
Nella storia repubblicana non si è mai visto un intero partito pagare per i presunti danni di singoli esponenti. Il Carroccio, invece, con il sequestro di 49 milioni rischia la condanna a morte. Una cosa che non può lasciare indifferente il garante della Costituzione. Ieri Matteo Salvini ha incontrato Sergio Mattarella. Tra i due ci sarebbe stato un incontro istituzionale che, lo riferisce una nota del Quirinale, avrebbe avuto al centro l'attività del ministro dell'Interno nel suo primo mese al Viminale. Il segretario della Lega e il presidente della Repubblica, secondo la versione ufficiale, avrebbero dunque parlato di immigrazione, blocco dei porti, rapporti con l'Europa sul tema dei profughi e così via, senza toccare il tema della recente condanna che obbliga il Carroccio a pagare 49 milioni. Può darsi che ieri sul Colle le cose siano andate come le raccontano, ma noi che siamo maliziosi non ci crediamo. I protagonisti ovviamente negheranno fino alla morte, ma secondo noi nella mezz'ora di colloquio si è parlato anche - ma forse dovremmo dire soprattutto - del pignoramento dei fondi della Lega, passati, futuri e ovunque essi siano, come ha stabilito la Cassazione. Perché se è vero che le sentenze non si discutono, ma semmai si appellano fino a quando la legge lo consente, è altrettanto vero che questa sentenza non può non essere discussa, in quanto decreta la fine di un partito politico. Se domani a un'azienda sequestrassero tutti i conti, disponendo che gli introiti anche futuri siano requisiti, a chiunque risulterebbe evidente la condanna a morte dell'impresa. Nessuna società, infatti, è in grado di sopravvivere se non ha liquidi. Come li paga gli stipendi? Come compra la merce che serve per consentire la prosecuzione dell'attività? Chi salda le bollette e l'affitto dei locali? Senza soldi non si fa niente e la Lega, grazie alla decisione dei giudici, di soldi non ne ha né ne avrà. Ogni sua disponibilità, anche se versata da privati, e dunque non riconducibile a soldi pubblici, verrebbe risucchiata dalla procedura, lasciando il partito di Salvini a secco. Né servirebbe creare una Lega parallela, o utilizzare veicoli come fondazioni vicine al partito, perché i magistrati della Suprema corte sono stati chiari: devono essere pignorati i fondi passati e futuri, ovunque essi siano, cioè anche nelle disponibilità di soggetti riconducibili alla Lega. Ora qualcuno potrebbe obiettare: ma se si ha un debito, il debito va saldato e se quei soldi devono essere restituiti allo Stato, tocca al partito di Salvini farsene carico. In sé il ragionamento non fa un plissé, se non fosse per alcune circostanze che andiamo ad elencare. In primo luogo ci sono fior di truffatori che, pur dovendo una montagna di quattrini ai creditori, tra i quali spesso c'è lo Stato, non versano un euro e se la godono e dunque non si capisce perché la giustizia abbia a cuore solo i soldi della Lega e non quelli di un esercito di imbroglioni che prima fanno i debiti e poi non li pagano. Certo, la massa che truffa non giustifica né può indurre altri a truffare. Ma in questo caso la truffa non l'hanno certo organizzata gli attuali vertici della Lega. L'uso indebito dei fondi, nel caso ci sia, risale ai tempi in cui Umberto Bossi era segretario e Francesco Belsito tesoriere. I due avrebbero gestito male il denaro che lo Stato girava al partito a seguito di ogni campagna elettorale. Secondo l'accusa, alcune centinaia di migliaia di euro (meno di mezzo milione sostiene Roberto Calderoli, 1 milione dicono i pm) sarebbero state usate a scopo personale. Le domande che sorgono spontanee a questo punto sono due: se i quattrini se li sono messi in tasca Bossi e Belsito, perché la Procura non chiede a loro? Non solo: ma se la truffa riguarda 1 milione, perché chiederne 49, cioè tutto quel che la Lega ha ricevuto nel corso degli anni come finanziamento pubblico? Tuttavia, non ci sono solo queste riflessioni a far alzare il sopracciglio davanti alla faccenda. C'è anche il fatto che non si erano mai visti finanzieri passare al setaccio i conti correnti di un partito. Neppure quando i Ds lasciarono sulle spalle dei contribuenti il carico dei debiti dell'Unità. Ricordate? Il glorioso quotidiano del Pci accumulò negli anni un'esposizione da far paura verso il sistema bancario. Il denaro avrebbe dovuto essere garantito dal partito, con i suoi mezzi, ma soprattutto con i suoi immobili. Quando però si trattò di pagare, si scoprì che il patrimonio dei compagni era finito in una serie di fondazioni, mentre al partito erano rimaste le casse vuote. A pagare non fu chiamato il segretario pro tempore e nemmeno gli eredi (i Ds nel frattempo si erano trasformati nel Pd), ma lo Stato. Già, perché con una gherminella varata all'epoca del governo Prodi, Pantalone si era sostituito al partito, garantendo in caso di insolvenza. Risultato, Palazzo Chigi staccò un maxi assegno da 110 milioni. E il partito se ne uscì tranquillo e sereno, con tutti i suoi conti correnti a posto e i soldi in tasca. Prima della Lega nessuno, neanche ai tempi della Dc e del Psi, delle tangenti e degli sprechi, si era mai visto sequestrare i proventi, passati e futuri, «ovunque essi siano». Nessuno era mai stato chiamato a rispondere delle malefatte avvenute in precedenza. Prova ne sia che né i partiti nati dalla diaspora democristiana né quello sorto dalle ceneri del Psi e nemmeno il Pd si sono visti bloccare i conti. Ma quello che non era mai accaduto è successo con Salvini. E volete che una cosa del genere non sia stata al centro dell'incontro al Quirinale? Volete che questa faccenda non abbia conseguenze nelle prossime settimane? Ma a chi la volete dare a bere?
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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