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Stefano Volpato: col Tfr nei fondi previdenziali e un contributo volontario di circa 5.000 euro l’anno si riduce il nodo della pensione bassa.
Il 2025 rappresenta un punto di svolta per Banca Mediolanum. «Un anno memorabile», lo definisce Stefano Volpato, direttore commerciale, non solo per i risultati economici - budget ampiamente superati - ma perché segna il passaggio da una fase di crescita a una di trasformazione strutturale. L’obiettivo dichiarato è ambizioso: accompagnare i clienti verso l’autonomia e l’indipendenza finanziaria in età pensionabile, rendendo possibile, nei fatti, la triplicazione della ricchezza finanziaria pro capite, sottolinea Volpato durante la tradizionale convention con la rete a Merano, per tirare le somme dell’anno che sta per finire e definire le strategie del 2026. Un anno, ha confermato l’amministratore delegato Massimo Doris, destinato appunto a superare il record del 2024, con una raccolta netta di 10,4 miliardi e oltre 2 milioni di clienti e un primato, nell’universo Assoreti tra raccolta, mutui e prestiti concessi oltre che le polizze sottoscritte.
Com’è tradizione in casa Mediolanum, si può sempre fare di più. Come? Il punto di partenza è un contesto in rapido cambiamento. L’invecchiamento della popolazione, la crisi del welfare pubblico e l’aumento della longevità stanno ridefinendo il concetto stesso di pensione. Dal 1948 l’aspettativa di vita media è cresciuta di circa 20 anni e continuerà ad aumentare, anche grazie ai progressi tecnologici e all’Intelligenza artificiale applicata alla medicina. In questo scenario, evidenzia Volpato durante un’ora di intervento davanti alla rete, affidarsi esclusivamente alla previdenza pubblica non è più sufficiente. Un allarme già lanciato dal World Economic Forum nel 2019: in assenza di una pianificazione adeguata, i pensionati rischiano di esaurire i propri risparmi otto/dieci anni prima della fine della vita. È qui che si inserisce il ruolo della consulenza finanziaria, chiamata a trasformare il risparmio in progetto di lungo periodo.
«I numeri spiegano il potenziale», precisa Volpato. In Italia la ricchezza finanziaria pro capite è pari a circa 120.000 euro, ma una quota rilevante è parcheggiata in liquidità. Nel 2024 sui conti correnti giacciono 1.580 miliardi di euro, capitale che produce rendimenti reali prossimi allo zero. La prima leva per aumentare la ricchezza è dunque la riallocazione efficiente di queste risorse: ridurre la liquidità in eccesso e investirla in modo diversificato tra strumenti obbligazionari e azionari, coerentemente con il profilo di rischio e l’orizzonte temporale. Secondo le simulazioni Mediolanum, se negli ultimi 30 anni una parte significativa di questa liquidità fosse stata investita con un portafoglio bilanciato - metà in obbligazioni e metà in azioni - il sistema avrebbe generato oltre 4.200 miliardi di euro di ricchezza aggiuntiva. Questo meccanismo, replicato su base individuale, consente nel tempo di raddoppiare il capitale finanziario medio.
La seconda leva è la previdenza complementare, in particolare il conferimento del Tfr. Destinare il Tfr a un Piano individuale pensionistico consente di beneficiare di una tassazione finale ridotta e di rendimenti mediamente più elevati rispetto alla rivalutazione del Tfr lasciato in azienda. Nel caso di un lavoratore quarantenne, con un reddito lordo di 56.000 euro l’anno, la differenza può superare i 100.000 euro di capitale finale, a parità di contributi versati. Un incremento che, di fatto, equivale a un ulteriore raddoppio della ricchezza finanziaria futura.
La terza leva è la pianificazione fiscale. I contributi volontari alla previdenza sono deducibili fino a 5.164 euro annui, riducendo l’esborso netto annuale e aumentando il capitale investito. Il vantaggio tributario, reinvestito nel tempo, genera un effetto moltiplicativo che amplia ulteriormente la distanza rispetto a chi mantiene il risparmio fermo sul conto corrente, spiega ancora Volpato. Due numeri per chiarire: «Mario Rossi, 40 anni e sempre con un reddito di 56.000 euro lordi l’anno, versa 5.164 euro ogni 12 mesi in un fondo previdenziale, ovvero la quota deducibile. Per cui già 2.221 (aliquota al 43%) è come se li mettesse lo Stato. L’uscita di cassa netta è insomma pari a 3.547 euro annuo. In 27 anni versa 139.428 euro, a cui va aggiunta - evidenzia il direttore commerciale di Banca Mediolanum - una rivalutazione netta del 5,11% derivante dal contributo mercato, in soldoni 162.390 euro. Alla fine porta a casa 285.923 euro. Se lascia sul conto invece i 3.531 per 27 anni si troverà 95.337 euro. In teoria. Ma non resteranno mai per le spese che uno fa. «Insomma», conclude Volpato, «la differenza tra investire quei circa 3.500 euro volontari in un fondo previdenziale e lasciarsi sul conto fa + 190.586 euro di differenza».
Tirando infine le somme, combinando queste leve - investimento della liquidità, previdenza complementare, efficienza fiscale e ovviamente tempo - la ricchezza finanziaria pro capite può passare da circa 120.000 euro a oltre 300.000 euro al momento della pensione. È questo il «salto dimensionale» da fare di cui parlano Doris e Volpato alla rete Mediolanum: costruire oggi le condizioni per un domani di autonomia e indipendenza, senza dipendere esclusivamente dal welfare statale.
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«The Hunting Wives» (Netflix)
Arrivata su Netflix Italia, Nido di vipere adatta il romanzo di May Cobb e racconta noia, desiderio e trasgressione in una comunità texana conservatrice. Tra dramma e giallo, la serie osserva le contraddizioni private e sociali della sua protagonista.
La serie dello scandalo, quella che negli Stati Uniti ha fama di aver passato al vaglio, senza nulla lasciare all'immaginazione, la sessualità omoerotica di donne all'apparenza tradizionali. The Hunting Wives, tradotto per l'Italia con Nido di vipere, è un romanzo di May Cobb, adattato poi a serie televisiva. Negli Usa, sotto forma di narrazione tv, ha debuttato lo scorso anno. Su Netflix Italia, invece, è arrivata lunedì 15 dicembre, portando con sé una storia fatta di noia e trasgressione, di bisogni che emergono piano, travolgendo chi li provi prima ancora che questi possa capire perché.
Sophie O’Neill credeva di aver raggiunto lo status che più desiderava, quando, insieme al marito e al figlio, ha lasciato Chicago, la sua carriera, tanto invidiabile quanto fagocitante, per trasferirsi altrove: in un piccolo paesino del Texas, una bella casa nel mezzo di una comunità rurale, pacifica, placida. Credeva di aver scelto la libertà. Invece, quel nuovo inizio così atipico, lontano dai rumori della città, rivela ben presto altro, la noia, la ripetitività eterna dell'uguale. Sheila si scopre sola, triste, annoiata, di una noia che solo Margot Banks, socialite parte di una cricca segretamente conosciuta come le Mogli Cacciatrici, sa combattere. Sono i suoi rituali segreti, le feste, i ritrovi di queste donne a ridestare Sheila, restituendole la voglia di vivere che pensava aver lasciato nella ventosa Chicago. Sheila è rapita da Margot, e passa poco prima che la relazione delle due diventi qualcosa più di una semplice amicizia: un amore figlio della curiosità, della volontà di sperimentare quel che in gioventù s'è tenuto lontano. Il tutto, però, all'interno di una comunità che questo tipo di relazioni dovrebbe scongiurare. C'è il Texas repubblicano e conservatore, a far da sfondo alla serie televisiva, costruita - come il romanzo - a mezza via tra due generi. Da un lato, il dramma, l'intrigo amoroso. Dall'altro, il giallo, scoppiato nel momento in cui il corpo di un'adolescente viene trovato senza vita nell'esatto punto in cui sono solite ritrovarsi le Mogli Cacciatrici.
Allora, le strade narrative di Nido di vipere divergono. Sheila è colta nelle sue contraddizioni, specchio di una società di cui l'autrice e gli sceneggiatori cercano di cogliere l'ipocrisia. La critica sociale prosegue insieme al racconto privato di questa mamma di Chicago, coinvolta, parimenti, in un'indagine di polizia. Nega, Sheila, cerca di provare la propria innocenza. Ma il giallo fa il suo corso, e non è indimenticabile quel che è stato scritto: la storia di Sheila, il suo dramma di donna, colto tanto nell'esistenza individuale quanto in quella collettiva, non sono destinata a riscrivere le sorti della serialità televisiva. Eppure, qualcosa affascina in questa serie tv, passatempo decoroso per le vacanze imminenti.
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Ecco #DimmiLaVerità del 19 dicembre 2025. Ospite la vicecapogruppo di Fdi alla Camera Augusta Montaruli. L'argomento del giorno è: "Lo sgombero del centro sociale Askatasuna di Torino".
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Anche le case tedesche bocciano la proposta della Commissione che dà più spazio alle auto diesel e benzina: «Troppe condizioni, lievitano i costi». Per il gruppo di Elkann il piano è «inadeguato». Meno pessimista Parigi.
Quella che i commenti a caldo definivano «svolta epocale», si è prima trasformata in un passo in avanti «importante» - a strettissimo giro sminuito come «significativo» -, e poi è diventata l’ennesimo pastrocchio della Commissione europea che peggiora la già drammatica situazione dell’automotive nel Vecchio continente. La rapidissima parabola delle modifiche annunciate da Bruxelles sui veicoli elettrici si è compiuta quando i diretti interessati, cioè le case automobilistiche, hanno svelato il bluff.
Ma agli occhi più attenti che ci fosse qualcosa che non quadrava era apparso subito chiaro. Non tutti avevano infatti notato che la Vda, la potentissima associazione tedesca del settore, aveva subito storto il naso. Alla «Verband der Automobil» che è solita imporre rigidi standard di qualità ai fornitori di Bmw, Mercedesm e Volkswagen, in modo da assicurare il mantenimento delle alte performance che hanno contraddistinto storicamente le automobili prodotte in loco, l’accordo era immediatamente risultato poco credibile.
Vero che la Commissione parla di riduzione del 90% delle emissioni nocive entro il 2035 e apre la porta per il restante 10% ai motori ibridi e termici, ma ponendo una serie di paletti e condizioni che rischiano di aumentare i costi, già impazziti, del mercato.
«In un momento cruciale per l’Europa», ha spiegato la numero uno della Vda Hildegard Mülleral Financial Times, «l’intero pacchetto proposto da Bruxelles è disastroso. Quella che sembra una maggiore apertura è in realtà una strada piena di ostacoli che rischia di rivelarsi inefficace nella pratica».
A cosa fa riferimento? Per esempio all’obbligo di usare l’acciaio verde, oppure all’imposizione di materiali made in Europe che secondo diversi analisti faranno lievitare i costi delle auto diesel e benzina. Ma non solo.
Perché, forse un po’ a sorpresa, è Stellantis, la casa italo-francese che si era contraddistinta (all’epoca dell’ex ad Carlos Tavares) per una tenace difesa del Green deal, a mostrare le maggiori perplessità. Secondo la ricostruzione di Bloomberg, infatti, il gruppo proprietario dei marchi Jeep, Fiat e Peugeot, ha una posizione netta: le nuove proposte della Commissione sono «inadeguate», non affrontano le sfide della transizione elettrica per i veicoli commerciali leggeri e non prevedono una flessibilità sufficiente per raggiungere gli obiettivi di emissioni nel 2030.
Una bocciatura senza se e senza ma. Bocciatura che è stata confermata dal mercato, all’indomani della presentazione del piano, i titoli di alcuni dei principali produttori interessati hanno perso quota (vedi Stellantis e Volkswagen) mentre l’indice Stoxx Europe 600 Automobiles & Parts ha lasciato sul terreno fino all’1,3%. E da alcuni dei principali analisti, per esempio Ubs. Secondo gli esperti della banca d’investimento svizzera, infatti, la sedicente svolta europea è una delusione. Da una parte per la tempistica. Gli effetti finanziari dei provvedimenti si avranno tra quattro o cinque anni. E poi per le prospettive. Quello che traspare è che Bruxelles, almeno fino a quando resterà questa maggioranza, non è disponibile a fare altre concessioni di sostanza e che la battaglia contro i produttori cinesi che stanno già invadendo il mercato del Vecchio continente può essere considerata persa.
Del resto le trattative sulla stesura delle nuove norme sembra essere stata piuttosto serrata e alla fine chi chiedeva un rinvio più corposo o un taglio degli obiettivi fino al 50% è rimasto deluso.
Tra questi non rientrano i produttori d’auto francesi che hanno invece accolto con meno scetticismo la linea della Commissione, confermando quella che sembra essere diventata una costante dell’Unione Europea. Parigi e Berlino, i due campioni in crisi economica e politica, prima andavano d’accordo su tutto (anzi facevano asse) e adesso fanno fatica a convergere su quasi tutte le partite che contano nell’Ue. Dai rapporti con gli Stati Uniti di Trump e con la Cina di Xi, fino al Mercosur e all’automotive, appunto.
Speranze? Ora la palla passa al Parlamento Ue. Dove si continuerà a negoziare e le posizioni per ora sotterranee diventeranno ufficiali. Molti Stati sperano di spuntare altre concessioni sul trattamento di favore per i veicoli ibridi plug-in e su alcune paletti che oggettivamente sembrano eccessivi. Ma, ammesso che la loro linea riesca a passare, saremo pur sempre di fronte a palliativi, probabilmente solo di facciata, che non affrontano la sostanza del problema. Fino a quando resteranno obblighi che il mercato rigetta, è impossibile pensare a una svolta dell’industria dell’auto in Europa.
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