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2022-02-14
Medici in fuga
Ansa
Fino a una decina di anni fa, la professione medica era in cima alle ambizioni di ogni laureato. Il pronto soccorso aveva il fascino di una posizione di trincea enfatizzato anche da tanti film che esaltavano il ruolo di chi è in prima linea nelle emergenze. Ma i tagli alla sanità, lo smembramento dei pronto soccorso, presi comunque d’assalto per il mancato filtro dei medici di base, l’aumento della pressione lavorativa con turni massacranti per mancanza di personale, le aspettative economiche deluse, hanno spinto questa professione in fondo alla graduatoria delle aspirazioni dei giovani inducendo al pensionamento anticipato chi era ancora lontano dall’età per lasciare.
A questo si aggiunge l’imbuto delle scuole di specializzazione che hanno pochi posti rispetto alla grande domanda. Un medico abilitato ma privo di specializzazione può svolgere pochissime mansioni. Così chi può abbandona l’Italia alla ricerca di situazioni che forniscano migliori prospettive professionali ed economiche. È uno spreco di risorse oltre che di competenze. Ocse, Unesco-Uis ed Eurostat hanno stimato che l’istruzione universitaria costa allo Stato circa 6.900 euro l’anno per ogni studente. Siccome il percorso di medicina dura minimo 6 anni, la cifra ammonta a 41.000 euro solo per arrivare alla laurea. Investimenti che restano congelati per l’imbuto formativo o vanno a vantaggio di altri Paesi che accolgono i nostri laureati.
Così nel solo 2021, secondo l’ordine dei medici del Lazio, in 1.000 sono partiti per l’estero al termine della specializzazione. Da Milano altri 500. Su 24.000 specializzandi italiani, in 10.000 si sono trasferiti. «Non offriamo loro stabilità contrattuale, il sistema va rivisto e va rivisto ora», spiega Antonio Magi, presidente dell’ordine dei medici del Lazio. Durante le quattro ondate della pandemia le strutture sanitarie sono state travolte e la rete ha rischiato di cedere sotto la pressione di ricoveri e malati. Gli allarmi per l’assenza di medici specializzati si sono accesi a più riprese. I posti di lavoro non mancano ma si è costretti a coprirli con i pensionati, come è successo lo scorso ottobre quando sono stati reclutati anestesisti e rianimatori in quiescenza accanto ai neolaureati in medicina.
Da un sondaggio della federazione Cimo-Fesmed, sindacato che rappresenta oltre 18.000 camici bianchi, emerge un panorama desolante: i medici sono demoralizzati, rassegnati, si sentono abbandonati dalle istituzioni e sono pronti a lasciare il posto di lavoro o a migrare. Dalla ricerca, alla quale hanno partecipato 4.258 medici di tutta Italia, risulta che il 72% vorrebbe abbandonare l’ospedale pubblico, il 73% è costretto agli straordinari e il 42% ha più di 50 giorni di ferie arretrate, mentre per il 30% la qualità della vita non è sufficiente. E quando si passa alle esperienze dei giovani medici il quadro si fa drammatico: in meno di 5 anni di lavoro le ambizioni di carriera e retribuzione colano a picco.
Se il 72% dei medici che hanno preso parte all’indagine sceglierebbe ancora la medesima professione potendo tornare alla fine del liceo, solo il 28% continuerebbe a operare in una struttura pubblica. Gli altri opterebbero per un trasferimento all’estero (il 26%), per anticipare il pensionamento (19%), per lavorare in una struttura privata (14%) oppure preferirebbero dedicarsi alla libera professione (13%). Il 73% dei medici lamentano un aumento importante delle ore lavorative (il contratto prevede 38 ore a settimana). A causa della carenza di personale, il 20% è costretto a lavorare più di 48 ore a settimana, in palese violazione della normativa europea. Inoltre il 43% dei medici intervistati ha accumulato tra 11 e 50 giorni di ferie; il 24% tra 51 e 100 giorni; il 18% ha più di 100 giorni di ferie arretrate.
Anche la qualità dell’attività svolta è peggiorata. Manca il tempo per la formazione (solo il 4% riesce a dedicare il tempo necessario all’aggiornamento). Pesa anche l’eccesso di burocrazia. Per il 56% dei camici bianchi, la maggior parte del tempo se ne va nella compilazione degli atti burocratico-amministrativi e questo, secondo il 40%, sottrae attenzione all’ascolto del paziente.
Dal sondaggio emerge anche la disaffezione e delusione verso il Servizio sanitario nazionale da parte di chi ci lavora da diversi anni. All’inizio della carriera, l’83% dei medici più anziani si aspettava molto dalla professione, il 50% puntava su un avanzamento di carriera e il 47% su un aumento dello stipendio. A distanza di 15 anni queste percentuali crollano: il 24% conferma le alte aspettative in merito alla professione, ma solo il 14% e il 2% continuano a credere nella carriera e in una retribuzione migliore.
Questi numeri spiegano il perché della fuga dei camici bianchi dalle postazioni più sotto pressione. Secondo gli ultimi dati del conto annuale del Tesoro, nel 2019, il 2,9% dei medici ospedalieri ha deciso di licenziarsi: in 3.123 hanno visto un’alternativa migliore nel privato o nel lavoro sul territorio. Spesso la scelta non è dettata tanto da maggiori soddisfazioni economiche quanto dalla migliore qualità della vita. La Simeu, l’associazione di rappresentanza dei medici e degli infermieri del Pronto Soccorso e del 118, ha lanciato l’allarme sulla perdita di professionisti che «ha ormai raggiunto i massimi livelli storici e che rischia di compromettere, in maniera decisiva, la qualità dell’assistenza offerta». I dati forniti sono preoccupanti.
Oggi si registra una carenza di circa 4.000 medici e 10.000 infermieri di pronto soccorso e 118. I concorsi vanno deserti in tutte le regioni. Il 50% circa delle borse di studio nelle specialità di emergenza e urgenza non sono state assegnate nell’anno accademico 2021/22 per disinteresse dei neolaureati. Simeu segnala anche il 18% di abbandoni di studenti nell’anno accademico 2020/21. L’Anaao ha sottolineato che sono sempre più numerosi i dipendenti ospedalieri che si iscrivono alle graduatorie regionali di medicina generale per poter essere chiamati a esercitare come medico di famiglia. Ma i pronto soccorso restano sguarniti. A questo il Pnrr dovrà dare una risposta.
L’Italia è la maggior fucina di dottori in Europa
«Avevamo previsto la crisi con dieci anni d’anticipo, nel 2011. Non ci voleva la sfera di cristallo, bastava vedere l’invecchiamento della popolazione ospedaliera e la mancanza di turnover per assenza di specializzazioni. Allora si parlava del 2021 come anno di massima crisi ed è quello che si sta verificando. Siamo nella parte più alta della curva dei pensionamenti, circa 6.000-7.000 uscite ogni anno a cui si aggiunge l’esodo, ancora più preoccupante, non legato a raggiunti limiti di età ma a stanchezza e disillusione. Circa 3.000 medici ogni anno vanno via. Il 10% degli ospedalieri lascia il posto mentre il turnover dovrebbe essere limitato al 2%». È questo lo scenario delineato da Carlo Palermo, segretario nazionale di Anaao Assomed, il sindacato dei medici e della dirigenza sanitaria, il più rappresentativo con oltre 21.000 iscritti.
«Il lavoro in ospedale non attrae più. Pochi decenni fa un’assunzione a tempo indeterminato in un ospedale rappresentava il traguardo per tanti laureati, perché era un posto di prestigio che offriva opportunità di carriera e sicurezza economica. A nessuno sarebbe venuto in mente di dimettersi. Ora invece assistiamo a una fuga, chi verso il pensionamento anticipato, chi all’estero per cogliere opportunità economiche più vantaggiose».
L’Italia è il maggiore fornitore di laureati medici in Europa. «Prima spendiamo per formarli e poi li lasciamo andare via, è assurdo. Il 50% dei medici che si spostano dentro l’Ue viene dal nostro Paese. Ogni anno circa 1.500 camici bianchi varcano la frontiera, attratti da condizioni lavorative migliori, meno stressanti, con maggiori possibilità di carriera e stipendi che possono anche essere superiori del 50%». Palermo sottolinea i ritardi nel rinnovo del contratto: «Quello relativo al 2016-2018 lo abbiamo stipulato a dicembre 2019. Poi è scoppiata la pandemia e anche la contrattazione è stata congelata».
Cosa spinge un giovane a mollare tutto per trasferirsi all’estero? È solo una questione economica? «Il motivo principale è la difficoltà di accesso alle scuole di specializzazione», risponde Palermo. «Per molti anni il numero dei laureati è stato superiore ai posti nelle specializzazioni e questi colleghi erano costretti ad attività precarie». Ma questa tendenza potrebbe essere invertita dalle recenti disposizioni del ministero della Salute: «Sono stati finanziati 17.400 contratti di formazione specialistica che si aggiungono a quelli delle Regioni. C’è un’offerta di circa 20.000 posti nelle specializzazioni post laurea. Questo dovrebbe indurre i giovani a rimanere in Italia».
Ciò non toglie che sia un intervento tardivo. I sindacalista sottolinea che questi medici saranno disponibili tra 4-5 anni e nel frattempo, negli ospedali, ci sono buchi da riempire. Quale è la soluzione? L’Anaao ha girato al ministro Roberto Speranza un paio di proposte: assumere gli specializzandi attuali al terzo anno e poi passarli a tempo indeterminato una volta terminato il corso specialistico e trattenere in servizio, con vantaggi contributivi, chi è in attività e potrebbe andare in pensione: «È preferibile all’impiego di neo laureati e sarebbero interventi utili per non sguarnire sezioni importanti delle strutture ospedaliere». Tra le priorità, Palermo indica la riorganizzazione della medicina territoriale: «C’è carenza di medici di base, il che determina un eccessivo utilizzo dei pronto soccorso. Ma questo costringe i medici a turni massacranti, senza sostituzioni e quindi senza ferie. Lo abbiamo visto durante le emergenze del Covid. La pandemia ha fatto emergere le carenze del sistema sanitario sottoposto a tagli indiscriminati. Basti pensare che gli ospedali dispongono solo di 3,1 posti letto per 1.000 abitanti a fronte di una media europea di 5. Perché meravigliarsi se, con queste condizioni di lavoro, chi può lascia, se ne va in pensione in anticipo o varca la frontiera?».
«Gran Bretagna e Paesi arabi le mete preferite»
Il dottor Roberto Carlo Rossi è presidente dell’ordine dei medici di Milano. «Ogni giorno firmo almeno un good standing», rivela, «ovvero i certificati di onorabilità professionale per esercitare la professione extra Ue. Quelli per l’Unione europea vengono emessi dal ministero della Salute. Pensi a quanti medici lasciano l’Italia».
Qual è l’identikit di chi lascia l’Italia?
«Sbaglia chi pensa che siano solo neolaureati. Un terzo è costituito da professionisti già affermati. Poi c’è la valanga dei pensionamenti sia in ospedale sia tra i medici di famiglia. Ma mentre nei reparti c’è stata un minimo di programmazione, sul territorio è un dramma».
Quale è la situazione in Lombardia?
«Fino a 5-6 anni fa i medici convenzionati, tra guardie mediche, pediatri e medicina di famiglia, erano circa 8.000, ora siamo scesi a 5.600. A Milano da circa un migliaio siamo a 830. Nell’ultimo concorso per zone carenti a Milano c’erano 250 posti e ne sono stati coperti solo 30. Hanno partecipato in pochi. Prevediamo che a breve vadano in pensione circa 200 colleghi solo a Milano. E vanno rimpiazzati».
Non piace più fare il medico?
«La remunerazione è ferma da 15 anni e le spese sono aumentate, il carico burocratico è enorme. C’è una scarsa considerazione sociale con il carico di lavoro sempre più pesante».
Anche il medico alle prese con la burocrazia?
«Proprio così. Quando ho davanti un paziente sospetto di Covid, devo aprire tre portali internet: quello per le segnalazioni delle malattie infettive, per la prenotazione dei tamponi e per la gestione dello studio per le ricette. Prima di prescrivere alcune medicine, occorre fare la comunicazione su un’apposita piattaforma, compilare una scheda con i dati del paziente, la descrizione della patologia, la motivazione della prescrizione e la storia farmacologica del paziente. Tutte incombenze burocratiche che non hanno nulla a che fare con l’attività clinica, anzi tolgono tempo alla visita del paziente. Perdiamo ore dietro alla compilazione di queste follie burocratiche. Inoltre si è intensificato il contatto tramite mail e messaggi che impone al medico una connessione senza sosta. Le comunicazioni cominciano ad arrivare alle prime luci del giorno e terminano a notte fonda. Io sono seduto davanti al computer per l’80% del tempo».
Quali sono le destinazioni più gettonate per un medico che lascia l’Italia?
«Dipende dall’età. I giovani si dirigono soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania, mentre i colleghi affermati scelgono gli Emirati Arabi, allettati da incarichi prestigiosi e ben remunerati. Sono spostamenti che riguardano un periodo di tempo preciso, legato all’incarico; i giovani invece quasi mai fanno ritorno a casa».
Con i fondi del Pnrr dovrebbero partire i concorsi per ricoprire i posti lasciati scoperti dai pensionamenti.
«Lo spero. Le amministrazioni finora hanno preferito, soprattutto per i pronto soccorso, stipulare contratti libero professionali. Il che vuol dire precariato. Sono formule peraltro che non sempre sono valide ai fini del punteggio per un concorso».
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Dilaga il malcontento tra i camici bianchi: solo da Lazio e Lombardia ogni anno in 1.500 se ne vanno all’estero. Ecco le loro ragioni.Carlo Palermo (Anaao): troppe difficoltà per accedere alle scuole di specializzazione.Il leader milanese della categoria Roberto Carlo Rossi: «Da noi pochi soldi, troppe spese e burocrazia».Lo speciale contiene quattro articoliFino a una decina di anni fa, la professione medica era in cima alle ambizioni di ogni laureato. Il pronto soccorso aveva il fascino di una posizione di trincea enfatizzato anche da tanti film che esaltavano il ruolo di chi è in prima linea nelle emergenze. Ma i tagli alla sanità, lo smembramento dei pronto soccorso, presi comunque d’assalto per il mancato filtro dei medici di base, l’aumento della pressione lavorativa con turni massacranti per mancanza di personale, le aspettative economiche deluse, hanno spinto questa professione in fondo alla graduatoria delle aspirazioni dei giovani inducendo al pensionamento anticipato chi era ancora lontano dall’età per lasciare. A questo si aggiunge l’imbuto delle scuole di specializzazione che hanno pochi posti rispetto alla grande domanda. Un medico abilitato ma privo di specializzazione può svolgere pochissime mansioni. Così chi può abbandona l’Italia alla ricerca di situazioni che forniscano migliori prospettive professionali ed economiche. È uno spreco di risorse oltre che di competenze. Ocse, Unesco-Uis ed Eurostat hanno stimato che l’istruzione universitaria costa allo Stato circa 6.900 euro l’anno per ogni studente. Siccome il percorso di medicina dura minimo 6 anni, la cifra ammonta a 41.000 euro solo per arrivare alla laurea. Investimenti che restano congelati per l’imbuto formativo o vanno a vantaggio di altri Paesi che accolgono i nostri laureati.Così nel solo 2021, secondo l’ordine dei medici del Lazio, in 1.000 sono partiti per l’estero al termine della specializzazione. Da Milano altri 500. Su 24.000 specializzandi italiani, in 10.000 si sono trasferiti. «Non offriamo loro stabilità contrattuale, il sistema va rivisto e va rivisto ora», spiega Antonio Magi, presidente dell’ordine dei medici del Lazio. Durante le quattro ondate della pandemia le strutture sanitarie sono state travolte e la rete ha rischiato di cedere sotto la pressione di ricoveri e malati. Gli allarmi per l’assenza di medici specializzati si sono accesi a più riprese. I posti di lavoro non mancano ma si è costretti a coprirli con i pensionati, come è successo lo scorso ottobre quando sono stati reclutati anestesisti e rianimatori in quiescenza accanto ai neolaureati in medicina. Da un sondaggio della federazione Cimo-Fesmed, sindacato che rappresenta oltre 18.000 camici bianchi, emerge un panorama desolante: i medici sono demoralizzati, rassegnati, si sentono abbandonati dalle istituzioni e sono pronti a lasciare il posto di lavoro o a migrare. Dalla ricerca, alla quale hanno partecipato 4.258 medici di tutta Italia, risulta che il 72% vorrebbe abbandonare l’ospedale pubblico, il 73% è costretto agli straordinari e il 42% ha più di 50 giorni di ferie arretrate, mentre per il 30% la qualità della vita non è sufficiente. E quando si passa alle esperienze dei giovani medici il quadro si fa drammatico: in meno di 5 anni di lavoro le ambizioni di carriera e retribuzione colano a picco.Se il 72% dei medici che hanno preso parte all’indagine sceglierebbe ancora la medesima professione potendo tornare alla fine del liceo, solo il 28% continuerebbe a operare in una struttura pubblica. Gli altri opterebbero per un trasferimento all’estero (il 26%), per anticipare il pensionamento (19%), per lavorare in una struttura privata (14%) oppure preferirebbero dedicarsi alla libera professione (13%). Il 73% dei medici lamentano un aumento importante delle ore lavorative (il contratto prevede 38 ore a settimana). A causa della carenza di personale, il 20% è costretto a lavorare più di 48 ore a settimana, in palese violazione della normativa europea. Inoltre il 43% dei medici intervistati ha accumulato tra 11 e 50 giorni di ferie; il 24% tra 51 e 100 giorni; il 18% ha più di 100 giorni di ferie arretrate.Anche la qualità dell’attività svolta è peggiorata. Manca il tempo per la formazione (solo il 4% riesce a dedicare il tempo necessario all’aggiornamento). Pesa anche l’eccesso di burocrazia. Per il 56% dei camici bianchi, la maggior parte del tempo se ne va nella compilazione degli atti burocratico-amministrativi e questo, secondo il 40%, sottrae attenzione all’ascolto del paziente.Dal sondaggio emerge anche la disaffezione e delusione verso il Servizio sanitario nazionale da parte di chi ci lavora da diversi anni. All’inizio della carriera, l’83% dei medici più anziani si aspettava molto dalla professione, il 50% puntava su un avanzamento di carriera e il 47% su un aumento dello stipendio. A distanza di 15 anni queste percentuali crollano: il 24% conferma le alte aspettative in merito alla professione, ma solo il 14% e il 2% continuano a credere nella carriera e in una retribuzione migliore.Questi numeri spiegano il perché della fuga dei camici bianchi dalle postazioni più sotto pressione. Secondo gli ultimi dati del conto annuale del Tesoro, nel 2019, il 2,9% dei medici ospedalieri ha deciso di licenziarsi: in 3.123 hanno visto un’alternativa migliore nel privato o nel lavoro sul territorio. Spesso la scelta non è dettata tanto da maggiori soddisfazioni economiche quanto dalla migliore qualità della vita. La Simeu, l’associazione di rappresentanza dei medici e degli infermieri del Pronto Soccorso e del 118, ha lanciato l’allarme sulla perdita di professionisti che «ha ormai raggiunto i massimi livelli storici e che rischia di compromettere, in maniera decisiva, la qualità dell’assistenza offerta». I dati forniti sono preoccupanti.Oggi si registra una carenza di circa 4.000 medici e 10.000 infermieri di pronto soccorso e 118. I concorsi vanno deserti in tutte le regioni. Il 50% circa delle borse di studio nelle specialità di emergenza e urgenza non sono state assegnate nell’anno accademico 2021/22 per disinteresse dei neolaureati. Simeu segnala anche il 18% di abbandoni di studenti nell’anno accademico 2020/21. L’Anaao ha sottolineato che sono sempre più numerosi i dipendenti ospedalieri che si iscrivono alle graduatorie regionali di medicina generale per poter essere chiamati a esercitare come medico di famiglia. Ma i pronto soccorso restano sguarniti. 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Circa 3.000 medici ogni anno vanno via. Il 10% degli ospedalieri lascia il posto mentre il turnover dovrebbe essere limitato al 2%». È questo lo scenario delineato da Carlo Palermo, segretario nazionale di Anaao Assomed, il sindacato dei medici e della dirigenza sanitaria, il più rappresentativo con oltre 21.000 iscritti. «Il lavoro in ospedale non attrae più. Pochi decenni fa un’assunzione a tempo indeterminato in un ospedale rappresentava il traguardo per tanti laureati, perché era un posto di prestigio che offriva opportunità di carriera e sicurezza economica. A nessuno sarebbe venuto in mente di dimettersi. Ora invece assistiamo a una fuga, chi verso il pensionamento anticipato, chi all’estero per cogliere opportunità economiche più vantaggiose». L’Italia è il maggiore fornitore di laureati medici in Europa. «Prima spendiamo per formarli e poi li lasciamo andare via, è assurdo. Il 50% dei medici che si spostano dentro l’Ue viene dal nostro Paese. Ogni anno circa 1.500 camici bianchi varcano la frontiera, attratti da condizioni lavorative migliori, meno stressanti, con maggiori possibilità di carriera e stipendi che possono anche essere superiori del 50%». Palermo sottolinea i ritardi nel rinnovo del contratto: «Quello relativo al 2016-2018 lo abbiamo stipulato a dicembre 2019. Poi è scoppiata la pandemia e anche la contrattazione è stata congelata». Cosa spinge un giovane a mollare tutto per trasferirsi all’estero? È solo una questione economica? «Il motivo principale è la difficoltà di accesso alle scuole di specializzazione», risponde Palermo. «Per molti anni il numero dei laureati è stato superiore ai posti nelle specializzazioni e questi colleghi erano costretti ad attività precarie». Ma questa tendenza potrebbe essere invertita dalle recenti disposizioni del ministero della Salute: «Sono stati finanziati 17.400 contratti di formazione specialistica che si aggiungono a quelli delle Regioni. C’è un’offerta di circa 20.000 posti nelle specializzazioni post laurea. Questo dovrebbe indurre i giovani a rimanere in Italia». Ciò non toglie che sia un intervento tardivo. I sindacalista sottolinea che questi medici saranno disponibili tra 4-5 anni e nel frattempo, negli ospedali, ci sono buchi da riempire. Quale è la soluzione? L’Anaao ha girato al ministro Roberto Speranza un paio di proposte: assumere gli specializzandi attuali al terzo anno e poi passarli a tempo indeterminato una volta terminato il corso specialistico e trattenere in servizio, con vantaggi contributivi, chi è in attività e potrebbe andare in pensione: «È preferibile all’impiego di neo laureati e sarebbero interventi utili per non sguarnire sezioni importanti delle strutture ospedaliere». Tra le priorità, Palermo indica la riorganizzazione della medicina territoriale: «C’è carenza di medici di base, il che determina un eccessivo utilizzo dei pronto soccorso. Ma questo costringe i medici a turni massacranti, senza sostituzioni e quindi senza ferie. Lo abbiamo visto durante le emergenze del Covid. La pandemia ha fatto emergere le carenze del sistema sanitario sottoposto a tagli indiscriminati. Basti pensare che gli ospedali dispongono solo di 3,1 posti letto per 1.000 abitanti a fronte di una media europea di 5. Perché meravigliarsi se, con queste condizioni di lavoro, chi può lascia, se ne va in pensione in anticipo o varca la frontiera?». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/medici-in-fuga-2656648295.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="gran-bretagna-e-paesi-arabi-le-mete-preferite" data-post-id="2656648295" data-published-at="1644739630" data-use-pagination="False"> «Gran Bretagna e Paesi arabi le mete preferite» Il dottor Roberto Carlo Rossi è presidente dell’ordine dei medici di Milano. «Ogni giorno firmo almeno un good standing», rivela, «ovvero i certificati di onorabilità professionale per esercitare la professione extra Ue. Quelli per l’Unione europea vengono emessi dal ministero della Salute. Pensi a quanti medici lasciano l’Italia». Qual è l’identikit di chi lascia l’Italia? «Sbaglia chi pensa che siano solo neolaureati. Un terzo è costituito da professionisti già affermati. Poi c’è la valanga dei pensionamenti sia in ospedale sia tra i medici di famiglia. Ma mentre nei reparti c’è stata un minimo di programmazione, sul territorio è un dramma». Quale è la situazione in Lombardia? «Fino a 5-6 anni fa i medici convenzionati, tra guardie mediche, pediatri e medicina di famiglia, erano circa 8.000, ora siamo scesi a 5.600. A Milano da circa un migliaio siamo a 830. Nell’ultimo concorso per zone carenti a Milano c’erano 250 posti e ne sono stati coperti solo 30. Hanno partecipato in pochi. Prevediamo che a breve vadano in pensione circa 200 colleghi solo a Milano. E vanno rimpiazzati». Non piace più fare il medico? «La remunerazione è ferma da 15 anni e le spese sono aumentate, il carico burocratico è enorme. C’è una scarsa considerazione sociale con il carico di lavoro sempre più pesante». Anche il medico alle prese con la burocrazia? «Proprio così. Quando ho davanti un paziente sospetto di Covid, devo aprire tre portali internet: quello per le segnalazioni delle malattie infettive, per la prenotazione dei tamponi e per la gestione dello studio per le ricette. Prima di prescrivere alcune medicine, occorre fare la comunicazione su un’apposita piattaforma, compilare una scheda con i dati del paziente, la descrizione della patologia, la motivazione della prescrizione e la storia farmacologica del paziente. Tutte incombenze burocratiche che non hanno nulla a che fare con l’attività clinica, anzi tolgono tempo alla visita del paziente. Perdiamo ore dietro alla compilazione di queste follie burocratiche. Inoltre si è intensificato il contatto tramite mail e messaggi che impone al medico una connessione senza sosta. Le comunicazioni cominciano ad arrivare alle prime luci del giorno e terminano a notte fonda. Io sono seduto davanti al computer per l’80% del tempo». Quali sono le destinazioni più gettonate per un medico che lascia l’Italia? «Dipende dall’età. I giovani si dirigono soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania, mentre i colleghi affermati scelgono gli Emirati Arabi, allettati da incarichi prestigiosi e ben remunerati. Sono spostamenti che riguardano un periodo di tempo preciso, legato all’incarico; i giovani invece quasi mai fanno ritorno a casa». Con i fondi del Pnrr dovrebbero partire i concorsi per ricoprire i posti lasciati scoperti dai pensionamenti. «Lo spero. Le amministrazioni finora hanno preferito, soprattutto per i pronto soccorso, stipulare contratti libero professionali. Il che vuol dire precariato. Sono formule peraltro che non sempre sono valide ai fini del punteggio per un concorso».
Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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La centrale idroelettrica “Domenico Cimarosa” di Presenzano, in provincia di Caserta
Enel, leader nella produzione di energia pulita, considera l’idroelettrico una delle colonne portanti della transizione energetica, grazie alla sua affidabilità, flessibilità e capacità di integrarsi con altre fonti rinnovabili. Tra le tecnologie che guideranno la decarbonizzazione nei prossimi decenni, l’idroelettrico rimane una delle più solide, mature e strategiche. È una fonte rinnovabile antica, già utilizzata nei secoli per azionare mulini e macchinari, ma oggi completamente trasformata dall’innovazione industriale.
Per Enel, che ha anticipato al 2040 il traguardo del Net Zero, questa tecnologia rappresenta una risorsa strategica: combina innovazione, sostenibilità e benefici concreti per i territori. Il principio è semplice ma potentissimo: sfruttare la forza dell’acqua per mettere in rotazione turbine idrauliche collegate ad alternatori che producono elettricità. Dietro questo meccanismo lineare c’è però un lavoro ingegneristico complesso, fatto di dighe, gallerie, condotte forzate, sistemi di monitoraggio, regolazione dei flussi e integrazione con lo storage la rete elettrica.
Gli impianti idroelettrici gestiti da Enel non solo generano energia, ma svolgono una funzione preziosa nel controllo delle risorse idriche: aiutano a gestire periodi di siccità, a contenere gli effetti di precipitazioni eccezionali e a mantenere stabile il sistema elettrico nei picchi di domanda. Esistono tre principali tipologie di impianto: fluenti, che sfruttano la portata naturale dei corsi d’acqua; a bacino, dove le dighe trattengono l’acqua e permettono di modulare la produzione; e con pompaggio, un vero gioiello tecnologico. Qui i bacini sono due, uno a monte e uno a valle: l’acqua può essere riportata verso l’alto tramite le stesse turbine, trasformando il sistema in un grande “accumulatore naturale” di energia. Una riserva preziosa, che consente di compensare l’intermittenza delle altre fonti rinnovabili e di stabilizzare la rete elettrica quando il fabbisogno cresce improvvisamente.
Questo ruolo di bilanciamento è una delle ragioni per cui l’idroelettrico è considerato una tecnologia decisiva nella nuova architettura energetica. Nell’impianto di Dossi a Valbondione in provincia di Bergamo, , un sistema BESS (Battery Energy Storage System), Enel ha avviato il progetto di innovazione “BESS4HYDRO”, che entrerà in pieno esercizio nella primavera del 2026 e che prevede, per la prima volta in Europa, l’esercizio integrato di una batteria a litio in un impianto idroelettrico. Grazie alla maggiore flessibilità, l’impianto potrà svolgere anche servizi di rete che di norma vengono forniti da impianti a gas: diminuirà così il ricorso alle fonti fossili e aumenterà quindi la sostenibilità ambientale dell’intera operazione.
Accanto all’aspetto tecnico, c’è un altro valore: l’impatto positivo sui territori. Le grandi opere idroelettriche gestite da Enel hanno creato bacini artificiali che, oltre alla funzione energetica, hanno generato nuove opportunità per molte comunità. Turismo naturalistico, attività escursionistiche, pesca sportiva: gli invasi costruiti per la produzione elettrica si sono trasformati nel tempo in luoghi di valorizzazione paesaggistica ed economica, integrando il binomio energia-ambiente.
L’innovazione gioca un ruolo sempre più centrale. L’esperienza dell’impianto di Venaus, dove Enel ha integrato sulla vasca di scarico della centrale idroelettrica un sistema fotovoltaico galleggiante, dimostra come la combinazione tra diverse tecnologie possa aumentare la produzione rinnovabile senza consumare nuovo suolo. Allo stesso tempo, Enel investe in soluzioni che rendano gli impianti più sostenibili, efficienti e resilienti, puntando su manutenzione avanzata e modernizzazione delle strutture.
In un’epoca in cui la sicurezza energetica, la resilienza delle infrastrutture e la decarbonizzazione sono priorità globali, l’idroelettrico gestito da Enel dimostra di essere una tecnologia solida che guarda al futuro. Grazie alla sua capacità di produrre energia pulita, regolare i flussi idrici e stabilizzare la rete, continuerà ad accompagnare il percorso di transizione energetica, contribuendo in modo concreto agli obiettivi climatici dell’Italia e dell’Europa.
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