2022-03-26
Mascherine cinesi non conformi: Arcuri verso il processo
Per l’ex supercommissario, accusato di abuso d’ufficio, e altri 10 l’avviso di chiusura indagini. Una maxicommessa da 1,2 miliardi.Quasi a voler chiudere un cerchio, a meno di una settimana dalla fine dell’emergenza Covid, la Procura di Roma ha notificato agli indagati per la maxi commessa da 801 milioni di mascherine cinesi costate 1,2 miliardi di euro, l’avviso di conclusione delle indagini. Il nome di peso è quello dell’ex commissario straordinario, Domenico Arcuri. Che se da un lato vede cadere, come era già avvenuto per l’ipotesi di corruzione, l’accusa più grave, quella di peculato, potrebbe trovarsi di fronte di una richiesta di rinvio a giudizio per l’altra ipotesi di reato contestatagli, l’abuso d’ufficio. Un reato meno grave, ma che, nel caso di Arcuri, viene motivato dagli inquirenti con parole estremamente dure. Anche se, con una nota diffusa dall’ufficio stampa dell’ex commissario, il castello accusatorio è stato definito dai difensori «particolarmente fragile e incoerente». Secondo i pm capitolini infatti, Arcuri in concorso con il suo collaboratore Antonio Fabbrocini e con Nicolas Venanzi, «concedendo alle società cinesi intermediate dal Tommasi (Vincenzo, uno dei mediatori, ndr) anticipazioni dei pagamenti a carico di merce in Cina, prima di ogni verifica in Italia sulla qualità delle forniture e validità dei documenti di accompagnamento», razionava «l’offerta a favore di Tommasi», perché «a tutti gli altri importatori italiani si negavano anticipazioni dei pagamenti, imponendo loro di acquistare, a proprio carico, i dispositivi da fornirsi, con pagamento a verifica della merce in Italia». Insomma avrebbe penalizzato tutti per avvantaggiare uno.Eppure, a febbraio 2021 in una trasmissione televisiva, uno dei mediatori indagati, il giornalista Mario Benotti aveva assicurato: « Il governo non ha pagato neanche un euro in anticipo, nulla». Sui pagamenti, come aveva rivelato La Verità il 20 ottobre scorso, interrogato dai sostituti Fabrizio Tucci e Gennaro Varone, Arcuri aveva assicurato ai pm: «È vero che, in alcuni casi, le mascherine sono state pagate prima della validazione del Cts e tale circostanza è figlia della tragedia nella quale vivevamo; in ogni caso, i Dpi sono stati pagati dopo la certificazione delle Dogane». Ma a una seconda domanda, Arcuri aveva risposto senza la sicurezza di poco prima: «A me risulta che il pagamento poteva avvenire a partire dalla ricezione del detto documento». Dall’avviso di chiusura indagini emergono in modo più definito i contorni della grande abbuffata di provvigioni costata ai mediatori l’accusa di traffico di inluenze illecite. La già enorme somma di 66 milioni di euro di provvigioni accertate, destinate a Tommasi (48,8 milioni), a Benotti, indagato insieme alla compagna Daniela Guarnieri (alle loro società per gli inquirenti sono arrivati 11,9 milioni) e al broker ecuadoriano Jorge Solis ( destinatario di 5,8 milioni) è cresciuta di altri 12,2 milioni, finiti su un conto corrente della Hang Seng Bank di Hong Kong e destinati a Guidi. La stessa banca di cui vi avevamo raccontato nell’ottobre scorso, svelando che gli inquirenti sul pc di Guidi avevano trovato tre fatture emesse dalla Bgp & partners limited nei confronti della Wenzhou moon-ray e della Luokai, due delle ditte fornitrici di mascherine, aventi a oggetto il «costo del servizio-come da contratto di consulenza datato 3 aprile 2020». L’importo totale delle tre fatture era di circa 1,9 milioni di euro. Nel pc del banchiere c’erano anche le coordinate di un conto presso la Hang Seng Bank presso il quale avrebbero dovuto essere saldate le fatture. Adesso sono saltati fuori anche i soldi. L’ abuso d’ufficio sembra viaggiare a braccetto con altre due accuse, che non riguardano Arcuri, ma lo storico dirigente Invitalia Fabbrocini, cooptato nella struttura commissariale, che della fornitura era il «responsabile unico del procedimento». A Fabbrocini la procura contesta infatti la frode in pubbliche forniture ipotesi svelata da questo giornale nel febbraio scorso, in concorso con Tommasi, Venanzi, il banchiere sammarinese Daniele Guidi e Zhonngkai Cai, cinese residente a Roma, che era il rappresentante in Italia delle tre società che hanno fornito le mascherine. I cinque, secondo l’accusa, «fornivano al governo italiano, in unione e concorso tra loro - essendo venuti a conoscenza della inidoneità delle forniture e, ciononostante, avendo agito per validarle all’uso sanitario - prodotti non conformi alla normativa Uni En ed inidonei all’uso sanitario, ovvero addirittura pericolosi per la salute». Il riferimento è a vari lotti di mascherine non conformi, che hanno portato nello scorso ottobre la Procura di Roma a sequestrare l’intero residuo della fornitura ancora presente nei magazzini. Ad esempio, secondo i pm, una partita di mascherine Fp2 «del produttore Yiwu biweikang labor insurance products co. ltd, non era munita di certificato Ce» e risultava, «all’analisi di laboratorio, non conforme». In assenza delle certificazioni europee, in alcuni casi espressamente previste dai contratti, i cinque avrebbe superato l’ostacolo «con l’artifizio di far pervenire al Comitato tecnico scientifico test report/certificati di conformità non genuini, così. promuovendo validazioni in violazione di legge». Un comportamento che è un ulteriore accusa, quella di falsità ideologica, per aver agito «per procurare (Guidi), depositare presso il Cts (Zhongkai), le certificazioni utili alla validazione delle forniture irregolari». Gli indagati avrebbero anche effettuato «la sostituzione delle certificazioni inizialmente valutate non a norma (Tommasi e Venanzi)», inducendo così «il Cts ad attestare falsamente la conformità dei presidi sanitari importati alle norme Uni En». Sulle girandole di certificati, questo giornale aveva raccontato, già il 13 febbraio 2021, dopo i primi sequestri di mascherine da parte della Procura di Gorizia, le stranezze sul processo di validazione in deroga da parte del Cts. Ma soprattutto, il 16 febbraio 2021 aveva raccontato che il 4 dicembre 2020, pochi giorni dopo in nostro scoop che aveva svelato l’esistenza dell’enorme affare, i finanzieri del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza erano entrati negli uffici di Invitalia in via Calabria a Roma con un ordine di esibizione emesso dall’autorità giudiziaria. La richiesta era precisa: due plichi di corrispondenza spediti da Sunsky srl, l’azienda milanese di Tommasi, con destinatario proprio Fabbrocini, relativi alle certificazioni della fornitura, che però era ormai conclusa da mesi, con tutte le mascherine pagate.Prima della consegna Fabbrocini precisa: «I plichi citati nel provvedimento dell’autorità giudiziaria sono pervenuti a questa struttura commissariale il 2 dicembre». Il manager aveva anche fatto mettere a verbale: «Voglio precisare che i documenti pervenuti non sono stati richiesti da questa struttura ma trasmessi spontaneamente dalla Sunsky di Milano». Forse il deposito degli atti permetterà di fare luce su questa e su altre stranezze.
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