizona, sebbene qui vada tenuto presente che il senatore uscente, Mark Kelly, è un dem di centrodestra: un candidato che dunque risulta più difficile da scalzare per l’elefantino. Infine si sta registrando un ampio ricorso al voto anticipato e il tasso di repubblicani che ne sta facendo uso è in crescita rispetto alle tornate del 2020 e del 2018.
È chiaro che, davanti a una simile situazione, i dem non dormano sonni troppo tranquilli. Ed ecco che Obama ha fatto la sua ennesima ricomparsa. Ci sarebbe tuttavia da chiedersi se sia realmente una strategia efficace rivedere l’ex presidente che parla in continuazione di «pericolo per la democrazia» in caso di trionfo repubblicano. In primis, questo ritorno evidenzia ancora una volta la crisi in cui è piombata la classe dirigente dell’asinello, che non trova niente di meglio se non riproporre un ex presidente che - avendo già svolto due mandati - non è tecnicamente rieleggibile. Anziché investire sul rinnovamento, le alte sfere dem preferiscono quindi guardare al passato (altrimenti non esprimerebbero una speaker della Camera e un presidente ottuagenari come Nancy Pelosi e Joe Biden). Andrebbe poi sfatato il mito che Obama sia ancora un idolo per la totalità della sinistra americana. In realtà, non è più così. I sandersiani non gli perdonano di aver dato il suo endorsement alla Clinton nel 2016 e lo accusano - non senza ragione - di essersi lasciato assorbire da quell’establishment a cui, nel 2008, aveva dichiarato guerra.
È inoltre paradossale che Obama scenda oggi in campo per «salvare» il Partito democratico dai disastri di Biden. Come rivelato da Nbc News nel marzo 2020, Obama si diede molto da fare dietro le quinte, durante le primarie dem di allora, per far emergere il suo ex vice (che in Iowa e New Hampshire aveva rimediato delle sonore batoste). E attenzione: questo «aiuto» non avvenne perché Obama nutra chissà quale stima di Biden: ad agosto 2020, Politico raccontò infatti di un rapporto non esattamente idilliaco tra i due. Non si può quindi escludere che Biden sia stato sostenuto proprio in forza della sua debole leadership. Una leadership che avrebbe poi permesso di lottizzare l’amministrazione americana, per accontentare il più possibile le rissose anime in seno al Partito democratico, in cui il peso politico dell’ex presidente resta comunque ben rilevante. Tra l’altro, non è neanche detto che stavolta la strategia della demonizzazione funzioni. Cavalcandola, i dem rimediarono infatti una sonora sconfitta a novembre dell’anno scorso in occasione delle elezioni governatoriali della Virginia. Segno che, forse, l’elettorato americano sta iniziando a stancarsi di sante alleanze e crociate contro gli avversari politici. Ascoltare Biden che incolpa Trump dell’aggressione al marito della Pelosi o Obama che parla di apocalisse democratica potrebbe spingere molti elettori indipendenti a votare per reazione i repubblicani. Non si può infine escludere che l’ex presidente voglia tirare la volata a sua moglie Michelle per le presidenziali del 2024. Resta però il fatto che il mezzo naufragio politico di Kamala Harris ha messo in evidenza tutta l’inconsistenza di quella «identity politics» che, fino a due anni fa, veniva considerata sulla cresta dell’onda. Un elemento, questo, che potrebbe danneggiare seriamente l’ex first lady. Insomma, per alcuni Obama continua ad essere una risorsa del Partito democratico. Bisognerebbe invece chiedersi se non sia proprio lui la causa dei suoi problemi.
Erdogan tiene sulle spine la Svezia: «Sulla Nato decideremo nel 2023»
Mosca punta il dito contro Londra, addebitando alle azioni britanniche l’aumento della tensione in Ucraina. La possibilità di un’escalation diventa concreta dopo la convocazione dell’ambasciatrice britannica in Russia: senza mezzi termini, il Cremlino indica la Gran Bretagna come artefice dell’attacco a Sebastopoli e del sabotaggio al gasdotto Nord Stream. «L’addestramento di militari a scopo di sabotaggio in mare può provocare conseguenze imprevedibili e pericolose», fa sapere il ministero degli Esteri russo, secondo cui «la Marina britannica ha fornito alla parte ucraina anche droni sottomarini». Ma le accuse di Mosca non finiscono qui. Proprio ieri l’Aiea ha effettuato ispezioni in tre siti nucleari in Ucraina per rispondere ai dubbi della Russia, che aveva accusato Kiev di preparare attacchi con una «bomba sporca». L’Aiea non ha però trovato «alcun segno di attività nucleari non documentate». Frizioni si registrano anche sull’accordo sul grano, con la Russia che ribadisce che non necessariamente questo verrà applicato dopo il 18 novembre. Mosca continua a mandare segnali di insoddisfazione poiché, come sottolineato dal ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov in visita in Giordania, l’accordo raggiunto lo scorso 22 luglio a Istanbul «va applicato anche al grano e ai fertilizzanti russi, ma non ci sono segnali in questa direzione». La Turchia intanto si intesta il successo delle trattative che hanno portato, almeno per il momento, a ricominciare con le esportazioni e fa sapere che «dopo la ripresa dell’iniziativa sul grano, sei navi sono partite dai porti ucraini». Ankara cerca di mantenere il suo ruolo di mediatore in questi fragili equilibri e di tirare l’acqua al suo mulino, evitando di prendere decisioni sull’ingresso della Svezia nella Nato prima delle prossime elezioni turche. Il Parlamento non ratificherà infatti i protocolli di adesione alla Nato della Svezia entro la fine dell’anno. Lo hanno detto funzionari turchi, sostenendo che ci sono poche possibilità che la ratifica arrivi anche prima delle prossime elezioni in Turchia, in programma a giugno del 2023. Secondo le fonti, la linea di condotta è dovuta al programma fitto del Parlamento turco fino a fine 2022 e al fatto che la Svezia non ha ancora soddisfatto le richieste di Ankara rispetto all’estradizione di militanti curdi, ritenuti da Erdogan terroristi. Nubi scure si addensano anche sul G20. Il presidente dell’Ucraina, Zelensky, ha dichiarato che non parteciperà al vertice in Indonesia se sarà presente Putin. «La mia posizione personale e quella dell’Ucraina è che se parteciperà il leader della Federazione Russa, allora l’Ucraina non ci sarà», ha detto, nonostante il nuovo invito del presidente indonesiano Joko Widodo. Negli Usa, intanto, si registra un netto mutamento delle posizioni dell’elettorato repubblicano nei confronti della solidarietà verso Kiev. Per il 48% degli elettori repubblicani, gli Stati Uniti stanno facendo troppo per aiutare, economicamente e militarmente, l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa. Alla vigilia delle elezioni di midterm in cui si prevede una vittoria repubblicana, questo è quanto risulta dal sondaggio realizzato dal Wall Street Journal .
Sul campo, si registra un massiccio attacco ucraino sulla riva destra del fiume Dnipro a Kherson: sono state colpite le imbarcazioni russe e le chiatte con cui le truppe russe stavano spostando attrezzature militari. Il ponte Antoniv è passato al momento sotto il controllo ucraino.
Continua a leggereRiduci
I repubblicani volano nei sondaggi, così i dem si affidano all’ex presidente. Ma stavolta il trucco potrebbe non funzionare.Intanto Volodymyr Zelensky punta i piedi: «Non sarò al G20 se sarà presente anche Vladimir Putin».Lo speciale contiene due articoli.Volete una prova che il Partito democratico americano è terrorizzato dalle elezioni di metà mandato di martedì prossimo? Quella prova c’è. Ed è il ritorno in campo di Barack Obama. Negli ultimi giorni, l’ex presidente americano ha tenuto alcuni comizi in cui ha rispolverato una strategia degna di Enrico Letta: la demonizzazione dell’avversario. «Se avete negazionisti elettorali che servono come vostro governatore, senatore, segretario di Stato e procuratore generale, allora la democrazia come la conosciamo potrebbe non sopravvivere in Arizona», ha detto l’altro ieri in un discorso a Phoenix. Anche il giorno prima, parlando in Nevada, aveva sottolineato la necessità di «salvare la democrazia». Ora, tralasciando il fatto che i «negazionisti elettorali» stanno anche nel Partito democratico (nel settembre 2019 Hillary Clinton disse che Donald Trump era un «presidente illegittimo»), andrebbero forse sottolineate alcune criticità. Che Obama sia nervoso è innanzitutto comprensibile dai sondaggi. Secondo due rilevazioni di Cnn e Quinnipiac University, nelle intenzioni di voto generiche i repubblicani sono attualmente avanti di quattro punti. Un segnale positivo che trova conferma anche nelle più importanti gare per il Senato, dove i principali candidati trumpisti stanno macinando terreno. Secondo il sito Fivethirtyeight, Adam Laxalt è avanti dello 0,6% in Nevada, JD Vance detiene un vantaggio di oltre il 2% in Ohio e Mehmet Oz sarebbe indietro di appena lo 0,7% in Pennsylvania (quando a settembre scontava invece uno svantaggio di ben 10 punti). I repubblicani sono in rimonta anche in Arizona, sebbene qui vada tenuto presente che il senatore uscente, Mark Kelly, è un dem di centrodestra: un candidato che dunque risulta più difficile da scalzare per l’elefantino. Infine si sta registrando un ampio ricorso al voto anticipato e il tasso di repubblicani che ne sta facendo uso è in crescita rispetto alle tornate del 2020 e del 2018. È chiaro che, davanti a una simile situazione, i dem non dormano sonni troppo tranquilli. Ed ecco che Obama ha fatto la sua ennesima ricomparsa. Ci sarebbe tuttavia da chiedersi se sia realmente una strategia efficace rivedere l’ex presidente che parla in continuazione di «pericolo per la democrazia» in caso di trionfo repubblicano. In primis, questo ritorno evidenzia ancora una volta la crisi in cui è piombata la classe dirigente dell’asinello, che non trova niente di meglio se non riproporre un ex presidente che - avendo già svolto due mandati - non è tecnicamente rieleggibile. Anziché investire sul rinnovamento, le alte sfere dem preferiscono quindi guardare al passato (altrimenti non esprimerebbero una speaker della Camera e un presidente ottuagenari come Nancy Pelosi e Joe Biden). Andrebbe poi sfatato il mito che Obama sia ancora un idolo per la totalità della sinistra americana. In realtà, non è più così. I sandersiani non gli perdonano di aver dato il suo endorsement alla Clinton nel 2016 e lo accusano - non senza ragione - di essersi lasciato assorbire da quell’establishment a cui, nel 2008, aveva dichiarato guerra. È inoltre paradossale che Obama scenda oggi in campo per «salvare» il Partito democratico dai disastri di Biden. Come rivelato da Nbc News nel marzo 2020, Obama si diede molto da fare dietro le quinte, durante le primarie dem di allora, per far emergere il suo ex vice (che in Iowa e New Hampshire aveva rimediato delle sonore batoste). E attenzione: questo «aiuto» non avvenne perché Obama nutra chissà quale stima di Biden: ad agosto 2020, Politico raccontò infatti di un rapporto non esattamente idilliaco tra i due. Non si può quindi escludere che Biden sia stato sostenuto proprio in forza della sua debole leadership. Una leadership che avrebbe poi permesso di lottizzare l’amministrazione americana, per accontentare il più possibile le rissose anime in seno al Partito democratico, in cui il peso politico dell’ex presidente resta comunque ben rilevante. Tra l’altro, non è neanche detto che stavolta la strategia della demonizzazione funzioni. Cavalcandola, i dem rimediarono infatti una sonora sconfitta a novembre dell’anno scorso in occasione delle elezioni governatoriali della Virginia. Segno che, forse, l’elettorato americano sta iniziando a stancarsi di sante alleanze e crociate contro gli avversari politici. Ascoltare Biden che incolpa Trump dell’aggressione al marito della Pelosi o Obama che parla di apocalisse democratica potrebbe spingere molti elettori indipendenti a votare per reazione i repubblicani. Non si può infine escludere che l’ex presidente voglia tirare la volata a sua moglie Michelle per le presidenziali del 2024. Resta però il fatto che il mezzo naufragio politico di Kamala Harris ha messo in evidenza tutta l’inconsistenza di quella «identity politics» che, fino a due anni fa, veniva considerata sulla cresta dell’onda. Un elemento, questo, che potrebbe danneggiare seriamente l’ex first lady. Insomma, per alcuni Obama continua ad essere una risorsa del Partito democratico. Bisognerebbe invece chiedersi se non sia proprio lui la causa dei suoi problemi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/midterm-biden-obama-2658598569.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="erdogan-tiene-sulle-spine-la-svezia-sulla-nato-decideremo-nel-2023" data-post-id="2658598569" data-published-at="1667566581" data-use-pagination="False"> Erdogan tiene sulle spine la Svezia: «Sulla Nato decideremo nel 2023» Mosca punta il dito contro Londra, addebitando alle azioni britanniche l’aumento della tensione in Ucraina. La possibilità di un’escalation diventa concreta dopo la convocazione dell’ambasciatrice britannica in Russia: senza mezzi termini, il Cremlino indica la Gran Bretagna come artefice dell’attacco a Sebastopoli e del sabotaggio al gasdotto Nord Stream. «L’addestramento di militari a scopo di sabotaggio in mare può provocare conseguenze imprevedibili e pericolose», fa sapere il ministero degli Esteri russo, secondo cui «la Marina britannica ha fornito alla parte ucraina anche droni sottomarini». Ma le accuse di Mosca non finiscono qui. Proprio ieri l’Aiea ha effettuato ispezioni in tre siti nucleari in Ucraina per rispondere ai dubbi della Russia, che aveva accusato Kiev di preparare attacchi con una «bomba sporca». L’Aiea non ha però trovato «alcun segno di attività nucleari non documentate». Frizioni si registrano anche sull’accordo sul grano, con la Russia che ribadisce che non necessariamente questo verrà applicato dopo il 18 novembre. Mosca continua a mandare segnali di insoddisfazione poiché, come sottolineato dal ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov in visita in Giordania, l’accordo raggiunto lo scorso 22 luglio a Istanbul «va applicato anche al grano e ai fertilizzanti russi, ma non ci sono segnali in questa direzione». La Turchia intanto si intesta il successo delle trattative che hanno portato, almeno per il momento, a ricominciare con le esportazioni e fa sapere che «dopo la ripresa dell’iniziativa sul grano, sei navi sono partite dai porti ucraini». Ankara cerca di mantenere il suo ruolo di mediatore in questi fragili equilibri e di tirare l’acqua al suo mulino, evitando di prendere decisioni sull’ingresso della Svezia nella Nato prima delle prossime elezioni turche. Il Parlamento non ratificherà infatti i protocolli di adesione alla Nato della Svezia entro la fine dell’anno. Lo hanno detto funzionari turchi, sostenendo che ci sono poche possibilità che la ratifica arrivi anche prima delle prossime elezioni in Turchia, in programma a giugno del 2023. Secondo le fonti, la linea di condotta è dovuta al programma fitto del Parlamento turco fino a fine 2022 e al fatto che la Svezia non ha ancora soddisfatto le richieste di Ankara rispetto all’estradizione di militanti curdi, ritenuti da Erdogan terroristi. Nubi scure si addensano anche sul G20. Il presidente dell’Ucraina, Zelensky, ha dichiarato che non parteciperà al vertice in Indonesia se sarà presente Putin. «La mia posizione personale e quella dell’Ucraina è che se parteciperà il leader della Federazione Russa, allora l’Ucraina non ci sarà», ha detto, nonostante il nuovo invito del presidente indonesiano Joko Widodo. Negli Usa, intanto, si registra un netto mutamento delle posizioni dell’elettorato repubblicano nei confronti della solidarietà verso Kiev. Per il 48% degli elettori repubblicani, gli Stati Uniti stanno facendo troppo per aiutare, economicamente e militarmente, l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa. Alla vigilia delle elezioni di midterm in cui si prevede una vittoria repubblicana, questo è quanto risulta dal sondaggio realizzato dal Wall Street Journal . Sul campo, si registra un massiccio attacco ucraino sulla riva destra del fiume Dnipro a Kherson: sono state colpite le imbarcazioni russe e le chiatte con cui le truppe russe stavano spostando attrezzature militari. Il ponte Antoniv è passato al momento sotto il controllo ucraino.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
Continua a leggereRiduci
Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
Continua a leggereRiduci
Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
Continua a leggereRiduci