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2023-08-07
Maschi o femmine fin dal pancione. Lo dice la scienza
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«Sesso assegnato alla nascita». È un’espressione sempre più usata nei dibattiti sui temi delle differenze di genere e che lascia intendere che l’identità sia qualcosa di arbitrariamente attribuito. Rivedendo una celebre frase di Simone de Beauvoir, si potrebbe dire che «femmina non si nasce, si viene assegnata». Ma è proprio così? Cosa afferma la ricerca al riguardo? Per quanto sia politicamente scorretto da dirsi, gli studi scientifici raccontano una storia non solo diversa ma opposta, e cioè che si è maschi e femmine - e quindi diversi - sin dalla nascita, se non prima; e non solo per ragioni cromosomiche.
Una ricerca uscita nel 2021 sull’Italian journal of gender-specific medicine ha rilevato significative differenze sessuali già nel grembo materno, scoprendo come «i feti maschi e femmine» rispondano «in modo diverso allo stesso ambiente intrauterino, suggerendo una differenza biologica fondamentale a livello cellulare e molecolare» e come vi siano «differenze significative legate al sesso nel periodo neonatale e per gli esiti dei neonati pretermine, così come per l’incidenza di malattie neurologiche, malformazioni congenite e malattie respiratorie, nonché nella risposta individuale ai farmaci durante l’infanzia».
Ma tali differenze, si dirà, sono solo corporee: le comportamentali son invece solo apprese tramite stereotipi di genere. Per verificare se esistano differenze spontanee tra i sessi, non resta allora che osservare i bimbi dalla nascita in poi. Soddisfa in parte tale curiosità una metanalisi a cura di Brenda K.Todd, del dipartimento di psicologia dell’Università di Londra, e pubblicata su Infant Behavior & Development che, considerando 16 studi precedenti, ha riscontrato un dato significativo nelle differenze tra i giochi, con i maschi che giocano più con giocattoli considerati maschili rispetto alle ragazze; solo che questi 16 studi consideravano bambini dal primo all’ottavo anno di età, quando forse i fattori ambientali ed educativi possono aver già modellato la condotta infantile.
Ma nei primi mesi di vita com’è la situazione? L’ha messo in luce una ricerca della psicologa Gerianne Alexander uscita su Archives of Sexual Behavior. La Alexander ha osservato le reazioni di bambini di circa cinque e sei mesi di età - 17 di sesso femminile, 13 di sesso maschile - dinnanzi a due oggetti tridimensionali che meglio di tutti gli altri rappresentano i giocattoli sessualmente tipizzati, vale a dire una bambola rosa ed un piccolo camion blu. Ebbene, benché non siano state misurate differenze fra i due sessi nell’estensione temporale dell’attenzione rivolta ai due oggetti, quando si è andati a conteggiare le volte nelle quali i bambini li fissavano è arrivata la sorpresa: le femminucce, rispetto ai maschietti, si mostravano in proporzione più interessate dalla bambola rispetto al camioncino.
Esiti simili sono stati riscontrati anche in un esperimento della dottoressa Vasanti Jadva basato su un campione ben più esteso - 120 bambini di età compresa fra i 12 e i 24 mesi - e con cui si è potuto rilevare come, indipendentemente dal colore degli oggetti, i risultati restino sostanzialmente immutati: le bambine rimangono più attratte dalle immagini di bambole, i bambini da quelle di automobiline; l’evidenza non è risultata variare in modo significativo con l’età, indebolendo così l’ipotesi che il trascorrere dei mesi equivalga alla progressiva interiorizzazione degli stereotipi, e che ha fatto supporre ai suoi autori che la stessa preferenza femminile per il rosa e maschile per il blu altro non sia che l’effetto di un’associazione ad oggetti distinti che femminucce e maschietti preferirebbero in ogni caso. Ancora più impressionante, per precocità, era stato nel 2000 uno studio di Jennifer Connellan la quale, con il professor Simon Baron-Cohen, aveva monitorato 102 neonati di appena un giorno e mezzo di vita; ebbene, sottoposti all’attenzione dei piccoli prima un viso umano e poi un oggetto meccanico, la Connellan aveva notato che i maschietti fissavano il 10% in più l’oggetto delle femmine, le quali invece guardavano più a lungo il volto. Tutti questi piccoli ma eloquenti indizi portano a concludere che non c’è nessun «sesso assegnato alla nascita». Semplicemente, maschi o femmine si nasce.
«Esistono tendenze molto chiare»
Classe 1974, psicologo e psicoterapeuta cognitivo-interpersonale, Emiliano Lambiase si occupa da più di 20 anni di ipersessualità patologica e l’attenzione con cui studia la letteratura e migliori manuali sulla differenza tra maschie e femmine - nessuno dei quali purtroppo tradotto in italiano - lo rende senza dubbio una fonte autorevole per capire lo stato dell’arte sulla ricerca scientifica sul tema.
Per questo La Verità lo ha contattato.
Dottor Lambiase, qual è la differenza tra sesso e genere?
«Generalmente il sesso riguarda la biologia mentre il genere si riferisce agli atteggiamenti, sentimenti e comportamenti che una determinata cultura attribuisce al sesso biologico. Simili definizioni non sono però unanimi. C’è chi definisce il sesso in base ai cromosomi e chi in base alla potenziale produzione di gameti - ovuli o spermatozoi -, e chi lo considera binario - salvo varianti intersessuali - oppure chi ritiene le intersessualità al pari degli altri sessi, abolendo quindi il binarismo. Ma ancora più dibattito c’è sull’uso del termine genere. A tal proposito, per avere un’idea dell’uso confuso e a volto politico invito a leggere The Uses and Abuses of Gender di Joan W. Scott, Ideological Bias in the Psychology of Sex and Gender di Marco del Giudice e «Sex» and «Gender». Two Confused and Confusing Concepts in the «Women in Corporate Management» Literature di Shaheen Borna e Gwendolen White»
Domanda delle domande: maschi e femmine sono davvero diversi oppure le loro differenze sono solo espressione di condizionamenti esterni, educativi ed ambientali?
«Tutti i principali studiosi di differenze psicologiche tra i sessi non credono in una differenza netta e totale, ma nella presenza di “alcune” differenze “di tendenza”. È quindi un errore immaginare le differenze sessuali come un qualcosa di presente e totalizzante, o di assente e totalmente culturale. Inoltre, anche piccole differenze possono portare a grandi effetti comportamentali. Nell’ambito delle scienze sociali non dobbiamo per forza attenderci risultati rilevati per poter affermare di aver trovato un risultato significativo. Infine, le differenze psicologiche tra i sessi non vanno prese solamente una caratteristica per volta, ma anche come configurazione di caratteristiche. A questo tipo studio, trovando risultati assai interessanti e ancora più evidenti, si è dedicato il professor Marco del Giudice».
Quali sono, dal suo punto di vista, le prove più solide - quelle cioè che meglio resistono a diversità sociali e ambientali - che abbiamo sulle differenze tra i due sessi?
«La solidità di una prova può derivare da tanti fattori: dalla significatività statistica del risultato, dalla ripetizione dello stesso risultato in più ricerche, oppure in ricerche in epoche diverse, culture diverse, specie diverse, su campioni molto ampi, in base all’età di insorgenza delle differenze o alla correlazione con fattori di tipo biologico/fisiologico. Poi bisogna saper usare e interpretare metodi di analisi statistica piuttosto sofisticati, tenendo conto anche dell’influsso di variabili intervenienti e saper correggere gli eventuali errori di misurazione. Io stesso, spesso, devo chiedere aiuto o studiare molto prima di riuscire a capire alcune ricerche. Se vogliamo indicare alcune singole caratteristiche che hanno rispettato questi criteri, mostrandosi solidamente rilevanti, sono, ad esempio, l’aggressività, la dominanza, l’assertività, l’autostima, la propensione al rischio (tutte maggiori nei maschi), la preferenza per professioni e attività orientate alle cose o alle persone e alcune caratteristiche del desiderio e del comportamento sessuale. Però, come dicevo in precedenza, ad essere ancora più rilevante è la configurazione delle caratteristiche, e poi ci sono caratteristiche apparentemente poco significative ma con grandi conseguenze a livello comportamentale».
Cosa dice la ricerca sulle diverse attitudini e inclinazioni con risvolti anche professionali tra uomini e donne?
«Le differenze sono molto ampie, con una sovrapposizione tra i sessi solo del 50-60% e con gli uomini tendenzialmente più propensi a scegliere professioni e attività orientate al rapporto con e alla manipolazione delle “cose”, mentre le donne più propense al rapporto con le “persone”. Questo tipo di differenza è stata studiata in epoche diverse, in culture diverse, su campioni molto ampi. È stata ritrovata anche nei campioni di donne che avevano scelto di svolgere attività professionali più tipicamente maschili - i cosiddetti Stem - all’interno delle quali avevano comunque tendenzialmente scelto quelle con una componente relazionale maggiore. Ovviamente, dato che parliamo di tendenze, sono molte le persone che si trovano al di fuori di questi “contenitori”, per cui un conto è lo studio delle differenze psicologiche tra i sessi, e un altro paio di maniche sono la libertà e possibilità di scelta del tipo di studio e di professione che si desidera svolgere, avendo pari opportunità nel poterci provare e riuscire».
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Ma quale «sesso assegnato alla nascita»: i generi sono diversi per natura. E gli stereotipi culturali non c’entrano niente.Parla lo psicologo Emiliano Lambiase: «Gli uomini lavorano più con le cose, le donne con le persone».Lo speciale contiene due articoli.«Sesso assegnato alla nascita». È un’espressione sempre più usata nei dibattiti sui temi delle differenze di genere e che lascia intendere che l’identità sia qualcosa di arbitrariamente attribuito. Rivedendo una celebre frase di Simone de Beauvoir, si potrebbe dire che «femmina non si nasce, si viene assegnata». Ma è proprio così? Cosa afferma la ricerca al riguardo? Per quanto sia politicamente scorretto da dirsi, gli studi scientifici raccontano una storia non solo diversa ma opposta, e cioè che si è maschi e femmine - e quindi diversi - sin dalla nascita, se non prima; e non solo per ragioni cromosomiche.Una ricerca uscita nel 2021 sull’Italian journal of gender-specific medicine ha rilevato significative differenze sessuali già nel grembo materno, scoprendo come «i feti maschi e femmine» rispondano «in modo diverso allo stesso ambiente intrauterino, suggerendo una differenza biologica fondamentale a livello cellulare e molecolare» e come vi siano «differenze significative legate al sesso nel periodo neonatale e per gli esiti dei neonati pretermine, così come per l’incidenza di malattie neurologiche, malformazioni congenite e malattie respiratorie, nonché nella risposta individuale ai farmaci durante l’infanzia». Ma tali differenze, si dirà, sono solo corporee: le comportamentali son invece solo apprese tramite stereotipi di genere. Per verificare se esistano differenze spontanee tra i sessi, non resta allora che osservare i bimbi dalla nascita in poi. Soddisfa in parte tale curiosità una metanalisi a cura di Brenda K.Todd, del dipartimento di psicologia dell’Università di Londra, e pubblicata su Infant Behavior & Development che, considerando 16 studi precedenti, ha riscontrato un dato significativo nelle differenze tra i giochi, con i maschi che giocano più con giocattoli considerati maschili rispetto alle ragazze; solo che questi 16 studi consideravano bambini dal primo all’ottavo anno di età, quando forse i fattori ambientali ed educativi possono aver già modellato la condotta infantile. Ma nei primi mesi di vita com’è la situazione? L’ha messo in luce una ricerca della psicologa Gerianne Alexander uscita su Archives of Sexual Behavior. La Alexander ha osservato le reazioni di bambini di circa cinque e sei mesi di età - 17 di sesso femminile, 13 di sesso maschile - dinnanzi a due oggetti tridimensionali che meglio di tutti gli altri rappresentano i giocattoli sessualmente tipizzati, vale a dire una bambola rosa ed un piccolo camion blu. Ebbene, benché non siano state misurate differenze fra i due sessi nell’estensione temporale dell’attenzione rivolta ai due oggetti, quando si è andati a conteggiare le volte nelle quali i bambini li fissavano è arrivata la sorpresa: le femminucce, rispetto ai maschietti, si mostravano in proporzione più interessate dalla bambola rispetto al camioncino.Esiti simili sono stati riscontrati anche in un esperimento della dottoressa Vasanti Jadva basato su un campione ben più esteso - 120 bambini di età compresa fra i 12 e i 24 mesi - e con cui si è potuto rilevare come, indipendentemente dal colore degli oggetti, i risultati restino sostanzialmente immutati: le bambine rimangono più attratte dalle immagini di bambole, i bambini da quelle di automobiline; l’evidenza non è risultata variare in modo significativo con l’età, indebolendo così l’ipotesi che il trascorrere dei mesi equivalga alla progressiva interiorizzazione degli stereotipi, e che ha fatto supporre ai suoi autori che la stessa preferenza femminile per il rosa e maschile per il blu altro non sia che l’effetto di un’associazione ad oggetti distinti che femminucce e maschietti preferirebbero in ogni caso. Ancora più impressionante, per precocità, era stato nel 2000 uno studio di Jennifer Connellan la quale, con il professor Simon Baron-Cohen, aveva monitorato 102 neonati di appena un giorno e mezzo di vita; ebbene, sottoposti all’attenzione dei piccoli prima un viso umano e poi un oggetto meccanico, la Connellan aveva notato che i maschietti fissavano il 10% in più l’oggetto delle femmine, le quali invece guardavano più a lungo il volto. Tutti questi piccoli ma eloquenti indizi portano a concludere che non c’è nessun «sesso assegnato alla nascita». 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Dottor Lambiase, qual è la differenza tra sesso e genere? «Generalmente il sesso riguarda la biologia mentre il genere si riferisce agli atteggiamenti, sentimenti e comportamenti che una determinata cultura attribuisce al sesso biologico. Simili definizioni non sono però unanimi. C’è chi definisce il sesso in base ai cromosomi e chi in base alla potenziale produzione di gameti - ovuli o spermatozoi -, e chi lo considera binario - salvo varianti intersessuali - oppure chi ritiene le intersessualità al pari degli altri sessi, abolendo quindi il binarismo. Ma ancora più dibattito c’è sull’uso del termine genere. A tal proposito, per avere un’idea dell’uso confuso e a volto politico invito a leggere The Uses and Abuses of Gender di Joan W. Scott, Ideological Bias in the Psychology of Sex and Gender di Marco del Giudice e «Sex» and «Gender». Two Confused and Confusing Concepts in the «Women in Corporate Management» Literature di Shaheen Borna e Gwendolen White» Domanda delle domande: maschi e femmine sono davvero diversi oppure le loro differenze sono solo espressione di condizionamenti esterni, educativi ed ambientali? «Tutti i principali studiosi di differenze psicologiche tra i sessi non credono in una differenza netta e totale, ma nella presenza di “alcune” differenze “di tendenza”. È quindi un errore immaginare le differenze sessuali come un qualcosa di presente e totalizzante, o di assente e totalmente culturale. Inoltre, anche piccole differenze possono portare a grandi effetti comportamentali. Nell’ambito delle scienze sociali non dobbiamo per forza attenderci risultati rilevati per poter affermare di aver trovato un risultato significativo. Infine, le differenze psicologiche tra i sessi non vanno prese solamente una caratteristica per volta, ma anche come configurazione di caratteristiche. A questo tipo studio, trovando risultati assai interessanti e ancora più evidenti, si è dedicato il professor Marco del Giudice». Quali sono, dal suo punto di vista, le prove più solide - quelle cioè che meglio resistono a diversità sociali e ambientali - che abbiamo sulle differenze tra i due sessi? «La solidità di una prova può derivare da tanti fattori: dalla significatività statistica del risultato, dalla ripetizione dello stesso risultato in più ricerche, oppure in ricerche in epoche diverse, culture diverse, specie diverse, su campioni molto ampi, in base all’età di insorgenza delle differenze o alla correlazione con fattori di tipo biologico/fisiologico. Poi bisogna saper usare e interpretare metodi di analisi statistica piuttosto sofisticati, tenendo conto anche dell’influsso di variabili intervenienti e saper correggere gli eventuali errori di misurazione. Io stesso, spesso, devo chiedere aiuto o studiare molto prima di riuscire a capire alcune ricerche. Se vogliamo indicare alcune singole caratteristiche che hanno rispettato questi criteri, mostrandosi solidamente rilevanti, sono, ad esempio, l’aggressività, la dominanza, l’assertività, l’autostima, la propensione al rischio (tutte maggiori nei maschi), la preferenza per professioni e attività orientate alle cose o alle persone e alcune caratteristiche del desiderio e del comportamento sessuale. Però, come dicevo in precedenza, ad essere ancora più rilevante è la configurazione delle caratteristiche, e poi ci sono caratteristiche apparentemente poco significative ma con grandi conseguenze a livello comportamentale». Cosa dice la ricerca sulle diverse attitudini e inclinazioni con risvolti anche professionali tra uomini e donne? «Le differenze sono molto ampie, con una sovrapposizione tra i sessi solo del 50-60% e con gli uomini tendenzialmente più propensi a scegliere professioni e attività orientate al rapporto con e alla manipolazione delle “cose”, mentre le donne più propense al rapporto con le “persone”. Questo tipo di differenza è stata studiata in epoche diverse, in culture diverse, su campioni molto ampi. È stata ritrovata anche nei campioni di donne che avevano scelto di svolgere attività professionali più tipicamente maschili - i cosiddetti Stem - all’interno delle quali avevano comunque tendenzialmente scelto quelle con una componente relazionale maggiore. Ovviamente, dato che parliamo di tendenze, sono molte le persone che si trovano al di fuori di questi “contenitori”, per cui un conto è lo studio delle differenze psicologiche tra i sessi, e un altro paio di maniche sono la libertà e possibilità di scelta del tipo di studio e di professione che si desidera svolgere, avendo pari opportunità nel poterci provare e riuscire».
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Femminismo è il vezzoso nome dato alla misandria occidentale, e la misandria è stato il mezzo per distruggere nel giro di due generazioni l’invincibile società occidentale giudaico-cristiana: le donne sempre vittime, i maschi sempre carnefici e soprattutto nemici. La «vera donna» si sente sorella di sconosciute, incluse cantanti mediocri che guadagnano cifre astronomiche mostrando la biancheria intima o la sua assenza, ma non deve avere linee di collaborazione o anche solo umana simpatia con il marito o il compagno. Il femminismo occidentale non è difesa delle donne, è misandria, odio per gli uomini. Il femminismo misandrico è un movimento creato a tavolino, con lo scopo di distruggere la famiglia, che è un’unità affettivo/economica con una sua intrinseca potenza: rende le persone non isolate, e quindi meno malleabili, tali da avere la forza di opporsi al potere dello Stato o del parastato. Il secondo scopo è abbattere i salari buttando sul mercato milioni di lavoratrici. Il terzo scopo è annientare le aree di lavoro non tassabile. Le donne a casa loro fanno lavori non tassabili: cucire, cucinare, costruire giocattoli, creare tende e vestiario, fare conserve, allevare bambini. Ora il loro lavoro è sostituito da supermercati, orrendi cibi precotti, con tutti i danni dei cibi processati, vestiario «made in China» fatto da schiavi sottopagati e soprattutto educatrici e insegnanti.
A ogni interazione madre-figlio, il cervello del bambino piccolo crea miliardi di sinapsi. Ogni interazione con l’estranea cui è affidato mentre mamma si sta facendo sfruttare da qualcuno in un posto di lavoro - e deve farlo perché il salario di papà è troppo basso - fabbrica molte meno sinapsi. Per i bambini, essere affidati a estranei al di sotto dei tre anni è un danno neurobiologico. Chi nega questa affermazione sta mentendo. Il bambino impara la regolazione delle emozioni sulla madre, ma per poter completare questo processo la madre deve essere presente. Con l’estranea cui è stato affidato, il processo non può realizzarsi. Inoltre, per quell’estranea il bambino è lavoro. Ci sono persone che amano il loro lavoro, altre che lo detestano: nel caso delle educatrici, quello che è detestato è il bambino. Ogni tanto bisogna mettere le videocamere per scoprire bambini picchiati o umiliati. La madre lavoratrice deve occuparsi del lavoro e quando alla sera torna a casa stanca e nervosa deve occuparsi del bambino, che alla sera, dopo ore e ore con estranee, è stanco e nervoso. Il peso è micidiale.
Le donne non mettono più al mondo figli. Il femminismo misandrico è stato creato per abbattere la natalità. Quando il bambino è malato, la mamma non può stare con lui. La presenza della madre fabbrica endorfine che potenziano il sistema immunitario. La sua assenza fabbrica cortisolo, ormone da stress che abbatte il sistema immunitario. Per poter essere affidato alle estranee del nido, il bambino deve essere sottoposto a un esavalente che in molte altre nazioni è vietato. Il 70% delle morti improvvise in culla avviene nella settimana successiva all’iniezione dell’esavalente. Perché le madri possano serenamente lavorare è stato creato il latte in polvere, pessimo prodotto che sostituisce il cibo perfetto dal punto di vista nutrizionale e immunologico che è il latte materno. È statisticamente dimostrata la differenza cognitiva e la migliore salute dei bambini allattati al seno. Dopo i tre anni un bambino potrebbe restarsene benissimo a casa sua; se proprio lo si vuole mandare all’asilo, sarebbe meglio non superare le due ore al giorno. Quando ha sei anni, il bambino dovrebbe andare in una scuola quattro ore, dalle 8.30 alle 12.30. Se la classe è fatta da bambini in maggioranza sereni e tutti della stessa madrelingua, come negli anni Cinquanta, quattro ore sono sufficienti.
Il bambino, messo sotto stress dalla mancanza cronica della madre, consegnato allo Stato per un numero spaventoso di ore, diventa un perfetto recipiente per la propaganda.
Le femministe hanno conquistato il diritto al lavoro. Il lavoro è una maledizione biblica. Anche l’aborto è una maledizione biblica e pure di quello hanno conquistato il diritto. Nella Cappella Sistina, Michelangelo ha rappresentato il momento in cui il serpente corrompe Eva con la mela: il serpente ha un volto di donna. Un’ intuizione geniale. Le donne hanno meno testosterone: questo le rende più accoglienti, permette la maternità, ma le rende meno capaci di battersi. Noi siamo meno capaci di combattere, cediamo più facilmente alla propaganda. Il vittimismo isterico del femminismo misandrico è stata la tentazione con cui le donne hanno annientato la invincibile civiltà giudaico-cristiana. Abbiamo ancora una generazione, forse una e mezza. Creperemo di denatalità e scemenze: tra due generazioni al massimo saremo una repubblica islamica. Il potere è stato tolto al pater familias, che era sporco brutto e cattivo, ma era comunque uno cui di quella donna e quei bambini importava, ed è stato consegnato allo Stato, una macchina burocratica cieca e stolida. Lo Stato decide quanti vaccini un bambino deve fare, mentre gli Ordini dei medici applicano la legge Lorenzin radiando tutti coloro che si permettono di parlare della criticità di questi farmaci. Lo Stato decide cosa un bambino deve mangiare: le orrende mense scolastiche dove si mangia pessimo cibo statale sono obbligatorie. Digitate su Google le parole mensa scolastica e tossinfezioni alimentari e troverete dati interessanti. I dati che mancano sono i danni su danni sul lungo periodo degli oli di bassa qualità, della conserva di pomodoro comprata dove costava meno (spesso sono pomodori coltivati in Cina con fertilizzanti pessimi). Lo Stato decide come il bambino deve vivere e se la famiglia si permette di farlo vivere felice in un bosco, lo Stato interviene. Lo Stato decide cosa il bambino deve pensare, perché l’etica gliela insegnano i docenti, quasi sempre femmine, che sono impiegati statali che eseguono gli ordini, le circolari, fanno corsi di aggiornamento Lgbt e hanno criminalizzato i ragazzi non vaccinati per il Covid.
Grazie al femminismo misandrico, in Italia, la disparità tra padre e madre è clamorosa: i padri sono esseri inferiori. La donna ha potere di vita e morte sul concepito, un potere osceno e criminale. Si considera criminale un padre che ha picchiato suo figlio, ma non si considera criminale una donna che ha fatto macellare il suo bambino nel suo ventre. Il potere che ha creato il femminismo misandrico vuole gli aborti, li adora. Se hai abbandonato il cane sei un bastando, se hai fatto uccidere tuo figlio nel tuo ventre sei un’eroina della libertà. Per far uccidere il bambino nel suo ventre, la donna ha bisogno di un medico, che diventa quindi un medico che sopprime vite umane. Il feto è vivo ed è umano. Chi lo sopprime, sta sopprimendo vite umane. Se la donna vuole abortire, il padre non può opporsi. La donna può abortire, ma il padre non può rifiutarsi di pagare gli alimenti, deve assumersi la responsabilità economica fino alla maggiore età (e spesso oltre), eredità garantita al figlio, un terzo del patrimonio che deve essere accantonato. La donna può rendere suo figlio orfano di padre: può partorirlo, disconoscerlo e impedire che il padre lo riconosca. Il padre, per riconoscere il figlio, deve arruolare uno o più avvocati, pagarli e imbarcarsi in una guerra giudiziaria lunga e dall’esito incerto. Mentre le donne sono normalmente aggredite da immigrati islamici, l’invasione che sostituisce il deficit demografico dei bambini abortiti, al punto che non si possono più fare manifestazioni in piazza come quelle di Capodanno, quando l’uomo è bianco e occidentale, la parola della donna in tribunale vale più di quella dell’uomo.
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Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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