2023-03-08
«La mascherina non ferma il virus». E dopo 4 giorni la imposero a tutti
Nei messaggi del 22 aprile 2020 tra il titolare della Salute e il suo referente scientifico emerge la verità sui dispositivi: sulla loro utilità «non ci sono evidenze». Eppure di lì a poco sarebbero diventati un totem.Si combatteva a mani nude, non si può giudicare sulla base di ciò che si sa oggi e che, allora, non si sapeva. È la difesa d’ufficio dei dilettanti pandemici allo sbaraglio. D’accordo: il Covid fu una catastrofe inattesa. Ma permettete che ci faccia un po’ rabbia scoprire che quelli che ci hanno imposto le mascherine ovunque sono gli stessi che, nei primi mesi del 2020, dubitavano della loro efficacia? Basta scorrere le carte dell’inchiesta di Bergamo. È il 22 aprile dell’annus horribilis. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, chatta con il fidato Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. «Su mascherine fai chiarezza», gli intima. «Idea che basti fazzoletto piegato da valutare con cautela». In questa fase, i presunti esperti brancolano nel buio. «Spero di aver chiarito», replica il tecnico. «Stiamo lavorando con Inail. Per documento. Di fatto», sospira, «non ci sono standard specifici». E adesso tenetevi forte. Sapete cosa scrive l’uomo che, fino alla nausea, ci ha ripetuto che le museruole «sono e restano un presidio importante»? «Va anche detto che uso massivo di mascherine non è garanzia di stop contagio». Sì, sono le parole di Speranza. Che soggiunge: «Non vorrei passi messaggio sbagliato». Capito? I feticisti del bavaglio, quando discutevano in privato, si mostravano consci del bluff: con le mascherine, nessuna garanzia contro il contagio; sostenerlo significa diffondere un «messaggio sbagliato». Tanto che, nello scambio con Brusaferro, l’ex ministro allude a semplici «raccomandazioni» sull’utilizzo dei Dpi nei bus e in metro: «Non stringenti». La sera stessa, il leader di Articolo uno ricontatta il capo dell’Iss: «Ho capito bene che ci sarà un documento ad hoc su mascherine?». Brusaferro risponde dopo una mezz’oretta: «Sì l’idea era di fare una riflessione strutturata sulle mascherine in comunità. Si sta lavorando con Inail». E qui viene il bello, perché lo scienziato si lascia scappare una frase molto eloquente: «La questione è discussa a livello scientifico e le evidenze forti non sono. Ciononostante», confida il funzionario, «[le mascherine] possono presentare una barriera per la trasmissione delle droplets», cioè le goccioline di saliva con cui ci si può infettare. Ricapitolando: il giorno 22 aprile 2020, sui dispositivi di protezione delle vie respiratorie, burocrati e politici che gestiscono l’emergenza Covid non hanno certezze granitiche. Anzi: Speranza sottolinea che imporli a tutti «non è garanzia di stop contagio»; Brusaferro conferma non ci sono «evidenze forti» a sostegno dell’utilità delle mascherine in comunità. Eppure, cosa succede? Quattro giorni dopo quella conversazione, il premier, Giuseppe Conte, emette un dpcm. E prescrive l’obbligo di impiegare «protezioni delle vie respiratorie nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, inclusi i mezzi di trasporto e comunque in tutte le occasioni in cui non sia possibile garantire continuativamente il mantenimento della distanza di sicurezza». Ergo, anche all’esterno, se ci sono situazioni di affollamento. Da quel momento, la mascherina diventa un totem: con un decreto del 7 ottobre, il governo esplicita che va indossata pure all’aperto. Solo a cavallo delle elezioni politiche 2022 decade ogni imposizione di bavaglio, con l’eccezione di ospedali e Rsa. Quando Speranza e Brusaferro si confrontano, l’esecutivo giallorosso è preso tra due fuochi: da un lato, la Lombardia che preme per la certificazione di dispositivi prodotti in loco. Si rivela necessario, vista la carenza di approvvigionamenti, autorizzare pure le mascherine di tessuto, lavabili e dalle dubbie capacità filtranti. Le sdoganerà il dpcm del 26 aprile, alla faccia delle prove carenti. Dall’altro lato, i sindacati e l’Ordine dei medici scalpitano, perché gli operatori si trovano in corsia senza protezioni e si rendono conto che le chirurgiche non schermano. D’altronde, solo un mese prima, Walter Ricciardi, su La 7, snobba la rincorsa alle mascherine: «Quelle di garza», spiega, «non servono a proteggere i sani. Devono essere date», concede, «al personale sanitario e ai malati». Per il resto, sono «una paranoia che la gente sana utilizza in maniera impropria». Nel giro di poco tempo, i paranoici diventeranno Speranza, Conte e, più in là, Mario Draghi. Le «evidenze», che ad aprile 2020 «forti non sono», come ammette Brusaferro, pian piano diventeranno ancora più friabili. A maggio 2022, uno studio dell’Università di San Paolo, che analizza i dati di 35 Paesi, Italia inclusa, conclude: gli Stati «con alti livelli di ottemperanza» all’obbligo di museruola «non hanno avuto risultati migliori di quelli con scarso utilizzo» dei Dpi. Poco più di un mese fa, l’autorevole Cochrane library aggiorna una metanalisi di 78 articoli e osserva che «fa poca o nessuna differenza» mettere una chirurgica o una Ffp2 in contesti ospedalieri o domestici. E che coprirsi naso e bocca non riduce granché i contagi. Insomma, aveva ragione Speranza. Non quello che definiva «fondamentali» le mascherine. Quello del 22 aprile 2020.
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Nel libro postumo Nobody’s Girl, Virginia Giuffre descrive la rete di abusi orchestrata da Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e ripercorre gli incontri sessuali con il principe Andrea, confermando accuse già oggetto di cause e accordi extragiudiziali.