- Crescono dappertutto le politiche di protezionismo e interventismo statale. Qui da noi i target «verdi» imposti da Bruxelles e la scarsità di risorse aumenteranno la nostra dipendenza e i costi per le imprese.
- La scarsa domanda di auto elettriche in Occidente trascina giù il valore di litio, nichel e cobalto. Ma Pechino continua a spingere sulla produzione per eliminare i concorrenti.
Crescono dappertutto le politiche di protezionismo e interventismo statale. Qui da noi i target «verdi» imposti da Bruxelles e la scarsità di risorse aumenteranno la nostra dipendenza e i costi per le imprese.La scarsa domanda di auto elettriche in Occidente trascina giù il valore di litio, nichel e cobalto. Ma Pechino continua a spingere sulla produzione per eliminare i concorrenti.Lo speciale contiene due articoli.Le esigenze di sicurezza nazionale stanno frantumando la globalizzazione. È questo il verdetto contenuto in un rapporto pubblicato a dicembre da Verisk Maplecroft, società di consulenza specializzata nella gestione dei rischi. Lo studio certifica un aumento significativo dei casi in cui i governi dei Paesi occidentali mettono in atto politiche di intervento e protezionismo nelle attività minerarie ed energetiche. Verisk ha creato un indice sintetico, chiamato Resource Nationalism Index (Rni), che misura il rischio di controllo governativo delle attività economiche nel settore minerario e in quello dell’energia. Sui 198 Paesi monitorati, 72 hanno visto un aumento significativo di politiche interventiste statali e di protezionismo negli ultimi 5 anni. La Germania ha fatto segnare la performance più notevole, passando dal 154esimo posto in classifica al 32esimo, mettendo in atto una serie di provvedimenti di controllo delle risorse e di nazionalizzazioni, anche in seguito alla crisi del gas e alla guerra in Ucraina. Ma l’aumento dell’indice è molto visibile anche nel resto d’Europa, con Spagna, Regno Unito e Polonia che hanno registrato un aumento dell’indice di nazionalismo delle risorse. Si aggiungono all’Europa anche Usa, Canada e Australia, che hanno emesso nuove norme restrittive su commercio e investimenti esteri. Le tensioni geopolitiche acute degli ultimi anni stanno portando ad una corsa ad accaparrarsi le materie prime necessarie alla transizione green e ad un rafforzamento della sicurezza energetica. Così, molti Paesi stanno rafforzando il proprio controllo sulle risorse naturali di cui dispongono e ora 41 Paesi hanno un Rni vicino al massimo, dai 30 di cinque anni fa. Vi sono alcuni esempi estremi di tali politiche: nelle scorse settimane in Mali il governo ha fatto arrestare diversi dipendenti della canadese Barrick Gold e chiede centinaia di milioni di dollari per il rilascio. In Etiopia le forze armate hanno sgombrato le miniere di litio nel sud del Paese (di una compagnia australiana) e hanno arrestato il direttore, chiedendo centinaia di milioni di dollari. Questi Paesi si rendono conto del valore per l’Occidente e per la Cina dei materiali di cui dispongono. I governi dei Paesi in via di sviluppo con abbondanti risorse minerarie, insomma, cercano di spremere le compagnie per avere una fetta maggiore dei profitti generati, anche oltre gli accordi precedenti.Ma per tornare a tecniche più legali, al vertice della classifica dei Paesi più protezionisti sulle risorse naturali e sull’energia c’è il Venezuela, al primo posto con il Rni più alto e il massimo grado di controllo statale. Seguono la Russia, il Messico, il Kazakistan, la Corea del Nord, lo Zimbabwe (sesto) e l’Iraq (nono). Se si esclude la Corea del Nord, le cui vicende hanno una storia del tutto particolare, si tratta di grandi produttori di petrolio o di materie prime.Il progressivo distacco dalle forniture di gas dalla Russia e il dominio cinese sulle materie prime critiche stanno orientando le politiche dei governi europei verso una maggiore protezione della sicurezza degli approvvigionamenti. Una protezione a base di sussidi all’industria nazionale, limiti agli investimenti esteri (in particolare dai Paesi rivali strategici) e nazionalizzazioni. La Germania, ad esempio, ha nazionalizzato i beni di Gazprom sul suo territorio, come gli stoccaggi di gas, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Berlino ha poi nazionalizzato la grande utility Uniper per salvarla dal fallimento, ha sussidiato l’industria nazionale e ha imposto una tassa nazionale sui cosiddetti extra-profitti delle compagnie energetiche anche straniere. Ma anche gli Usa si segnalano per il protezionismo delle risorse: il Chips and Science Act e l’Inflation Reduction Act rafforzano la produzione nazionale di minerali e semiconduttori essenziali, cercando di tenere fuori i cinesi. L’aumento della tensione geopolitica mondiale, legata da una parte ai conflitti in Ucraina e in Medio Oriente e dall’altra all’espansione dell’influenza cinese sull’economia mondiale, porta i governi a cercare di accrescere la protezione dei propri interessi. Non vi è dubbio che anche il periodo di lockdown del 2020, con tutto ciò che ha preceduto e seguito quella complicata stagione, abbia messo a nudo la fragilità dei sistemi occidentali e abbia imposto una accelerazione nel processo di ripresa del controllo della produzione di beni.La conseguenza è una frammentazione della globalizzazione, nel settore dell’energia e delle materie prime in particolare. La globalizzazione, cioè, comincia a segmentarsi in sfere di influenza che cercano tendenzialmente una propria autonomia. All’interno di queste «alleanze» omogenee, ogni Stato sta cercando di creare il proprio spazio per avere il controllo delle filiere strategiche, come appunto quelle su energia e materie prime. Nel suo rapporto, Verisk dice di non aspettarsi che siano le imprese di proprietà degli Stati ad agire direttamente per guadagnare posizioni, quanto, piuttosto, che si formi una sorta di nuovo patto tra interessi nazionali e aziendali. I governi cioè forniscono e forniranno sempre più vantaggi e incentivi per riportare le catene di fornitura più vicine a casa in termini geopolitici. È il fenomeno cosiddetto del reshoring, o friendshoring.Quali impatti vi possono essere? Intanto, per l’Europa la questione diventa assai spinosa, nel momento in cui il Green Deal europeo impone per legge il raggiungimento di obiettivi «verdi» assai impegnativi, mentre non dispone dei materiali necessari. Lo sviluppo della generazione e fonti rinnovabili e la spinta all’auto elettrica, imposte de facto per legge dall’Ue, cozzano contro la indisponibilità di materie prime e di filiere europee. La conseguenza dello sfilacciamento della globalizzazione per l’Europa non può che essere un aumento dei prezzi generalizzato, oltre che una necessaria dipendenza da altri. In generale, il rischio insito nella separazione dai fornitori-rivali è di aumentare i costi, generando quindi una inflazione strutturale da cui non si torna indietro. Tale aumento di costi però non sembra frenare il processo di separazione in corso tra la sfera Occidentale, che fa capo agli Stati Uniti, e quella asiatica che fa capo alla Cina. Il ruolo dei Brics (l’alleanza economico-politica tra Brasile, Russia, Cina, Sud Africa e una serie di altri Paesi) appare di più difficile collocazione. L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca sembra riavvicinare Paesi come l’Arabia Saudita e in generale sarà viatico di rapporti bilaterali improntati al realismo da parte di Washington. Il nuovo segretario al Commercio americano, Howard Lutnick, avrà un ruolo maggiore del segretario al Tesoro Stephen Bessent.Il nazionalismo delle risorse strategiche, insomma, è un altro dei motori di frantumazione della globalizzazione: la protezione delle filiere di fornitura assume rilevanza strategica e si profilano decenni di conflitti tra filiere avversarie. Come dice la stessa Verisk, il rischio di aumentare i costi separandosi da specifici rivali è già stato messo in conto. Forse, però, a Bruxelles ancora no.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/materie-prime-corsa-mondiale-2670802253.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-cina-decide-di-giocare-al-ribasso" data-post-id="2670802253" data-published-at="1736715953" data-use-pagination="False"> La Cina decide di giocare al ribasso Non ci sono solo la salita dei prezzi delle merci agricole o i rischi di blocco nelle forniture delle materie prime a preoccupare. Anche prezzi troppo bassi possono portare a turbolenze nelle catene di fornitura e a posizioni dominanti sui mercati, in particolare ad opera della Cina. Quello delle commodity è un mondo assai complesso e affascinante, in cui i fattori che determinano i movimenti dei prezzi sono numerosissimi e spesso sorprendenti. La grande volatilità degli ultimi cinque anni nei mercati mondiali dell’energia è a un tempo causa ed effetto dei movimenti che si stanno verificando nei mercati di alcune materie prime. Il litio (idrossido di litio), ad esempio, è passato da prezzi di 85.000 dollari americani a tonnellata dell’inizio del 2023 agli attuali circa 9.000 USD/tonn. Nell’estate del 2022 il nichel arrivò a costare 47.000 USD/tonn ed ora vale 15.750 USD/tonn. Il cobalto nella primavera 2022 quotava 48.000 USD/tonn ma oggi il prezzo viaggia attorno agli 11.000 USD/tonn. Si tratta di tre materiali molto utilizzati nelle batterie dei veicoli elettrici e l’andamento delle loro quotazioni riflette una identica dinamica, legata ad un eccesso di offerta rispetto alla domanda. Per tutte e tre queste materie prime l’attore dominante è la Cina. La richiesta di veicoli elettrici in Occidente è ancora bassa e i tassi di crescita sono in frenata, mentre in Cina le vendite vanno a gonfie vele. Non abbastanza, però, per incidere al rialzo sul prezzo delle tre materie prime. Una domanda di veicoli elettrici più bassa del previsto frena anche la domanda di questi materiali, la cui offerta, dall’altra parte, sta invece crescendo. Non solo: anche i cambiamenti nelle tecnologie delle batterie possono portare a cali della domanda. Per quanto riguarda il nichel, ad esempio, la Cina si è legata all’Indonesia, dove il minerale grezzo viene estratto, ed è ora in grado di raffinare il metallo con grandi capacità di produzione, previste in crescita anche quest’anno. Insensibili ai prezzi bassi, le industrie cinesi inondano il mercato di prodotto facendo precipitare i prezzi e mandando fuori mercato la concorrenza. L’australiana Bhp ha già fermato le proprie produzioni in Australia, che hanno costi troppo alti rispetto alla concorrenza cinese. La stessa cosa avviene per il cobalto. Estratto per la maggior parte in Congo come sottoprodotto dell’estrazione del rame, il minerale viene raffinato da aziende cinesi, che di fatto hanno il monopolio mondiale della lavorazione. Anche in questo caso le aziende cinesi producono con ritmi forsennati e nel 2024 hanno più che raddoppiato la produzione del 2023. Pechino ha anche provveduto a fare ingenti scorte del materiale, senza che questo abbia minimamente influito sui prezzi. Infine, stessa dinamica per il litio: produzione cinese alle stelle e domanda fiacca hanno schiantato il prezzo (-90%) e costretto alla chiusura molti operatori medio-piccoli. L’offerta di idrossido di idrossido di litio crescerà del 15% quest’anno. Secondo quanto riportato dai media cinesi qualche giorno fa, le riserve di litio della Cina nel 2024 sono aumentate dal 6% al 16,5% del totale mondiale, rendendo il Paese il secondo maggior detentore di riserve di litio del mondo. Dal 2028 però questo eccesso di offerta dovrebbe scemare, se le auto elettriche avranno un mercato anche in Occidente, con conseguente rialzo dei prezzi. La posizione dominante della Cina su queste materie prime le consente di agire sui prezzi proprio in questo modo. Spingendo sulla produzione per abbassare i prezzi, la Cina elimina la concorrenza e si posiziona per il meglio in un futuro in cui la domanda ripartirà. A quel punto i prezzi saliranno e a raccogliere i profitti saranno rimasti davvero in pochi.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.
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Dopo il doppio disastro nella corsa alle rinnovabili e lo stop al gas russo, la Commissione avvia consultazioni sulle regole per garantire l’approvvigionamento. È una mossa tardiva che non contempla nessuna autocritica.
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