2022-01-03
Addio medico: ti cura Amazon
Spariscono i dottori, crescono gli interessi della medicina digitale: dopo Big pharma, la nostra salute è minacciata anche da Big tech.L’esperto di cybersicurezza Pierluigi Paganini: «Per soggetti più a rischio polizze assicurative rincarate e maggiori difficoltà nel trovare un posto».Pier Luigi Bartoletti , Fimmg: «arriveremo al punto di ordinare i farmaci come la pizza a domicilio».Lo speciale contiene tre articoli.In un prossimo futuro non sarà più il medico a occuparsi della nostra salute, non ci dovremo rivolgere a lui per l’antibiotico, la misurazione della pressione e per la pasticca contro il colesterolo o per curare il diabete. Basterà un clic e avremo uno staff di esperti pronto a fornirci tutte le soluzioni e a inondarci di supposte, compresse e preparati avveniristici, avendo in mano, aggiornata in tempo reale, la nostra cartella clinica. Saranno i big tech, Google, Amazon, Apple i padroni della nostra salute. E in parte già lo sono. Di noi sanno già moltissimo, grazie all’uso compulsivo che facciamo delle piattaforme sociali e di Internet. Ogni volta che ci colleghiamo a Google, che cerchiamo un’informazione online o chattiamo con un gruppo Facebook, «doniamo» ai Signori del Web una montagna di informazioni personali che, diversamente, non concederemmo nemmeno ai parenti più prossimi. Di noi i colossi di Internet sanno abitudini, stato civile, cosa mangiamo, se viaggiamo e come lo facciamo, se siamo socievoli, quali interessi abbiamo e anche quali vizi privatissimi. A questa mole di dati si stanno aggiungendo quelli sulla salute. La pandemia ha aumentato l’attenzione al proprio benessere fisico. Smartwatch, smartband, braccialetti vari che forniscono - a noi, ma anche ai giganti informatici - informazioni sul battito cardiaco, sulla pressione sanguigna, sul numero di passi giornaliero e così via, sono andati a ruba. Fanno parte della quotidianità al pari del cellulare. L’Apple watch, per esempio, raccoglie e organizza tutti i dati di benessere psicofisico per collegarli all’account personale. E Google mesi fa ha risposto acquisendo uno dei maggiori operatori del settore, Fitbit, produttore di bracciali e orologi orientati al fitness.sempre sotto controlloPochi si rendono conto che tutti questi dispositivi sono collettori di informazioni preziose. A noi sembra un servizio gratuito, al solo costo del bracciale che ci facilita la vita e aiuta a stare in forma; in realtà cediamo gratis i dati sulla nostra salute. Da tempo le big tech raccolgono direttamente le informazioni biologiche su milioni di pazienti e li combinano con i dati sulle attività ordinarie di mobilità o di consumo degli stessi soggetti, ricavando profili dettagliatissimi sull’evoluzione delle personalità e dei bisogni di ognuno. App e dispositivi di monitoraggio della salute si stanno diffondendo rapidamente. Quello che è capitato settimane fa a Eugenio Finardi, salvato in aeroporto dal suo smartphone che ha segnalato il sopraggiungere di una fibrillazione atriale, è un esempio dell’uso virtuoso del dispositivo. Ma c’è un risvolto della medaglia perché manca una regolamentazione, con la conseguenza che viene meno la tutela della privacy. Da tempo i big tech tentano di immagazzinare più informazioni possibili sulla salute mondiale con un’attenta opera di tracciamento dei dati che gli utenti lasciano incautamente sui vari dispositivi tecnologici. Già nel 2013, Google creò Calico, un’azienda con lo scopo di capire il processo biologico d’invecchiamento e sviluppare terapie per permettere alle persone di vivere più a lungo. Nel 2014, sempre Google lanciò le lenti a contatto connesse capaci di controllare il livello di glicemia, ma senza riscontrare il successo sperato. Amazon ha elaborato il progetto «Amazon comprehend medical» per sfruttare i dati medici di milioni di pazienti (come prescrizioni, note mediche, rapporti di patologia o persino radio) con lo scopo di estrarre, da queste fonti disparate, gli elementi chiave necessari per la diagnosi o la scelta di dosi e farmaci. Sulla stessa linea, Apple sta sviluppando Health kit, piattaforma di condivisione dati tra gli ospedali, mediante applicazioni da questi utilizzati, e che dovrebbe servire a ricostruire l’anamnesi dei pazienti. Ha suscitato scalpore la notizia del coinvolgimento di Google nell’attività di raccolta di dati personali di pazienti in molti ospedali statunitensi. All’insaputa di medici e malati, il colosso di Mountain View avrebbe immagazzinato i dati contenuti in cartelle cliniche di pazienti di 21 Stati Usa, all’interno di un progetto noto con il nome di Nightingale. Google ha sostenuto che tutto era perfettamente conforme alla legge federale sulla portabilità dei dati sanitari, che consente agli ospedali di condividere informazioni sanitarie con partner commerciali al fine di permettere alla struttura stessa di portare avanti le sue funzioni mediche. l’algoritmo farà ricetteLa domanda inquietante è: in un prossimo futuro la nostra salute sarà appesa alle diagnosi effettuate dagli algoritmi? La tendenza di affidarsi più alla tecnologia a buon mercato che alla medicina ufficiale è propria dei nostri tempi e risponde in parte alla protervia dell’autosufficienza e alla sfiducia nella competenza. Negli ultimi anni, ma soprattutto con il Covid, c’è stata una esplosione delle applicazioni sui cellulari che riguardano temi della salute. Insegnano a come superare l’ansia e lo stress, offrono con la stessa facilità consigli su come superare la timidezza in pubblico e come vincere la depressione. L’app Driver utilizza la realtà virtuale per trattare la paura di guidare attraverso la riproposizione al paziente di diversi scenari possibili, dalla guida in città a quella in galleria. Klover si propone di far superare la claustrofobia. L’università di Milan Bicocca ha creato un’applicazione, Italia ti ascolto, per stabilire lo stress pandemico e prenotare l’incontro con medici. La facoltà di psichiatria della Columbia University ha lanciato un’app per fornire cure alla depressione tramite algoritmi. Ma secondo il neuropsichiatra Massimo Ammaniti, l’uso di questi dispositivi è negativo perché comporta che il soggetto si definisca malato senza aver avuto prima una diagnosi. Poi osserva che già i problemi della patologia psichica sono difficilmente trattabili da un medico, figurarsi con un’applicazione che ha la pretesa di dare una risposta in breve tempo e un trattamento efficace in un paio di settimane. Tra le app più diffuse per combattere la depressione c’è Woebot, è un chatbot che dialoga con l’utente e gli chiede aggiornamenti sullo stato dell’umore e fornisce esercizi per migliorarlo. Ci sono anche applicazioni destinate ai bambini che addirittura tendono a sostituire i genitori nella funzione di rassicurarli. Una di queste aiuta a combattere la paura del buio. È una storia interattiva dal titolo Buona notte Dadà, che ha come protagonisti un bambino e alcuni minion che arrivano in suo soccorso. Anche la salute dei bambini è sempre più in mano ai Signori del Web.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/medicina-robot-futuro-2656207459.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pierluigi-paganini-i-dati-sanitari-possono-essere-usati-a-fini-commerciali" data-post-id="2656207459" data-published-at="1641160803" data-use-pagination="False"> Pierluigi Paganini: «I dati sanitari possono essere usati a fini commerciali» «Le big tech come Amazon, Google, Apple sono già in possesso di una quantità di informazioni legate alle nostre abitudini e possono profilare ognuno di noi. Questo vale anche per la salute. Stiamo trasferendo moltissime indicazioni sul nostro stile di vita e quindi anche potenzialmente sui nostri punti deboli sanitari. Con braccialetti e dispositivi vari, il monitoraggio dello stato di salute è continuo. Questo apre scenari inquietanti. Chi utilizza le informazioni? Siamo sicuri che non vengano rivendute e utilizzate per finalità commerciali?». Pierluigi Paganini, tra i massimi esperti di cibersicurezza, collabora al Sistema di prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario per fini illegali del ministero dell’Economia. Lei ha approfondito il tema della presenza sempre più invadente dei colossi del Web nel settore sanitario. Cosa ha scoperto? «Ci sono aspetti positivi in questi dispositivi tecnologici, come la possibilità di essere avvertiti in tempo di irregolarità nel battito cardiaco e prevenire l’infarto. Ma anche risvolti preoccupanti che vanno valutati e sui quali intervenire». A cosa si riferisce? «I dati personali sulla salute possono essere usati anche a fini discriminatori oltre che commerciali, che non hanno niente a che vedere con il benessere». Ci fa qualche caso? «Le informazioni sulla salute potrebbero essere vendute dalle big tech a compagnie di assicurazione. Le società che hanno necessità di stipulare una polizza per i loro dipendenti potrebbero discriminare tra individui ai quali dare una polizza sulla base di dati personali riservati. Chi ha patologie di cuore, ma anche chi conduce una vita molto sedentaria e ha problemi con il colesterolo e cattive abitudini alimentari, può essere, in prospettiva, un soggetto a rischio. In questo caso la polizza potrebbe risultare più costosa. La cosa potrebbe estendersi al mercato del lavoro». Intende che i dati sulla salute diventerebbero discriminanti nei colloqui di assunzione? «È un rischio. Sempre più spesso le società guardano alla presenza sui social del candidato per avere più informazioni oltre a quelle fornite dal curriculum. Se ne deduce l’orientamento politico, l’impegno sociale, gli interessi principali. Tutto concorre a profilare una persona. A queste informazioni potrebbero aggiungere quelle relative alla salute acquisite dalle banche dati dei grandi operatori del Web. Chi ha determinate patologie o fragilità è più a rischio di assenze, potrebbe risultare meno produttivo. Ecco che i dati diventano un fattore di discriminazione. La conoscenza dello stato di salute potrebbe essere usato dalle società di recruiting». Per esempio? «Se dal monitoraggio del battito cardiaco emerge che un soggetto si emoziona facilmente, potrebbe non essere indicato per attività che lo sottopongono a stress». Le big tech quindi avrebbero di noi un quadro totale che potrebbero rivendere? «Noi diamo a Amazon, Apple, Google, continuamente una serie di informazioni sul nostro stile di vita. È facile sapere chi è single, chi vive da solo, chi fa poco movimento fisico, le abitudini alimentari, il livello di socialità. Questi dati incrociati con le indicazioni sul battito cardiaco, il numero di passi giornaliero, il livello di ossigeno nel sangue, la pressione arteriosa, danno molto più di un’anamnesi medica. Bracciali e orologi digitali multifunzionali fanno un monitoraggio 24 ore su 24, ci seguono costantemente, hanno la situazione sotto controllo. È come avere un medico che ci segue tutto il giorno. Le informazioni aggregate concorrono a profilare una persona e a valutare il livello di rischio legato ad alcune sue abitudini. Amazon conosce i nostri acquisti, sa se sono solito comprare oggetti di sport e dall’Apple watch sa se faccio sport, se sono attivo, se cammino o vivo in modo sedentario. Non è fantascienza: è la realtà». Però a qualcuno il braccialetto che misura il battito cardiaco ha salvato la vita. «Non dico che il monitoraggio sia un male assoluto. Il tema è l’uso che si fa di tali dati. Se usati da un istituto pubblico possono essere utili a determinare il rischio di esposizione alle malattie di una comunità e quindi a intervenire in tempo con politiche di prevenzione mirate. Si avrebbero risparmi della spesa sanitaria. Però c’è anche un uso distorto dei dati personali sulla salute». Chi controlla? «Al momento nessuno, la materia ha tante zone d’ombra e le big tech se ne approfittano. Il problema è chi gestisce le informazioni. Se è un ente che rappresenta la collettività c’è un vantaggio, mentre un ente privato può farne usi commerciali e impropri. Chi è in grado di aggregare i dati personali ha in mano un potere enorme. Una volta profilato un soggetto, si può influenzarne le abitudini e lo stile di vita inducendo determinati acquisti». C’è chi sta invece facendo un uso virtuoso di questi dati sanitari? «Alcune cliniche stanno lavorando a progetti di ricerca per dispositivi che consentono di monitorare lo stato di salute in tempo reale. Così si riducono i tempi di ospedalizzazione e diminuisce la frequenza con cui si è obbligati a ricorrere alla clinica. Una sorta di scatola nera sanitaria. Questo è utilizzo virtuoso, si agisce in modo tempestivo su qualsiasi problematica. Un battito cardiaco anomalo è intercettato e la clinica chiede di fare subito un controllo. Il paziente è più seguito e la struttura riesce a ottimizzare il servizio che offre sulla base della disponibilità di medici e strutture». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/medicina-robot-futuro-2656207459.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="pier-luigi-bartoletti-fimmg-i-dati-sanitari-possono-essere-usati-a-fini-commerciali" data-post-id="2656207459" data-published-at="1641160803" data-use-pagination="False"> Pier Luigi Bartoletti (Fimmg): «I dati sanitari possono essere usati a fini commerciali» «Arriveremo al punto che Glovo, insieme con la pizza, ci porterà anche le medicine. Ormai il rapporto con i dispositivi della salute e con Internet è diventato ossessivo. Non sono contrario al bracciale che indica il battito cardiaco, ma non deve condizionare la vita. Non si può stare fissi sul display, entrare in agitazione e temere l’ictus se i battiti aumentano magari dopo una rampa di scale a piedi». Pier Luigi Bartoletti è vicesegretario della Fimmg, la Federazione italiana dei medici di medicina generale. Ha rilevato un aumento esponenziale dell’uso del Web per i temi della salute e l’acquisto esagerato di prodotti solo perché consigliati dalle chat o da qualche sito che rivendica inattendibili competenze scientifiche. Racconta Bartoletti: «Ho pazienti che vengono in ambulatorio con la presunzione di indicarmi le cure che dovrei prescrivere solo perché lo hanno letto in Rete. Oppure manifestano disturbi perché, dopo aver seguito le indicazioni di un fantomatico sito sulla prevenzione al Covid, hanno fatto scorpacciata di integratori». Scherza? «Giorni fa si è presentata una paziente giovane con le mani arancioni. Era agitata perché, in base a Internet, temeva di avere qualche problema al fegato. Dopo una breve chiacchierata viene fuori che aveva mangiato troppe carote ritenendole un pieno di vitamine utile contro il Covid. In più aveva abusato di integratori. È bastato tornare all’alimentazione normale e tutto si è stabilizzato. Ma convincerla è stato faticoso, in lei c’era una convinzione granitica a base di citazioni da questo o quell’altro sito di fanatici vegetariani. C’è anche chi pretende di fare le analisi del sangue ogni tre mesi». Bartoletti sottolinea che la pandemia ha cambiato il rapporto con la medicina: «C’è un’attenzione quasi ossessiva alla salute. Ben venga la sensibilità a un più corretto stile di vita, peccato che spesso si seguono indicazioni sbagliate. Il braccialetto che indica i battiti cardiaci più essere utile per responsabilizzare il soggetto verso comportamenti corretti, ma va usato con la giusta distanza: non può indurre a un atteggiamento compulsivo. Il cambiamento di alcuni valori in modo fisiologico non può creare il panico. L’informazione su Internet ha una sua utilità perché stimola nel paziente un’attenzione maggiore al suo benessere e impone al medico un aggiornamento continuo, di essere al passo con i tempi. Ma il Web non può sostituire il medico». Per Bartoletti questo rischio è reale: «Sorgono esperti ovunque. I dispositivi tecnologici vanno usati con il dovuto distacco. Va bene se hanno un effetto ansiolitico ma non se hanno un effetto ansiogeno». Gli integratori, per esempio: «Fino a qualche anno fa era un mercato residuale. Ora i consumi sono aumentati e non per questo la salute è migliorata. Anzi spesso si fa un abuso di tali sostanze che come è stato provato, è dannoso. C’è chi, pur essendo vaccinato, continua a fare tamponi ogni settimana o il test sierologico con una frequenza fuori da ogni protocollo». Tutto questo ha un risvolto economico. La spesa è aumentata. E chi non riesce a far fronte ai rincari di alcuni prodotti determinati dall’incremento della domanda, ricorre a scorciatoie: Bartoletti ha notato «un aumento delle richieste di invalidità per avere le medicine gratuite».