2025-04-03
Nella sentenza sulla Le Pen tanta ideologia e poca giurisprudenza
L’articolo contestato alla leader sovranista, la «distrazione di fondi pubblici», si applica con difficoltà al suo caso. Con il Codice italiano sarebbe stata assolta.Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione A quanto è dato sapere, la condotta addebitata a Marine Le Pen e ad altri che, come lei, erano stati eletti al Parlamento europeo sarebbe consistita nell’aver assunto, pagandole con i fondi appositamente assegnati, persone che avrebbero dovuto lavorare come loro assistenti nell’espletamento del mandato parlamentare ma la cui attività sarebbe stata, invece, spesa solo per il partito di provenienza, che era il Rassemblement national. Tale condotta, secondo il tribunale di Parigi, era tale da costituire il reato previsto dall’art. 432-15 del codice penale francese che punisce, per quanto qui interessa, il «détournement de fonds publics» (distrazione di fondi pubblici) commesso da chiunque sia «depositario dell’autorità pubblica o incaricato di una missione di servizio pubblico». Nel caso di specie - sempre secondo il tribunale - il «détournement» avrebbe assunto la forma dei «contratti fittizi» che ciascuno dei condannati avrebbe stipulato con i soggetti fatti falsamente apparire come assistenti. Il tutto - specifica ancora il tribunale - senza che vi sia stato, peraltro, alcun «arricchimento personale» ma soltanto un «arricchimento del partito», essendosi questo avvalso, a spese del Parlamento europeo, di prestazioni lavorative che, altrimenti, sarebbero state a suo carico. Si tratta, però, di un ragionamento che presenta, alla base, un evidente punto debole, costituito dalla ritenuta fittizietà di contratti che, invece - stando ai dati di fatto che possono darsi per pacifici - sarebbero stati da ritenere reali, sotto il profilo tanto soggettivo quanto oggettivo, sulla scorta dei comuni principi di diritto civile, quali riconosciuti anche nell’ordinamento francese. Le parti contraenti erano, infatti, effettivamente, per ognuno di essi, il singolo parlamentare ed il soggetto da lui assunto come assistente. L’oggetto del contratto era una prestazione lavorativa che effettivamente avrebbe dovuto essere effettuata dal secondo in favore del primo. A ben vedere, quindi, ad essere oggetto del «détournement» non erano i fondi pubblici dai quali erano tratte le somme destinate al pagamento di quelle prestazioni, dal momento che il pagamento sarebbe stato comunque dovuto, ma erano invece le prestazioni stesse, che, per volontà del soggetto che aveva titolo per fruirne, venivano dirottate in favore di un soggetto diverso, costituito dal suo partito di provenienza. Ma dal letterale tenore del citato art. 432-15 del codice penale francese non sembra potersi trarre elemento alcuno che consenta di assimilare le prestazioni o le energie lavorative ai «fondi pubblici» il cui «détournement» può costituire reato. La norma estende, infatti, la propria applicabilità soltanto agli «effetti, documenti o titoli» che dei suddetti fondi possano «tenere luogo» nonché «ad ogni altro oggetto» che a taluno sia stato «affidato in ragione delle sue funzioni o della sua missione». Ed è di tutta evidenza che per «oggetto» non può che intendersi un oggetto materiale e non anche una prestazione o una energia lavorativa. Sotto questo profilo vi è un’evidente analogia tra la suddetta norma e gli articoli 314 e 314 bis del codice penale italiano che prevedono come reato, rispettivamente, il peculato ordinario e quello c.d. «per distrazione», i quali possono, entrambi, avere ad oggetto soltanto «denaro» o «altra cosa mobile». Dovrebbe quindi valere anche per il diritto francese il principio più volte affermato dalla giurisprudenza italiana di legittimità secondo cui non può costituire peculato l’avvalersi, a fini privati, delle prestazioni lavorative di un pubblico dipendente, non essendo le energie umane qualificabili come «cose mobili» né essendo ad esse assimilabili. In tal senso, fra le più recenti, la sentenza della Cassazione n. 37074 del 2020, secondo la quale la condotta ora descritta sarebbe stata, semmai, punibile sulla base di un diverso titolo di reato costituito, all’epoca, dall’abuso d’ufficio, previsto dall’art. 423 del codice penale. Questo reato è stato, tuttavia, successivamente abolito, per cui, attualmente, se la Le Pen, per la condotta a lei addebitata, fosse stata giudicata in Italia, avrebbe dovuto essere, con ogni probabilità, assolta con la formula «il fatto non è previsto dalla legge come reato». Nell’ordinamento francese risulta, però, ancora previsto, dall’art. 432-1 del codice penale, un reato che potrebbe essere, in qualche modo, assimilabile all’abuso d’ufficio, consistente in una condotta assai genericamente descritta come quella del soggetto che, essendo «depositario dell’autorità pubblica» e «agendo nell’esercizio delle sue funzioni», adotti «misure destinate a porre ostacolo (faire échec, ndt) all’esecuzione di una legge». La Le Pen, dunque, a tutto voler concedere, se non completamente assolta, avrebbe tutt’al più potuto essere ritenuta responsabile di detto ultimo reato che, però, essendo molto meno grave dell’altro, avrebbe dovuto comportare l’applicazione di una pena di gran lunga inferiore ai quattro anni di reclusione che, invece, le sono stati inflitti, unitamente alla pena accessoria dell’ineleggibilità con effetto immediato. Con riguardo, poi, a quest’ultima, è stato già da molti ricordato che, pur essendo essa prevista come obbligatoria, in caso di condanna per il reato di «détournement» di fondi pubblici (così come lo sarebbe stata se la condanna fosse stata inflitta per quello di «ostacolo all’esecuzione di una legge»), obbligatorio non era affatto ordinarne la immediata esecutività; cosa che invece è stata fatta - secondo le riportate dichiarazioni della presidente del tribunale, Bénédicte Perthuis - in considerazione del rischio di recidiva e di turbamento dell’ordine pubblico, da ritenersi tanto più elevato proprio in quanto la Le Pen aveva già posto la propria candidatura alle elezioni presidenziali previste per il 2027 e, trattandosi di soggetto che non aveva «espresso alcuna presa di coscienza della violazione della legge e dell’importanza della probità», la sua pretesa di essere giudicata dagli elettori sarebbe stata come un «rivendicare un privilegio, una immunità in violazione delle regole della legge». E sono affermazioni, queste, che, unite alla oggettiva, estrema opinabilità (per le ragioni che si sono dette), della stessa rilevanza penale della condotta addebitata all’imputata, rendono assai poco credibile che tutto l’«affaire» - come invece si è voluto sostenere - sia stato gestito dalla magistratura all’insegna di una asettica e ineludibile applicazione della legge, del tutto scevra da ogni e qualsiasi valutazione di carattere politico.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)