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2022-01-03
Addio medico: ti cura Amazon
(IStock)
In un prossimo futuro non sarà più il medico a occuparsi della nostra salute, non ci dovremo rivolgere a lui per l’antibiotico, la misurazione della pressione e per la pasticca contro il colesterolo o per curare il diabete. Basterà un clic e avremo uno staff di esperti pronto a fornirci tutte le soluzioni e a inondarci di supposte, compresse e preparati avveniristici, avendo in mano, aggiornata in tempo reale, la nostra cartella clinica. Saranno i big tech, Google, Amazon, Apple i padroni della nostra salute. E in parte già lo sono.
Di noi sanno già moltissimo, grazie all’uso compulsivo che facciamo delle piattaforme sociali e di Internet. Ogni volta che ci colleghiamo a Google, che cerchiamo un’informazione online o chattiamo con un gruppo Facebook, «doniamo» ai Signori del Web una montagna di informazioni personali che, diversamente, non concederemmo nemmeno ai parenti più prossimi. Di noi i colossi di Internet sanno abitudini, stato civile, cosa mangiamo, se viaggiamo e come lo facciamo, se siamo socievoli, quali interessi abbiamo e anche quali vizi privatissimi. A questa mole di dati si stanno aggiungendo quelli sulla salute. La pandemia ha aumentato l’attenzione al proprio benessere fisico. Smartwatch, smartband, braccialetti vari che forniscono - a noi, ma anche ai giganti informatici - informazioni sul battito cardiaco, sulla pressione sanguigna, sul numero di passi giornaliero e così via, sono andati a ruba. Fanno parte della quotidianità al pari del cellulare. L’Apple watch, per esempio, raccoglie e organizza tutti i dati di benessere psicofisico per collegarli all’account personale. E Google mesi fa ha risposto acquisendo uno dei maggiori operatori del settore, Fitbit, produttore di bracciali e orologi orientati al fitness.
sempre sotto controllo
Pochi si rendono conto che tutti questi dispositivi sono collettori di informazioni preziose. A noi sembra un servizio gratuito, al solo costo del bracciale che ci facilita la vita e aiuta a stare in forma; in realtà cediamo gratis i dati sulla nostra salute. Da tempo le big tech raccolgono direttamente le informazioni biologiche su milioni di pazienti e li combinano con i dati sulle attività ordinarie di mobilità o di consumo degli stessi soggetti, ricavando profili dettagliatissimi sull’evoluzione delle personalità e dei bisogni di ognuno.
App e dispositivi di monitoraggio della salute si stanno diffondendo rapidamente. Quello che è capitato settimane fa a Eugenio Finardi, salvato in aeroporto dal suo smartphone che ha segnalato il sopraggiungere di una fibrillazione atriale, è un esempio dell’uso virtuoso del dispositivo. Ma c’è un risvolto della medaglia perché manca una regolamentazione, con la conseguenza che viene meno la tutela della privacy. Da tempo i big tech tentano di immagazzinare più informazioni possibili sulla salute mondiale con un’attenta opera di tracciamento dei dati che gli utenti lasciano incautamente sui vari dispositivi tecnologici. Già nel 2013, Google creò Calico, un’azienda con lo scopo di capire il processo biologico d’invecchiamento e sviluppare terapie per permettere alle persone di vivere più a lungo. Nel 2014, sempre Google lanciò le lenti a contatto connesse capaci di controllare il livello di glicemia, ma senza riscontrare il successo sperato. Amazon ha elaborato il progetto «Amazon comprehend medical» per sfruttare i dati medici di milioni di pazienti (come prescrizioni, note mediche, rapporti di patologia o persino radio) con lo scopo di estrarre, da queste fonti disparate, gli elementi chiave necessari per la diagnosi o la scelta di dosi e farmaci.
Sulla stessa linea, Apple sta sviluppando Health kit, piattaforma di condivisione dati tra gli ospedali, mediante applicazioni da questi utilizzati, e che dovrebbe servire a ricostruire l’anamnesi dei pazienti. Ha suscitato scalpore la notizia del coinvolgimento di Google nell’attività di raccolta di dati personali di pazienti in molti ospedali statunitensi. All’insaputa di medici e malati, il colosso di Mountain View avrebbe immagazzinato i dati contenuti in cartelle cliniche di pazienti di 21 Stati Usa, all’interno di un progetto noto con il nome di Nightingale. Google ha sostenuto che tutto era perfettamente conforme alla legge federale sulla portabilità dei dati sanitari, che consente agli ospedali di condividere informazioni sanitarie con partner commerciali al fine di permettere alla struttura stessa di portare avanti le sue funzioni mediche.
l’algoritmo farà ricette
La domanda inquietante è: in un prossimo futuro la nostra salute sarà appesa alle diagnosi effettuate dagli algoritmi? La tendenza di affidarsi più alla tecnologia a buon mercato che alla medicina ufficiale è propria dei nostri tempi e risponde in parte alla protervia dell’autosufficienza e alla sfiducia nella competenza. Negli ultimi anni, ma soprattutto con il Covid, c’è stata una esplosione delle applicazioni sui cellulari che riguardano temi della salute. Insegnano a come superare l’ansia e lo stress, offrono con la stessa facilità consigli su come superare la timidezza in pubblico e come vincere la depressione. L’app Driver utilizza la realtà virtuale per trattare la paura di guidare attraverso la riproposizione al paziente di diversi scenari possibili, dalla guida in città a quella in galleria. Klover si propone di far superare la claustrofobia. L’università di Milan Bicocca ha creato un’applicazione, Italia ti ascolto, per stabilire lo stress pandemico e prenotare l’incontro con medici. La facoltà di psichiatria della Columbia University ha lanciato un’app per fornire cure alla depressione tramite algoritmi. Ma secondo il neuropsichiatra Massimo Ammaniti, l’uso di questi dispositivi è negativo perché comporta che il soggetto si definisca malato senza aver avuto prima una diagnosi. Poi osserva che già i problemi della patologia psichica sono difficilmente trattabili da un medico, figurarsi con un’applicazione che ha la pretesa di dare una risposta in breve tempo e un trattamento efficace in un paio di settimane.
Tra le app più diffuse per combattere la depressione c’è Woebot, è un chatbot che dialoga con l’utente e gli chiede aggiornamenti sullo stato dell’umore e fornisce esercizi per migliorarlo. Ci sono anche applicazioni destinate ai bambini che addirittura tendono a sostituire i genitori nella funzione di rassicurarli. Una di queste aiuta a combattere la paura del buio. È una storia interattiva dal titolo Buona notte Dadà, che ha come protagonisti un bambino e alcuni minion che arrivano in suo soccorso. Anche la salute dei bambini è sempre più in mano ai Signori del Web.
Pierluigi Paganini: «I dati sanitari possono essere usati a fini commerciali»
«Le big tech come Amazon, Google, Apple sono già in possesso di una quantità di informazioni legate alle nostre abitudini e possono profilare ognuno di noi. Questo vale anche per la salute. Stiamo trasferendo moltissime indicazioni sul nostro stile di vita e quindi anche potenzialmente sui nostri punti deboli sanitari. Con braccialetti e dispositivi vari, il monitoraggio dello stato di salute è continuo. Questo apre scenari inquietanti. Chi utilizza le informazioni? Siamo sicuri che non vengano rivendute e utilizzate per finalità commerciali?». Pierluigi Paganini, tra i massimi esperti di cibersicurezza, collabora al Sistema di prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario per fini illegali del ministero dell’Economia.
Lei ha approfondito il tema della presenza sempre più invadente dei colossi del Web nel settore sanitario. Cosa ha scoperto?
«Ci sono aspetti positivi in questi dispositivi tecnologici, come la possibilità di essere avvertiti in tempo di irregolarità nel battito cardiaco e prevenire l’infarto. Ma anche risvolti preoccupanti che vanno valutati e sui quali intervenire».
A cosa si riferisce?
«I dati personali sulla salute possono essere usati anche a fini discriminatori oltre che commerciali, che non hanno niente a che vedere con il benessere».
Ci fa qualche caso?
«Le informazioni sulla salute potrebbero essere vendute dalle big tech a compagnie di assicurazione. Le società che hanno necessità di stipulare una polizza per i loro dipendenti potrebbero discriminare tra individui ai quali dare una polizza sulla base di dati personali riservati. Chi ha patologie di cuore, ma anche chi conduce una vita molto sedentaria e ha problemi con il colesterolo e cattive abitudini alimentari, può essere, in prospettiva, un soggetto a rischio. In questo caso la polizza potrebbe risultare più costosa. La cosa potrebbe estendersi al mercato del lavoro».
Intende che i dati sulla salute diventerebbero discriminanti nei colloqui di assunzione?
«È un rischio. Sempre più spesso le società guardano alla presenza sui social del candidato per avere più informazioni oltre a quelle fornite dal curriculum. Se ne deduce l’orientamento politico, l’impegno sociale, gli interessi principali. Tutto concorre a profilare una persona. A queste informazioni potrebbero aggiungere quelle relative alla salute acquisite dalle banche dati dei grandi operatori del Web. Chi ha determinate patologie o fragilità è più a rischio di assenze, potrebbe risultare meno produttivo. Ecco che i dati diventano un fattore di discriminazione. La conoscenza dello stato di salute potrebbe essere usato dalle società di recruiting».
Per esempio?
«Se dal monitoraggio del battito cardiaco emerge che un soggetto si emoziona facilmente, potrebbe non essere indicato per attività che lo sottopongono a stress».
Le big tech quindi avrebbero di noi un quadro totale che potrebbero rivendere?
«Noi diamo a Amazon, Apple, Google, continuamente una serie di informazioni sul nostro stile di vita. È facile sapere chi è single, chi vive da solo, chi fa poco movimento fisico, le abitudini alimentari, il livello di socialità. Questi dati incrociati con le indicazioni sul battito cardiaco, il numero di passi giornaliero, il livello di ossigeno nel sangue, la pressione arteriosa, danno molto più di un’anamnesi medica. Bracciali e orologi digitali multifunzionali fanno un monitoraggio 24 ore su 24, ci seguono costantemente, hanno la situazione sotto controllo. È come avere un medico che ci segue tutto il giorno. Le informazioni aggregate concorrono a profilare una persona e a valutare il livello di rischio legato ad alcune sue abitudini. Amazon conosce i nostri acquisti, sa se sono solito comprare oggetti di sport e dall’Apple watch sa se faccio sport, se sono attivo, se cammino o vivo in modo sedentario. Non è fantascienza: è la realtà».
Però a qualcuno il braccialetto che misura il battito cardiaco ha salvato la vita.
«Non dico che il monitoraggio sia un male assoluto. Il tema è l’uso che si fa di tali dati. Se usati da un istituto pubblico possono essere utili a determinare il rischio di esposizione alle malattie di una comunità e quindi a intervenire in tempo con politiche di prevenzione mirate. Si avrebbero risparmi della spesa sanitaria. Però c’è anche un uso distorto dei dati personali sulla salute».
Chi controlla?
«Al momento nessuno, la materia ha tante zone d’ombra e le big tech se ne approfittano. Il problema è chi gestisce le informazioni. Se è un ente che rappresenta la collettività c’è un vantaggio, mentre un ente privato può farne usi commerciali e impropri. Chi è in grado di aggregare i dati personali ha in mano un potere enorme. Una volta profilato un soggetto, si può influenzarne le abitudini e lo stile di vita inducendo determinati acquisti».
C’è chi sta invece facendo un uso virtuoso di questi dati sanitari?
«Alcune cliniche stanno lavorando a progetti di ricerca per dispositivi che consentono di monitorare lo stato di salute in tempo reale. Così si riducono i tempi di ospedalizzazione e diminuisce la frequenza con cui si è obbligati a ricorrere alla clinica. Una sorta di scatola nera sanitaria. Questo è utilizzo virtuoso, si agisce in modo tempestivo su qualsiasi problematica. Un battito cardiaco anomalo è intercettato e la clinica chiede di fare subito un controllo. Il paziente è più seguito e la struttura riesce a ottimizzare il servizio che offre sulla base della disponibilità di medici e strutture».
Pier Luigi Bartoletti (Fimmg): «I dati sanitari possono essere usati a fini commerciali»
«Arriveremo al punto che Glovo, insieme con la pizza, ci porterà anche le medicine. Ormai il rapporto con i dispositivi della salute e con Internet è diventato ossessivo. Non sono contrario al bracciale che indica il battito cardiaco, ma non deve condizionare la vita. Non si può stare fissi sul display, entrare in agitazione e temere l’ictus se i battiti aumentano magari dopo una rampa di scale a piedi». Pier Luigi Bartoletti è vicesegretario della Fimmg, la Federazione italiana dei medici di medicina generale. Ha rilevato un aumento esponenziale dell’uso del Web per i temi della salute e l’acquisto esagerato di prodotti solo perché consigliati dalle chat o da qualche sito che rivendica inattendibili competenze scientifiche.
Racconta Bartoletti: «Ho pazienti che vengono in ambulatorio con la presunzione di indicarmi le cure che dovrei prescrivere solo perché lo hanno letto in Rete. Oppure manifestano disturbi perché, dopo aver seguito le indicazioni di un fantomatico sito sulla prevenzione al Covid, hanno fatto scorpacciata di integratori». Scherza? «Giorni fa si è presentata una paziente giovane con le mani arancioni. Era agitata perché, in base a Internet, temeva di avere qualche problema al fegato. Dopo una breve chiacchierata viene fuori che aveva mangiato troppe carote ritenendole un pieno di vitamine utile contro il Covid. In più aveva abusato di integratori. È bastato tornare all’alimentazione normale e tutto si è stabilizzato. Ma convincerla è stato faticoso, in lei c’era una convinzione granitica a base di citazioni da questo o quell’altro sito di fanatici vegetariani. C’è anche chi pretende di fare le analisi del sangue ogni tre mesi».
Bartoletti sottolinea che la pandemia ha cambiato il rapporto con la medicina: «C’è un’attenzione quasi ossessiva alla salute. Ben venga la sensibilità a un più corretto stile di vita, peccato che spesso si seguono indicazioni sbagliate. Il braccialetto che indica i battiti cardiaci più essere utile per responsabilizzare il soggetto verso comportamenti corretti, ma va usato con la giusta distanza: non può indurre a un atteggiamento compulsivo. Il cambiamento di alcuni valori in modo fisiologico non può creare il panico. L’informazione su Internet ha una sua utilità perché stimola nel paziente un’attenzione maggiore al suo benessere e impone al medico un aggiornamento continuo, di essere al passo con i tempi. Ma il Web non può sostituire il medico».
Per Bartoletti questo rischio è reale: «Sorgono esperti ovunque. I dispositivi tecnologici vanno usati con il dovuto distacco. Va bene se hanno un effetto ansiolitico ma non se hanno un effetto ansiogeno». Gli integratori, per esempio: «Fino a qualche anno fa era un mercato residuale. Ora i consumi sono aumentati e non per questo la salute è migliorata. Anzi spesso si fa un abuso di tali sostanze che come è stato provato, è dannoso. C’è chi, pur essendo vaccinato, continua a fare tamponi ogni settimana o il test sierologico con una frequenza fuori da ogni protocollo». Tutto questo ha un risvolto economico. La spesa è aumentata. E chi non riesce a far fronte ai rincari di alcuni prodotti determinati dall’incremento della domanda, ricorre a scorciatoie: Bartoletti ha notato «un aumento delle richieste di invalidità per avere le medicine gratuite».
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Spariscono i dottori, crescono gli interessi della medicina digitale: dopo Big pharma, la nostra salute è minacciata anche da Big tech.L’esperto di cybersicurezza Pierluigi Paganini: «Per soggetti più a rischio polizze assicurative rincarate e maggiori difficoltà nel trovare un posto».Pier Luigi Bartoletti , Fimmg: «arriveremo al punto di ordinare i farmaci come la pizza a domicilio».Lo speciale contiene tre articoli.In un prossimo futuro non sarà più il medico a occuparsi della nostra salute, non ci dovremo rivolgere a lui per l’antibiotico, la misurazione della pressione e per la pasticca contro il colesterolo o per curare il diabete. Basterà un clic e avremo uno staff di esperti pronto a fornirci tutte le soluzioni e a inondarci di supposte, compresse e preparati avveniristici, avendo in mano, aggiornata in tempo reale, la nostra cartella clinica. Saranno i big tech, Google, Amazon, Apple i padroni della nostra salute. E in parte già lo sono. Di noi sanno già moltissimo, grazie all’uso compulsivo che facciamo delle piattaforme sociali e di Internet. Ogni volta che ci colleghiamo a Google, che cerchiamo un’informazione online o chattiamo con un gruppo Facebook, «doniamo» ai Signori del Web una montagna di informazioni personali che, diversamente, non concederemmo nemmeno ai parenti più prossimi. Di noi i colossi di Internet sanno abitudini, stato civile, cosa mangiamo, se viaggiamo e come lo facciamo, se siamo socievoli, quali interessi abbiamo e anche quali vizi privatissimi. A questa mole di dati si stanno aggiungendo quelli sulla salute. La pandemia ha aumentato l’attenzione al proprio benessere fisico. Smartwatch, smartband, braccialetti vari che forniscono - a noi, ma anche ai giganti informatici - informazioni sul battito cardiaco, sulla pressione sanguigna, sul numero di passi giornaliero e così via, sono andati a ruba. Fanno parte della quotidianità al pari del cellulare. L’Apple watch, per esempio, raccoglie e organizza tutti i dati di benessere psicofisico per collegarli all’account personale. E Google mesi fa ha risposto acquisendo uno dei maggiori operatori del settore, Fitbit, produttore di bracciali e orologi orientati al fitness.sempre sotto controlloPochi si rendono conto che tutti questi dispositivi sono collettori di informazioni preziose. A noi sembra un servizio gratuito, al solo costo del bracciale che ci facilita la vita e aiuta a stare in forma; in realtà cediamo gratis i dati sulla nostra salute. Da tempo le big tech raccolgono direttamente le informazioni biologiche su milioni di pazienti e li combinano con i dati sulle attività ordinarie di mobilità o di consumo degli stessi soggetti, ricavando profili dettagliatissimi sull’evoluzione delle personalità e dei bisogni di ognuno. App e dispositivi di monitoraggio della salute si stanno diffondendo rapidamente. Quello che è capitato settimane fa a Eugenio Finardi, salvato in aeroporto dal suo smartphone che ha segnalato il sopraggiungere di una fibrillazione atriale, è un esempio dell’uso virtuoso del dispositivo. Ma c’è un risvolto della medaglia perché manca una regolamentazione, con la conseguenza che viene meno la tutela della privacy. Da tempo i big tech tentano di immagazzinare più informazioni possibili sulla salute mondiale con un’attenta opera di tracciamento dei dati che gli utenti lasciano incautamente sui vari dispositivi tecnologici. Già nel 2013, Google creò Calico, un’azienda con lo scopo di capire il processo biologico d’invecchiamento e sviluppare terapie per permettere alle persone di vivere più a lungo. Nel 2014, sempre Google lanciò le lenti a contatto connesse capaci di controllare il livello di glicemia, ma senza riscontrare il successo sperato. Amazon ha elaborato il progetto «Amazon comprehend medical» per sfruttare i dati medici di milioni di pazienti (come prescrizioni, note mediche, rapporti di patologia o persino radio) con lo scopo di estrarre, da queste fonti disparate, gli elementi chiave necessari per la diagnosi o la scelta di dosi e farmaci. Sulla stessa linea, Apple sta sviluppando Health kit, piattaforma di condivisione dati tra gli ospedali, mediante applicazioni da questi utilizzati, e che dovrebbe servire a ricostruire l’anamnesi dei pazienti. Ha suscitato scalpore la notizia del coinvolgimento di Google nell’attività di raccolta di dati personali di pazienti in molti ospedali statunitensi. All’insaputa di medici e malati, il colosso di Mountain View avrebbe immagazzinato i dati contenuti in cartelle cliniche di pazienti di 21 Stati Usa, all’interno di un progetto noto con il nome di Nightingale. Google ha sostenuto che tutto era perfettamente conforme alla legge federale sulla portabilità dei dati sanitari, che consente agli ospedali di condividere informazioni sanitarie con partner commerciali al fine di permettere alla struttura stessa di portare avanti le sue funzioni mediche. l’algoritmo farà ricetteLa domanda inquietante è: in un prossimo futuro la nostra salute sarà appesa alle diagnosi effettuate dagli algoritmi? La tendenza di affidarsi più alla tecnologia a buon mercato che alla medicina ufficiale è propria dei nostri tempi e risponde in parte alla protervia dell’autosufficienza e alla sfiducia nella competenza. Negli ultimi anni, ma soprattutto con il Covid, c’è stata una esplosione delle applicazioni sui cellulari che riguardano temi della salute. Insegnano a come superare l’ansia e lo stress, offrono con la stessa facilità consigli su come superare la timidezza in pubblico e come vincere la depressione. L’app Driver utilizza la realtà virtuale per trattare la paura di guidare attraverso la riproposizione al paziente di diversi scenari possibili, dalla guida in città a quella in galleria. Klover si propone di far superare la claustrofobia. L’università di Milan Bicocca ha creato un’applicazione, Italia ti ascolto, per stabilire lo stress pandemico e prenotare l’incontro con medici. La facoltà di psichiatria della Columbia University ha lanciato un’app per fornire cure alla depressione tramite algoritmi. Ma secondo il neuropsichiatra Massimo Ammaniti, l’uso di questi dispositivi è negativo perché comporta che il soggetto si definisca malato senza aver avuto prima una diagnosi. Poi osserva che già i problemi della patologia psichica sono difficilmente trattabili da un medico, figurarsi con un’applicazione che ha la pretesa di dare una risposta in breve tempo e un trattamento efficace in un paio di settimane. Tra le app più diffuse per combattere la depressione c’è Woebot, è un chatbot che dialoga con l’utente e gli chiede aggiornamenti sullo stato dell’umore e fornisce esercizi per migliorarlo. Ci sono anche applicazioni destinate ai bambini che addirittura tendono a sostituire i genitori nella funzione di rassicurarli. Una di queste aiuta a combattere la paura del buio. È una storia interattiva dal titolo Buona notte Dadà, che ha come protagonisti un bambino e alcuni minion che arrivano in suo soccorso. Anche la salute dei bambini è sempre più in mano ai Signori del Web.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/medicina-robot-futuro-2656207459.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pierluigi-paganini-i-dati-sanitari-possono-essere-usati-a-fini-commerciali" data-post-id="2656207459" data-published-at="1641160803" data-use-pagination="False"> Pierluigi Paganini: «I dati sanitari possono essere usati a fini commerciali» «Le big tech come Amazon, Google, Apple sono già in possesso di una quantità di informazioni legate alle nostre abitudini e possono profilare ognuno di noi. Questo vale anche per la salute. Stiamo trasferendo moltissime indicazioni sul nostro stile di vita e quindi anche potenzialmente sui nostri punti deboli sanitari. Con braccialetti e dispositivi vari, il monitoraggio dello stato di salute è continuo. Questo apre scenari inquietanti. Chi utilizza le informazioni? Siamo sicuri che non vengano rivendute e utilizzate per finalità commerciali?». Pierluigi Paganini, tra i massimi esperti di cibersicurezza, collabora al Sistema di prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario per fini illegali del ministero dell’Economia. Lei ha approfondito il tema della presenza sempre più invadente dei colossi del Web nel settore sanitario. Cosa ha scoperto? «Ci sono aspetti positivi in questi dispositivi tecnologici, come la possibilità di essere avvertiti in tempo di irregolarità nel battito cardiaco e prevenire l’infarto. Ma anche risvolti preoccupanti che vanno valutati e sui quali intervenire». A cosa si riferisce? «I dati personali sulla salute possono essere usati anche a fini discriminatori oltre che commerciali, che non hanno niente a che vedere con il benessere». Ci fa qualche caso? «Le informazioni sulla salute potrebbero essere vendute dalle big tech a compagnie di assicurazione. Le società che hanno necessità di stipulare una polizza per i loro dipendenti potrebbero discriminare tra individui ai quali dare una polizza sulla base di dati personali riservati. Chi ha patologie di cuore, ma anche chi conduce una vita molto sedentaria e ha problemi con il colesterolo e cattive abitudini alimentari, può essere, in prospettiva, un soggetto a rischio. In questo caso la polizza potrebbe risultare più costosa. La cosa potrebbe estendersi al mercato del lavoro». Intende che i dati sulla salute diventerebbero discriminanti nei colloqui di assunzione? «È un rischio. Sempre più spesso le società guardano alla presenza sui social del candidato per avere più informazioni oltre a quelle fornite dal curriculum. Se ne deduce l’orientamento politico, l’impegno sociale, gli interessi principali. Tutto concorre a profilare una persona. A queste informazioni potrebbero aggiungere quelle relative alla salute acquisite dalle banche dati dei grandi operatori del Web. Chi ha determinate patologie o fragilità è più a rischio di assenze, potrebbe risultare meno produttivo. Ecco che i dati diventano un fattore di discriminazione. La conoscenza dello stato di salute potrebbe essere usato dalle società di recruiting». Per esempio? «Se dal monitoraggio del battito cardiaco emerge che un soggetto si emoziona facilmente, potrebbe non essere indicato per attività che lo sottopongono a stress». Le big tech quindi avrebbero di noi un quadro totale che potrebbero rivendere? «Noi diamo a Amazon, Apple, Google, continuamente una serie di informazioni sul nostro stile di vita. È facile sapere chi è single, chi vive da solo, chi fa poco movimento fisico, le abitudini alimentari, il livello di socialità. Questi dati incrociati con le indicazioni sul battito cardiaco, il numero di passi giornaliero, il livello di ossigeno nel sangue, la pressione arteriosa, danno molto più di un’anamnesi medica. Bracciali e orologi digitali multifunzionali fanno un monitoraggio 24 ore su 24, ci seguono costantemente, hanno la situazione sotto controllo. È come avere un medico che ci segue tutto il giorno. Le informazioni aggregate concorrono a profilare una persona e a valutare il livello di rischio legato ad alcune sue abitudini. Amazon conosce i nostri acquisti, sa se sono solito comprare oggetti di sport e dall’Apple watch sa se faccio sport, se sono attivo, se cammino o vivo in modo sedentario. Non è fantascienza: è la realtà». Però a qualcuno il braccialetto che misura il battito cardiaco ha salvato la vita. «Non dico che il monitoraggio sia un male assoluto. Il tema è l’uso che si fa di tali dati. Se usati da un istituto pubblico possono essere utili a determinare il rischio di esposizione alle malattie di una comunità e quindi a intervenire in tempo con politiche di prevenzione mirate. Si avrebbero risparmi della spesa sanitaria. Però c’è anche un uso distorto dei dati personali sulla salute». Chi controlla? «Al momento nessuno, la materia ha tante zone d’ombra e le big tech se ne approfittano. Il problema è chi gestisce le informazioni. Se è un ente che rappresenta la collettività c’è un vantaggio, mentre un ente privato può farne usi commerciali e impropri. Chi è in grado di aggregare i dati personali ha in mano un potere enorme. Una volta profilato un soggetto, si può influenzarne le abitudini e lo stile di vita inducendo determinati acquisti». C’è chi sta invece facendo un uso virtuoso di questi dati sanitari? «Alcune cliniche stanno lavorando a progetti di ricerca per dispositivi che consentono di monitorare lo stato di salute in tempo reale. Così si riducono i tempi di ospedalizzazione e diminuisce la frequenza con cui si è obbligati a ricorrere alla clinica. Una sorta di scatola nera sanitaria. Questo è utilizzo virtuoso, si agisce in modo tempestivo su qualsiasi problematica. Un battito cardiaco anomalo è intercettato e la clinica chiede di fare subito un controllo. Il paziente è più seguito e la struttura riesce a ottimizzare il servizio che offre sulla base della disponibilità di medici e strutture». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/medicina-robot-futuro-2656207459.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="pier-luigi-bartoletti-fimmg-i-dati-sanitari-possono-essere-usati-a-fini-commerciali" data-post-id="2656207459" data-published-at="1641160803" data-use-pagination="False"> Pier Luigi Bartoletti (Fimmg): «I dati sanitari possono essere usati a fini commerciali» «Arriveremo al punto che Glovo, insieme con la pizza, ci porterà anche le medicine. Ormai il rapporto con i dispositivi della salute e con Internet è diventato ossessivo. Non sono contrario al bracciale che indica il battito cardiaco, ma non deve condizionare la vita. Non si può stare fissi sul display, entrare in agitazione e temere l’ictus se i battiti aumentano magari dopo una rampa di scale a piedi». Pier Luigi Bartoletti è vicesegretario della Fimmg, la Federazione italiana dei medici di medicina generale. Ha rilevato un aumento esponenziale dell’uso del Web per i temi della salute e l’acquisto esagerato di prodotti solo perché consigliati dalle chat o da qualche sito che rivendica inattendibili competenze scientifiche. Racconta Bartoletti: «Ho pazienti che vengono in ambulatorio con la presunzione di indicarmi le cure che dovrei prescrivere solo perché lo hanno letto in Rete. Oppure manifestano disturbi perché, dopo aver seguito le indicazioni di un fantomatico sito sulla prevenzione al Covid, hanno fatto scorpacciata di integratori». Scherza? «Giorni fa si è presentata una paziente giovane con le mani arancioni. Era agitata perché, in base a Internet, temeva di avere qualche problema al fegato. Dopo una breve chiacchierata viene fuori che aveva mangiato troppe carote ritenendole un pieno di vitamine utile contro il Covid. In più aveva abusato di integratori. È bastato tornare all’alimentazione normale e tutto si è stabilizzato. Ma convincerla è stato faticoso, in lei c’era una convinzione granitica a base di citazioni da questo o quell’altro sito di fanatici vegetariani. C’è anche chi pretende di fare le analisi del sangue ogni tre mesi». Bartoletti sottolinea che la pandemia ha cambiato il rapporto con la medicina: «C’è un’attenzione quasi ossessiva alla salute. Ben venga la sensibilità a un più corretto stile di vita, peccato che spesso si seguono indicazioni sbagliate. Il braccialetto che indica i battiti cardiaci più essere utile per responsabilizzare il soggetto verso comportamenti corretti, ma va usato con la giusta distanza: non può indurre a un atteggiamento compulsivo. Il cambiamento di alcuni valori in modo fisiologico non può creare il panico. L’informazione su Internet ha una sua utilità perché stimola nel paziente un’attenzione maggiore al suo benessere e impone al medico un aggiornamento continuo, di essere al passo con i tempi. Ma il Web non può sostituire il medico». Per Bartoletti questo rischio è reale: «Sorgono esperti ovunque. I dispositivi tecnologici vanno usati con il dovuto distacco. Va bene se hanno un effetto ansiolitico ma non se hanno un effetto ansiogeno». Gli integratori, per esempio: «Fino a qualche anno fa era un mercato residuale. Ora i consumi sono aumentati e non per questo la salute è migliorata. Anzi spesso si fa un abuso di tali sostanze che come è stato provato, è dannoso. C’è chi, pur essendo vaccinato, continua a fare tamponi ogni settimana o il test sierologico con una frequenza fuori da ogni protocollo». Tutto questo ha un risvolto economico. La spesa è aumentata. E chi non riesce a far fronte ai rincari di alcuni prodotti determinati dall’incremento della domanda, ricorre a scorciatoie: Bartoletti ha notato «un aumento delle richieste di invalidità per avere le medicine gratuite».
Palazzo Berlaymont a Bruxelles, sede della Commissione europea (Getty Images)
Una di queste si chiama S-info, che sta per Sustainable information. Come si legge sul sito ufficiale, «si tratta di un progetto finanziato dall’Ue, incentrato sui media e ispirato dall’esigenza di rafforzare la democrazia. Ha una durata di due anni, da dicembre 2023 a novembre 2025. Coinvolge organizzazioni di quattro Paesi dell’Unione europea: Italia, Belgio, Romania e Malta. Il progetto esplorerà i modi in cui gli attivisti della società civile e i giornalisti indipendenti possono collaborare per svolgere giornalismo investigativo, combattere la disinformazione, combattere la corruzione, promuovere i diritti sociali e difendere l’ambiente. L’obiettivo finale è quello di creare un modello operativo di attivismo mediatico sostenibile che possa essere trasferito ad altri Paesi e contesti».
La tiritera è la solita: lotta alla disinformazione, promozione dei diritti... S-info è finanziato da Eacea, ovvero l’agenzia esecutiva della Commissione europea che gestisce il programma Europa creativa, il quale a sua volta finanzia il progetto giornalistico in questione con la bellezza di 492.989 euro. E che cosa fa con questi soldi il progetto europeo? Beh, tra le altre cose finanzia inchieste che sono presentate come giornalismo investigativo. Una di queste è stata realizzata da Alice Dominese, la cui biografia online descrive come «laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali tra Italia e Francia, con un master in giornalismo. Collabora con L’Espresso e Domani, e ha scritto per La Stampa, Il Manifesto e The Post Internazionale, tra gli altri. Si occupa principalmente di diritti, migrazione e tematiche di genere».
La sua indagine, facilmente rintracciabile online, è intitolata Sottotraccia ed è dedicata ai temibili movimenti pro vita. «Questo articolo», si legge nella presentazione, «è il frutto di una delle due inchieste finanziate in Italia dal grant del progetto europeo S-info, cofinanziato dalla Commissione europea. La pubblicazione originale si trova sul sito ufficiale del progetto. In questa inchiesta, interviste e analisi di documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti esplorano il rapporto tra movimento antiabortista, sanità e servizi pubblici in Piemonte. Le informazioni raccolte fanno luce sull’uso che le associazioni pro vita fanno dei finanziamenti regionali e sul ruolo della Stanza dell’ascolto, il presidio che ha permesso a queste associazioni di inserirsi nel primo ospedale per numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia».
Niente in contrario ai finanziamenti pubblici, per carità. Ma guarda caso questi soldi finiscono a giornalisti decisamente sinistrorsi che, pronti via, se la prendono con i movimenti per la vita. Non stupisce, dopo tutto i partner italiani del progetto S-info sono Globalproject.info, Melting pot Europa e Sherwood.it, tutti punti di riferimento mediatici della sinistra antagonista.
Proprio Radio Sherwood, lo scorso giugno, ha organizzato a Padova il S-info day, durante il quale è stato presentato il manifesto per il giornalismo sostenibile. Evento clou della giornata un dibattito intitolato «Sovvertire le narrazioni di genere». Partecipanti: «L’attivista transfemminista Elena Cecchettin e la giornalista Giulia Siviero, moderato da Anna Irma Battino di Global project». La discussione si è concentrata «su come le narrazioni di genere, troppo spesso costruite attorno a stereotipi o plasmate da dinamiche di potere, possano essere decostruite e trasformate attraverso un giornalismo più consapevole, posizionato e inclusivo». Tutto meraviglioso: la Commissione europea combatte la disinformazione finanziando incontri sulla decostruzione del genere e inchieste contro i pro vita. Alla faccia della libera informazione.
«Da Bruxelles», ha dichiarato Maurizio Marrone, assessore piemontese alle Politiche sociali, «arriva una palese ingerenza estera per screditare azioni deliberate dal governo regionale eletto dai piemontesi, peraltro con allarmismi propagandistici smentiti dalla realtà. Il nostro fondo Vita nascente finanzia sì anzitutto i progetti dei centri di aiuto alla vita a sostegno delle madri in difficoltà, ma eroga contributi anche ai servizi di assistenza pubblica per le medesime finalità, partendo dall’accompagnamento nei parti in anonimato. Ci troviamo di fronte a un grave precedente, irrispettoso delle autonomie locali italiane e della loro sovranità».
Carlo Fidanza, capodelegazione europeo di Fdi, annuncia invece che presenterà «un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea per far luce sui finanziamenti dell’agenzia Eacea a questi attacchi mediatici creati a tavolino per alimentare odio ideologico contro il volontariato pro vita. L’Unione europea dovrebbe sostenere le politiche delle Regioni italiane, non alimentare con soldi pubblici la macchina del fango contro le loro iniziative non omologate al pensiero unico woke».
Insomma, a Bruxelles piace il giornalismo libero. A patto che sia pagato dai contribuenti per prendersela con i nemici ideologici.
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Lo stand della casa editrice Passaggio al bosco a «Più libri più liberi» (Ansa)
Basta guardare la folla che si presenta e, con un pizzico di curiosità, guarda i titoli di questa casa editrice. Titoli che si sono esauriti in pochissimo tempo. La rivoluzione conservatrice, un volume scritto da Armin Mohler, che racconta la storia intellettuale della Germania tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. «Abbiamo dovuto chiedere di portarci nuovi libri», spiegano dalla casa editrice, «perché ormai ne avevamo davvero pochi e alcuni titoli erano completamente esauriti». Oppure Psicopatologia del radical chic, che immaginiamo sia stato parecchio utile in questi giorni di polemica per comprendere come ragiona chi, in nome della libertà, vorrebbe la censura per gli altri. Oppure Coraggio. Manuale di guerriglia culturale. Una virtù, quella del coraggio appunto, che parrebbe mancare a chi, come ad esempio Alessandro Barbero, nel 2019 diceva: «Penso che l’antifascismo non passi necessariamente attraverso il proibire a una casa editrice di destra di avere uno stand». E che oggi invece sottoscrive appelli per boicottare una casa editrice di destra insieme a Zerocalcare, che ha deciso di non partecipare alla kermesse ma di continuare comunque a vendere i suoi libri (come si dice in romanesco pecunia non olet?). Corrado Augias, invece, è riuscito a fare di meglio. Ha scritto una lettera, a Repubblica ovviamente, in cui ha annunciato che non si sarebbe presentato in fiera, dove avrebbe dovuto parlare di Piero Gobetti. Una lettera piena di pathos, quasi che si trovasse al confino, in cui spiegava: «Io sono favorevole alla tolleranza, anzi la pratico - anche con gli intolleranti per scelta, per età, per temperamento. C’è però una distinzione. Un conto sono gli intolleranti un altro, ben diverso, chi si fa partecipe cioè complice delle idee di un regime criminale come il nazismo». Perché si inizia sempre così: sono tollerante, ma fino a un certo punto. Anzi: fino al «però». Fino a dove ci sono quelli che Augias definisce nazisti, anche se in realtà non lo sono.
Dallo stand di Passaggio al bosco, come dicevamo, stanno passando tutti. Alcuni chiedono di parlare con l’editore, Marco Scatarzi, dicendo di condividere poco o nulla di ciò che stampa, ma esprimendo comunque solidarietà nei suoi confronti. Ci sono anche scolaresche che si fermano e pongono domande su quei libri «proibiti». Anche Anna Paola Concia, che certamente non può essere considerata una pericolosa reazionaria, è andata a visitare lo stand esprimendo vicinanza a Passaggio al bosco. Il mondo al contrario, appunto. O solamente un mondo in cui c’è un po’ di buonsenso. Quello che ti fa dire che chiunque può pubblicare qualsiasi testo purché non sia contrario alla legge.
C’è chi, però, continua a non accettare la presenza della casa editrice. Nel pomeriggio di ieri, per esempio, un gruppo di femministe ha prima urlato «siamo tutte antifasciste» e poi ha lanciato un volantino in cui si dà la colpa al capitalismo, che insieme al nazismo è ovunque, se Passaggio al bosco è lì. Oggi, inoltre, una ventina di case editrici ha deciso di coprire, per una mezz’ora di protesta, i propri libri. «Questo è ciò che è accaduto alla libertà di stampa e di pensiero quando i fascisti e i nazisti hanno messo in pratica la loro libertà di espressione. Vogliamo una Più libri più liberi antifascista».
Per una strana eterogenesi dei fini, gli stand delle case editrici più agguerrite contro Passaggio al bosco, tra cui per esempio Red Star, sono vuoti. Pochi visitatori spaesati si aggirano tra i libri su Lenin e quelli su Stalin. Un fantasma si aggira per gli stand: ed è quello degli antifa.
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I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero a Grinzane Cavour (Cuneo), il 28 aprile 2021 (Ansa)
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.
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Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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