Per il «Corriere», lo stop alla riforma lascerà gli istituti senza aiuti. Eppure, in caso di crisi il salva Stati fa poco, obbligando al bail-in. Mentre il prestito «paracadute» al Fondo di risoluzione sarebbe stato modesto.Dal 21 dicembre - quando la Camera dei deputati ha votato contro la ratifica della riforma del Trattato del Mes - è un fuoco di fila quotidiano di menzogne, mezze verità, interpretazioni distorte, sulle presunte conseguenze per il nostro Paese.Dal Corriere della Sera, a Repubblica, a La Stampa - ma potremmo continuare - è partita una gara a drammatizzare i toni. Al contrario dei più grandi media internazionali, dove sull’argomento ha regnato quasi il silenzio, oppure in contrapposizione all’assoluta calma che regna sui mercati finanziari, con il Btp decennale che va a ruba tra gli investitori e lo spread a 157 (minimo da giugno scorso).E ora cosa accadrà? Questa la domanda, tra l’angosciato e l’apocalittico, che abbiamo letto con più frequenza. Nulla, rispondiamo noi.Il trattato del Mes ratificato nel luglio 2012 continua ad essere pienamente efficace, ancorché inutile e talvolta dannoso. Al punto che dal 2015 nessun Paese si è sognato di chiedere prestiti, nemmeno per l’emergenza pandemica.La discussione si è concentrata sugli effetti della mancata ratifica e cioè sul ruolo che il Mes riformato avrebbe avuto dal 1 gennaio 2024 nel caso di una crisi bancaria. Esso avrebbe infatti sostenuto il Fondo di Risoluzione unico (Srf) con un prestito «paracadute» fino a 68 miliardi, come prestatore di ultima istanza nel caso il Fondo avesse esaurito la propria dotazione (a fine anno circa 75/80 miliardi) per intervenire in un dissesto bancario.Sul Corriere della Sera, Federico Fubini si è precipitato a farci sapere che da gennaio saranno «sospese le prove sui salvataggi bancari» perché il voto italiano «ha spiazzato i partner europei».Purtroppo per il Corriere e per Fubini, le cose stanno diversamente e, come al solito, ve lo dimostreremo «per tabulas».Per prima cosa, le simulazioni del Mes in caso di crisi bancaria avvengono da tempo. E sono avvenute proprio per verificare l’efficacia dello strumento di assistenza finanziaria diretta, di cui parla il Corriere, che somiglia molto e avrebbe dovuto essere sostituito dal prestito al Srf ora sfumato. Infatti, dall’8 dicembre 2014, è possibile che il Mes ricapitalizzi direttamente una banca in difficoltà. Ma quando i tecnici dal Mes simularono l’efficacia di tale intervento (i piani «Carlo» e «Hugo» del 2014) utilizzando i numeri di una grande banca di uno Stato membro, giunsero alla conclusione che l’intervento sarebbe stato troppo lento e, in ogni caso, sarebbe stata una goccia nel mare del probabile effetto contagio che avrebbe comunque costretto lo Stato membro a richiedere un’assistenza piena sotto programma di aggiustamento macroeconomico. Troppo piccolo e troppo costoso, furono le conclusioni dei dirigenti del Mes, che qualificarono il loro eventuale intervento come l’ultima spiaggia e, in ogni caso, per limitare i rischi, limitarono l’impegno a 60 miliardi (sospettosamente vicino ai 68 del prestito al Srf).Quindi cosa potrebbe fare il Mes in caso di crisi bancaria è noto da nove anni e la risposta è sempre quella: poco più di nulla. Sia che intervenga direttamente, come già potrebbe in teoria fare, che intervenga finanziando il Srf.Al Corriere hanno poi dimenticato l’esistenza dell’assistenza finanziaria indiretta (articolo 15 del Trattato) in base al quale uno Stato membro chiede un prestito specificamente destinato alla ricapitalizzazione di banche in difficoltà. L’ha usato la Spagna nel 2012, ottenendo 100 miliardi e utilizzandone 41,3 la cui ultima rata di rimborso (ad oggi residuano 23,7 miliardi) è prevista per il 2027. In entrambi i casi, deve essere lo Stato membro ad avanzare la richiesta al Consiglio dei governatori del Mes. Quindi non si vede come e quando il prestito «paracadute» del Mes, altrettanto modesto e contenuto nella riforma bocciata, avrebbe potuto essere la chiave di volta nel caso di crisi bancaria. Ma, in entrambi i casi - con o senza riforma - l’entrata in scena del Mes prevede il bail-in obbligatorio di azionisti, obbligazionisti e depositanti oltre 100.000 euro. Un vero e proprio bagno di sangue, perché, lo ha sostenuto a suo tempo proprio il direttore generale, il Mes deve minimizzare i rischi di perdite, altrimenti vacillerebbe il rating tripla A. Ma l’inutilità - a essere cauti -della riforma è dimostrata anche dal fatto che il Srf, prima di ricorrere al Mes, deve cercare di finanziarsi sul mercato o ricorrendo a contributi straordinari delle banche che lo reggono. È già accaduto in Italia al Fondo interbancario per la tutela dei depositi durante la crisi del 2014/2015. E chi, eventualmente, finanzierebbe le banche? La Bce, senza limiti. Basti considerare che le linee di finanziamento a lungo termine aperte dalla Bce alle banche dell’Eurozona per garantire la liquidità del sistema sono arrivate a circa 2.200 miliardi nel 2022 e sono tuttora pari a 496 miliardi. Chiara la differenza di magnitudo rispetto ai 68 miliardi di prestito del Mes, peraltro soggetti a vincoli e condizioni bizantine? In caso di crisi, la prima linea di difesa è quella del bail-in in combinazione con i contributi delle banche sane (e gonfie di utili) che verserebbero contributi straordinari al Srf, finanziate dalla Bce.Infine, c’è un non detto. Dal prossimo 1 gennaio il Srf sarà pienamente mutualizzato. Cioè tutto il fondo sarà a disposizione di tutte le banche eventualmente in crisi, indipendentemente dal Paese di appartenenza. Ciò significa che chi potrebbe dover gestire dissesti più grandi (Germania?) ha interesse che il Srf sia il più capiente possibile (anche con i prestiti del Mes), perché così potrebbe giovarsi dei contributi delle banche degli altri Stati membri. Invece ora, esaurita la cassa comune, deve subito mettere mano ai soldi dei propri contribuenti, dopo aver tosato a dovere i malcapitati risparmiatori. C’è da scommettere che, in caso di crisi, Srf e Mes saranno tenuti lontano come la peste.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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