2022-10-12
Mauro Trabalza: «Porto in scena la Sora Lella e zio Fabrizi»
Mauro Trabalza e la locandina dello spettacolo teatrale «L' acqua e la farina»
Il nipote che ha deciso di realizzare uno spettacolo teatrale sulla celebre nonna e sul suo ancora più famoso fratello: «Sfato le voci sul fatto che non andassero d’accordo. S’incontravano al ristorante, stavano a lungo mano nella mano prima di parlare».Una linea invisibile separa una celebrità da un personaggio di culto. Questione di affetto popolare, che va al di là della semplice riconoscibilità. La Sora Lella, indimenticabile maschera romana, è entrata nel cuore della gente, dapprima in una dimensione capitolina, grazie al ristorante omonimo e a un programma radiofonico, poi è esplosa a livello nazionale con la partecipazione a commedie di successo del suo nipote artistico, Carlo Verdone. Uno dei suoi autentici nipoti, Mauro Trabalza, porta sulla scena uno spettacolo su di lei e sul suo ancor più famoso fratello, Aldo Fabrizi: una simbiosi cinematografica, ma soprattutto culinaria. Lo spettacolo non poteva che intitolarsi Acqua e farina, due ingredienti fondamentale della loro cucina.Com’è nata l’idea dello spettacolo? «Sono un grande appassionato di fotografia e con il mio collettivo fotografico abbiamo partecipato a uno spettacolo dell’accademia Teatro senza tempo di Mery Ferrara e Antonio Nobili, allestendo una mostra sugli attori e sulle emozioni. Mentre assistevo allo spettacolo, mi è venuto in mente: “Ma perché non facciamo qualcosa su nonna e zio Aldo?”. Ne ho parlato con Mery, che conosco da trent’anni. Lei, lì per lì, è rimasta un po’ sorpresa, poi ha accolto la mia proposta. Così è iniziato il percorso con Antonio, che dirigerà lo spettacolo e lo ha scritto, con la collaborazione di Mary e Alessio Chiodini. Dovevamo andare in scena due anni fa, però purtroppo la pandemia ci ha bloccati. I clienti del ristorante continuavano a chiedere: “Ma lo spettacolo quando lo fate?”. È arrivato finalmente il momento di andare in scena al Teatro Garbatella, il 15 e il 16 ottobre. E io interpreto me stesso». Poi lo porterete in altre località? «A Bologna, al Teatro Dehon, il 10 novembre e probabilmente, stiamo aspettando la conferma, al Marrucino di Chieti». Che ricordi ha della Sora Lella? «Ho dei ricordi vivi, intimi, perché nonna l’abbiamo vissuta bene, sia io sia mio fratello Renato, successivamente anche gli altri due fratelli, i gemelli Simone ed Elena. Ho ricordi d’infanzia, ma soprattutto da ragazzo, quando mi diceva, nelle mie avventure amorose: “Questa non me piace, questa non me piace, questa lasciala perde’, questa va bene, aspetta che ce parlo io”». Un po’ come nei film di Verdone? «Uguale! Io e Renato le andavamo a prendere le medicine in farmacia o al pronto soccorso per chiedere la ricetta al dottore e io le facevo l’insulina. Verdone è stato abile ad ascoltare tutti i racconti di mia nonna quando lei, per qualche anno, ha condotto una trasmissione radiofonica su Radio Lazio». Con le dediche, le telefonate… «Lei amava le telefonate, la gente, parlava con loro dei problemi quotidiani, il marito che aveva tradito la moglie, i genitori che non parlavano più con i figli. Entrava dentro le case e diventava la nonna e la mamma di tutti. E succede tuttora perché al ristorante abbiamo la processione: i clienti che vengono a mangiare si fanno le foto, vogliono sapere chi era nonna e noi gli raccontiamo tutta la nostra vita. Lo spettacolo l’ho voluto anche per sfatare tutte quelle leggende metropolitane su fratello e sorella che non andavano d’accordo». Anche su Wikipedia… «Io non so chi abbia dato certe informazioni. Tra nonna e zio Aldo c’era un grande rispetto. Zio ha fatto da padre alle sorelle e nonna era la più piccola. Non è vero che lui non voleva che lei lavorasse al cinema. Quando nonna ha vinto il David di Donatello, zio ha detto a papà, che era il suo nipote prediletto perché avevano affinità sia sulla poesia che sulla cucina: “Certo che mia sorella è brava, ma è meglio che non glielo dici”. Questo, forse, perché zio Aldo era molto protettivo, lo è stato fin da quando lei era piccola».La Sora Lella aveva lavorato al cinema con suo fratello. «Come no! Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi, Prepotenti più di prima, I tartassati, Un militare e mezzo, C’eravamo tanto amati, dove interpretava sua moglie. Ho partecipato anche io a una scena in un negozio di piazza Navona, dove c’erano tutti i Fabrizi, figli e nipoti. Qui c’è un ricordo incredibile: zio, quando doveva girare, voleva assoluto silenzio. Io avevo sei anni, stavo vicino a lui e me ne sono uscito con questa frase: “Zio, devo annà ar bagno”. E lui, irritato, chiamò mio padre: “Viette a pia tuo figlio, deve annà ar bagno… dovemo girà”. Quando abbiamo iniziato le riprese, zio mi mise la sua manona sulla testa, come per dire: “Non ti preoccupare”. Fu molto dolce». Altri ricordi di zio Aldo? «Ogni Natale e Pasqua, quando andavo a portargli un regalo di nonna, lui mi portava dentro una stanza piena di pasta e mi dava quella integrale, appena arrivata sul mercato, e mi diceva: “Questa portala a mi’ sorella perché ne po’ mangia’ tanta e nun ingrassa”». E lei che regali mandava? «Abbacchio e vino Frascati!». Fabrizi veniva al ristorante? «Veniva al ristorante e l’immagine che mi ricordo… ecco perché dico che c’era un amore straordinario tra loro… è che lui arrivava, ci salutava e poi loro due si mettevano seduti e stavano in silenzio un minuto, un minuto e mezzo, guardandosi, mano nella mano, e poi cominciavano a parlare. Era una cosa meravigliosa». Sua nonna al ristorante cosa faceva? «Nonna stava alla cassa, puliva le puntarelle e i carciofi, poi faceva attrazione. C’è una cosa molto bella che mi ricordo: quando c’era poco personale, eravamo solo io e papà in cucina, lei, con la sua flemma, andava a prendere le ordinazioni in tutti i tavoli, la gente ordinava tutto uguale, poi qualche cliente mi prendeva da parte e mi diceva: “Senta, io sto a dieta, non mi dia i bucatini, mi dia un filetto, ma non glielo dica alla Sora Lella, sinò s’arrabbia!”. Nonna era così. Anche quando andava al Maurizio Costanzo Show, dopo, veniva sempre al ristorante: era la sua vita». Il cuoco era suo padre. «Papà è stato l’artefice di tutto, ha creato il ristorante. Adesso mio fratello Renato è uno degli chef, io lo aiuto in cucina, sono il sous chef… mejo, l’aiutante! Renato ha appena scritto per Giunti Annamo bene, un libro di sessanta ricette che nonna e papà gli hanno trasmesso». Voi vi tramandate le ricette di generazione in generazione... «Esattamente. Abbiamo un menù tipicamente romano. Tutte le cucine tradizionali, che ora vengono riscoperte, non si studiano, si tramandano dalla nonna al nipote, dal padre al figlio. Sono sessant’anni che siamo all’Isola Tiberina e ottanta che nonna ha iniziato». Come avete avuto l’opportunità di avere il ristorante in una posizione così suggestiva? «Prima era un ristorante poco frequentato perché il proprietario era un po’ così: lo chiamavano Achille il pazzo. Mia nonna e mio nonno lo rilevarono, ma era pieno di debiti, per cui mio nonno pagò gli ultimi debiti con delle damigiane di vino. Poi, piano piano, si sono fatti conoscere e apprezzare». Prima avevano il ristorante a Campo de’ Fiori. «Sì, a piazza della Cancelleria, poi a San Lorenzo, a Trastevere. Nonno, per un periodo, lavorò al mattatoio, che a Roma si dice l’ammazzatora. Durante la guerra hanno nascosto una famiglia di ebrei. Una sera, dopo aver chiuso il ristorante, camminavano nonna, nonno, il cognato di nonna, mio padre e mia zia piccoli, quando si è fermato una camionetta di nazisti che volevano ispezionare il locale. Mio nonno, da vecchio trasteverino, disse: “Io la chiave non ve la do”. Tira e molla, tira e molla, per fortuna intervenne un soldato fascista: “Questa è brava gente, io so’ cliente loro, lasciate perde’”, e li lasciarono andare. Morale della favola: nonna ebbe coliche per una settimana». La Sora Lella come aveva cominciato? «Cucinava per le persone del palazzo, all’Arco di Santa Margherita, a via del Pellegrino, e si guadagnava un po’ di soldi così». Quindi era anche lei cuoca? «Sì. Al ristorante è stata per due anni in cucina, poi, quando mio padre finì il militare ed entrò in pianta stabile, lei andò alla cassa. Io e mio fratello Renato, la domenica, la passavamo a casa, a Donna Olimpia, a Monteverde, lei abitava al pianterreno, noi al terzo piano, e andavamo a trovarla: “Che profumo! Che hai fatto?”. “Ho fatto ‘st’amatriciana che se me la vado a impegna’ me danno ottanta ar peso!”. Si sentiva ‘sto profumo!».Era un po’ burbera? «No, era buonissima. Quando, ogni tanto, ci discutevo, lei mi metteva il muso. Io allora le davo delle spinterelle e lei mi mandava a quel paese. Quando morì mio nonno, mi disse: “Vieni a dormire a casa con me che c’ho paura? Guarda che poi fumà pure dentro la camera da letto perché tu nonno fumava”». Che effetto le fa rivederla nei film? «Un bellissimo effetto. È proprio com’era. Una delle scene più belle è in Bianco rosso e Verdone, quando lei e il nipote cercano la tomba nel cimitero. Ancora ho i brividi. Ultimamente ho visto Verdone, che mi ha detto: “Tua nonna è diventata famosissima”. “Beh, grazie a te”». Come Mario Brega, altro personaggio diventato di culto grazie a Verdone. «Mi ricordo quando veniva al ristorante: risate a più non posso, era una cosa eccezionale. Personaggi straordinari della nostra città. Questo spettacolo è un omaggio a Roma e ai romani».
Nel riquadro, il chirurgo Ludwig Rehn (IStock)
Non c’era più tempo per il dottor Ludwig Rehn. Il paziente stava per morire dissanguato davanti ai suoi occhi. Era il 7 settembre 1896 e il medico tedesco era allora il primario di chirurgia dell’ospedale civile di Francoforte quando fu chiamato d’urgenza per un giovane giardiniere di 22 anni accoltellato nel pomeriggio e trovato da un passante soltanto ore più tardi in condizioni disperate. Arrivò di fronte al dottor Rehn solo dopo le 3 del mattino. Da questo fatto di cronaca, nascerà il primo intervento a cuore aperto della storia della medicina e della cardiochirurgia.
Il paziente presentava una ferita da taglio al quarto spazio intercostale, appariva pallido e febbricitante con tachicardia, polso debole, aritmia e grave affanno respiratorio (68 atti al minuto quando la norma sarebbe 18-20) aggravato dallo sviluppo di uno pneumotorace sinistro. Condizioni che la mattina successiva peggiorarono rapidamente.
Senza gli strumenti diagnostici odierni, localizzare il danno era estremamente difficile, se non impossibile. Il dottor Rehn riuscì tuttavia ad ipotizzare la posizione del danno mediante semplice auscultazione. La ferita aveva centrato il cuore. Senza esitare, decise di intervenire con un tamponamento cardiaco diretto, un’operazione mai provata precedentemente. Rehn praticò un’incisione di 14 cm all’altezza del quinto intercostale e scoprì la presenza di sangue scuro. Esplorò il pericardio con le mani, quindi lo aprì, esponendo per la prima volta nella storia della medicina un cuore attivo e pulsante, seppur gravemente compromesso e sanguinante. Tra i coaguli e l’emorragia Rehn individuò la ferita da taglio all’altezza del ventricolo destro. Il chirurgo operò una rapida sutura della ferita al cuore con un filo in seta, approfittando della fase di diastole prolungata a causa della sofferenza cardiaca. La sutura fu ripetuta tre volte fino a che l’emorragia si fermò del tutto e dopo un sussulto del cuore, questo riprese a battere più vigoroso e regolare. Prima di richiudere il torace, lavò il cuore ed il pericardio con soluzione idrosalina. Gli atti respiratori scesero repentinamente da 76 a 48, la febbre di conseguenza diminuì. Fu posto un drenaggio toracico che nel decorso postoperatorio rivelò una fase critica a causa di un’infezione, che Rehn riuscì tuttavia a controllare per l’efficacia del drenaggio stesso. Sei mesi dopo l’intervento il medico tedesco dichiarava: «Sono oggi nella fortunata posizione di potervi dichiarare che il paziente è ritornato in buona salute. Oggi è occupato in piccole attività lavorative, in quanto non gli ho al momento permesso nessuno sforzo fisico. Il paziente mostra ottime prospettive di conservazione di un buono stato di salute generale».
Continua a leggereRiduci