Ancora dettagli inquietanti nelle chat della Wpath: la transizione di genere proseguiva anche se i pazienti avevano subito traumi o soffrivano di personalità multiple. «Un malato psichiatrico può dare il consenso».
Ancora dettagli inquietanti nelle chat della Wpath: la transizione di genere proseguiva anche se i pazienti avevano subito traumi o soffrivano di personalità multiple. «Un malato psichiatrico può dare il consenso».È evidente: i medici-attivisti Lgbt hanno qualche problema con il consenso informato. Dalle chat dei membri della World professional association for transgender health (Wpath), emergono le due facce della medaglia: gli specialisti che trattano la disforia di genere si rendono conto di quanto sia difficile rendere i ragazzini consapevoli delle implicazioni di terapie ormonali e interventi sui genitali; al tempo stesso, però, coltivano ben poche remore nel sottoporli a trattamenti farmacologici e chirurgici. E se mancano scrupoli nei confronti dei minori, figuriamoci se i dottori negano il percorso di transizione a chi manifesta disturbi psichiatrici.Che gli esperti siano al corrente del problema, lo prova un messaggio datato 3 settembre 2021, nel quale uno dei membri del cenacolo Wpath spiega: «I traumi sono comuni tra i clienti trans. Tuttavia, sono rimasto sorpreso nel constatare che diversi dei miei clienti presentavano le caratteristiche dei disordini dissociativi». Ciò comporta un inconveniente: «Non tutti gli alter hanno la stessa identità di genere». In fondo, si parla di individui dalla personalità multipla; essi a seconda della loro momentanea «incarnazione», possono sentirsi di appartenere a un genere differente, oppure a quello che coincide con il loro sesso biologico. È inquietante una delle risposte ai dubbi sui pazienti con disordini dissociativi: «Alcuni», sospetta un dottore, «non dichiarano questo aspetto per timore che interferisca con la transizione».Il fenomeno è diffuso. In uno dei messaggi, si legge: «Ho notato un’alta incidenza di disordini dissociativi nella comunità» delle persone trans. Qualcuno, tuttavia, ha trovato una soluzione, magari un tantino contorta, per garantire la correttezza del processo di valutazione: «Con un cliente abbiamo lavorato su tutti gli alter […]. Alcuni erano sia maschio che femmina ed era imperativo fare in modo che ogni alter che sarebbe stato implicato nella terapia ormonale sostitutiva ne fosse consapevole e desse il consenso ai cambiamenti. Dal punto di vista etico, se non ottieni il consenso da tutti gli alter, non hai davvero ricevuto il consenso». In realtà, la preoccupazione è più pratica che morale: se non consulti tutte le personalità, infatti, «in seguito sei passibile di processo, qualora [i pazienti, ndr] decidano che la terapia ormonale sostitutiva o l’intervento non erano nel loro miglior interesse». Ci fu un’epoca in cui la regola principale, ippocratica, della professione medica era: «Per prima cosa, non nuocere». Nel mondo dei camici arcobaleno, l’urgenza è un’altra: «Per prima cosa, non farsi denunciare». Alcuni dei professionisti della transessualità, nelle chat, sollevano qualche interrogativo sulla capacità di intendere e volere dei soggetti con patologie psichiatriche. È allora che, il 21 ottobre 2021, balena un lampo di genio: «Certe questioni», ribatte uno dei partecipanti alla discussione, «non vengono fuori quando un eterosessuale cisgender, che se lo può permettere, chiede interventi di rigonfiamento delle labbra e nemmeno quando lo fa una persona con disordini dissociativi». Capito? Cambiare sesso è come farsi il filler. Per quale ragione ci si dovrebbe lambiccare il cervello? Alla fine, il dilemma viene risolto così: con le conferenze sulla «positività plurale». Non sempre, però, le cose filano lisce. Ne sa qualcosa il dottor Thomas Satterwhite, il quale riporta la sua esperienza: «Avevo un paziente che è diventato pericoloso/minaccioso con il nostro personale dopo l’operazione, cosa che si è conclusa con un ordine restrittivo. Questo paziente aveva disordini dell’umore non diagnosticati, che non si sono manifestati fino a dopo l’operazione». I soggetti con cui si ha a che fare, talora, sono davvero complicati da gestire. «Sono alle prese», racconta un medico, «con un paziente con disturbo post traumatico da stress, disturbo depressivo persistente con dissociazioni osservate e ben documentate. In più, un recente test della personalità ha suggerito tratti tipicamente schizoidi». Un quadro drammatico, che certo non depone a favore del percorso di transizione. «Sono perplesso», conclude il medico, «sto lottando interiormente per capire qual è la cosa giusta da fare». Falso dilemma, obietta il dottor Dan H. Karasic, che offre la sintesi perfetta della filosofia della Wpath: «Non capisco perché tu sia perplesso. [...] La semplice presenza di una malattia psichiatrica non dovrebbe bloccare la facoltà di una persona di iniziare gli ormoni, se ha una disforia di genere persistente, la capacità di prestare il consenso e i benefici dell’iniziare gli ormoni superano i rischi». Lo ribadisce anche un altro anonimo professionista: «Ho avuto pazienti/clienti con disturbi diagnosticati della personalità, depressivi, bipolari, schizofrenia eccetera, che se la sono cavata davvero bene con la terapia ormonale».La tesi dominante è che, «in generale, la malattia mentale non è una ragione per negare trattamenti medici necessari». Farlo, anzi, significa comportarsi da «gatekeeper», un termine che in italiano si traduce con «guardiano» e indica chiunque operi una qualche selezione preventiva e arbitraria, per escludere dal godimento dei diritti determinati gruppi culturali, etnici o demografici. L’approccio deve considerarsi valido pure con i minori. Un prof di Yale, a un certo punto, presenta il caso di un tredicenne in ritardo con lo sviluppo emotivo e cognitivo. Un terapeuta della Pennsylvania lo rassicura: «I bimbi con disabilità intellettive sono in grado di dare il consenso per altri interventi». Perché non dovrebbero poterlo dare a una «cura» - chiamiamola così - a base di ormoni? Viene sistematicamente elusa la vera questione: se venga prima la disforia di genere oppure la malattia mentale. Queste persone, stranamente, spesso affette da traumi e altri disordini, hanno seriamente bisogno della transizione di genere? O la loro volontà di cambiare sesso è uno dei sintomi delle loro patologie? Per rispondere, occorrerebbero quelle lunghe valutazioni psichiatriche che il modello «affermativo», promosso dalla Wpath, in sostanza ignora. Soprattutto, bisognerebbe prima porsi le domande giuste.
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