2025-09-29
Marco Casamonti: «Lo Stato ha smesso da tempo di commissionare la bellezza»
Il quartiere Qt8 di Milano in costruzione. Nel riquadro, l'architetto Marco Casamonti
L’architetto, che non vuol essere chiamato «archistar»: «Nelle case popolari di Fanfani doveva esserci sempre una statua. La norma c’è ancora, ma è disattesa».Quel ramo del lungarno che volge al Ponente… Eh sì, ci vorrebbe un incipit manzoniano per rendere l’armonia subitanea che avvolge appena si varca la spalletta del ponte. Comincia da lì il muro del giardino di Boboli e, accoccolata tra alcune facciate ottocentesche, si scorge una costruzione bassa, luminosa di cristalli, in grisaglia benpensante. È la nuova bottega del Verrocchio. Come la bottega del maestro di Botticelli, del Ghirlandaio, di Lorenzo di Credi produce manufatti e talenti, concetti e intenti. È Archea, studio di progettazione e non solo nato da una spontanea necessità di comunità d’idee tra tre architetti quasi coetanei: Laura Andreini, Marco Casamonti e Giovanni Polazzi, formati all’università gigliata ma, soprattutto, formati da Firenze. A loro si è aggiunta Silvia Fabi dal 2001 e Archea si è se trasformata in Archea Associati. Marco Casamonti, che è il front man del gruppo, sussurra: «Fosse vero che siamo come la bottega del Verrocchio, potrei incontrare Leonardo; noi non speriamo altro di trovare un allievo che superi il maestro, ma è vero che come il Verrocchio faceva pittura e architettura, oggetti e progetti, anche noi abbiamo inteso Archea come un luogo di creatività ragionata, come una bottega rinascimentale. Facciamo progetti, anche urbanistici, e oggetti, barche, mostre d’arte, videoarte, editoria. Se nasci a Firenze vivi in un luogo “De Divina Proportione”, immerso in un perenne bello». Marco Casamonti non è solo un geniale architetto, ma è anche professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana presso la Scuola politecnica dell’Università di Genova e direttore ed editore di Area, una delle poche riviste di architettura rimaste in Italia.Professor Casamonti, dunque lei è, o si sente, un’archistar? «Oddio, ma non si può trovare una definizione un po’ meno spocchiosa?». (Casamonti parla un fiorentino educato; la lingua è funzionale allo scorrere, come l’Arno, delle idee, con un flusso incessante e ordinato tra la riva della creatività e quella delle razionalità, ndr)Per esempio? «A me piace tanto la definizione di Adolf Loos: l’architetto è un muratore che parla latino. Come muratore, sa dove mettere le mani ma, attraverso il latino, conosce il perché della sua arte».Qui ad Archea si ha l’impressione nonostante i rendering, i modelli in 3D, una foresta di computer, di essere a bottega. Ma quanti siete? «Siamo oltre 250, quasi tutti architetti, e siamo divisi tra Firenze, Roma, Milano, Genova e Parigi e poi abbiamo studi a Tirana, Pechino, Dubai e San Paolo. Il nostro impegno è multiforme, noi diamo tantissima importanza alla ricerca. L’uso della tecnologia più avanzata è inteso come uno strumento, ma non deve venire mai meno il pensiero, l’elaborazione fatta dall’uomo, la stratificazione della conoscenza».In effetti, qui è anche pieno di libri e di riviste… «Accompagno sempre il progetto con un libro che lo documenta dal primo schizzo ideativo fino alla realizzazione. Quando ho assunto la direzione di Area, ho capito che la rivista come tale non sarebbe sopravvissuta, incalzata da forme di comunicazione più veloci. Ed ecco che Area di cui sono orgogliosamente direttore si è trasformata in una serie di approfondimenti monografici. Prendiamo un tema progettuale e lo sviluppiamo attraverso i più autorevoli contenuti».Da più parti si parla di un nuovo Rinascimento italiano come modello possibile in Europa e nel mondo; c’è spazio per un rinnovato umanesimo mentre quasi si idolatra l’Intelligenza artificiale? «L’Intelligenza artificiale è uno strumento, potentissimo, affascinante, ma è deve rimanere uno strumento. Parlare a un fiorentino di Rinascimento è parlare di casa. I Medici riuscirono a fare dell’arte uno strumento di dialogo, di narrazione dei loro valori. Questa è una città dove arrivano 14 milioni di turisti che, come l’Italia, vive di bellezza. Il nuovo Umanesimo sta nella capacità di reinterpretare quella visione. Paolo Portoghesi diceva che l’architetto non deve avere solo occhi, ma deve avere orecchi, per ascoltare il mondo e interpretarlo. Sono convinto che non si può fare architettura senza arte, l’arte è il principio dell’architettura. Tutti i grandi del Rinascimento sono stati contemporaneamente artisti e architetti. Da fiorentino, vivo immerso in questo ambiente e quando progetto cerco di esprimerlo».In che senso? «Mi spiego con un esempio. Un giorno riceviamo una richiesta dal Vietnam. Ci chiedono di progettare per poi costruire un luogo, una sorta di ponte da cui osservare un nuovo insediamento dove c’è anche una grottesca riproduzione di architetture italiane. Vado e, osservando ma soprattutto ascoltando, ribalto la loro l’idea, il punto di vista: facciamo una struttura che debba essere guardata dalla riva. È nato così il Kiss Bridge che è un ponte che non si attraversa: è interrotto. Attira milioni di turisti che lo percorrono da un lato all’altro senza incontrarsi. Da cosa è nata l’idea e, soprattutto, come l’ho comunicata? Ricordando Michelangelo. L’idea del ponte dei baci è quella del dito di Adamo e del dito di Dio che nella Creazione della Cappella Sistina non s’incontrano, ma vanno oltre l’incontro: diventano forza generatrice. Questo, semplificando ed esemplificando, è per me il nuovo Rinascimento».Esiste uno stile architettonico italiano che disegna e costruisce il mondo? «Ci vorrebbe un’intera enciclopedia per parlarne, magari è un’idea. Sicuramente è riconosciuta una capacità italiana sia nel progettare sia nel realizzare di altissimo profilo. Anche in architettura ci sono state le mode, ci sono le correnti di pensiero. La globalizzazione ha portato anche a una contaminazione. Ma se vieni dal Paese di Vitruvio, del Brunelleschi, di Bernini o del Palladio, li hai dentro, li hai nel tuo Dna e certamente questa attitudine all’arte e il pensiero (il bello e conseguenza dell’arte e del pensiero per questo) emerge. Per quanto riguarda noi, abbiamo costruito ovunque. In Cina, in una zona dove avevano spianato una collina per produrre ceramiche, abbiamo immaginato edifici a forma di vaso cinese. In un altro contesto, il committente aveva un problema legato all’abbattimento di un albero secolare e noi abbiamo progettato girando il palazzo attorno all’albero ovviamente senza abbatterlo. Abbiamo realizzato progetti dalla Cina agli Emirati Arabi, dal Vietnam al Brasile. Misurandoci volta per volta con funzioni diversissime: dal polo produttivo al contenitore culturale, dal centro di ricerca alla struttura industriale, dal quartiere residenziale al centro commerciale. E ogni volta non abbiamo imposto un’idea, ma abbiamo lasciato che il luogo generasse in noi l’idea. Quando Mark Augè parla dei non luoghi, non definisce l’assenza di luogo ma codifica la presenza del non luogo che è l’esatto opposto dell’idea dell’Umanesimo».Lei ha progettato ai quattro angoli della terra, ma Firenze resta il suo motore ispirativo. È così? «Firenze mi appartiene come io le appartengo, è la Firenze medicea quella che s’affida all’arte per essere. Noi a Firenze abbiamo fatto pochi progetti: dal Viola Park alla Cantina Antinori, che ci è valsa molti premi: la sua scala elicoidale è ormai un’icona. Abbiamo fatto la trasformazione della manovia della Salvatore Ferragamo. In un tunnel che era un rifugio antiaereo, abbiano realizzato una galleria di video-art. Ora stiamo restaurando un teatro a due passi da Palazzo Vecchio. Abbiamo investito in un contenitore culturale che Firenze rischiava di perdere per produrre un luogo per l’arte».L’architettura, con l’inchiesta di Milano e ora con la polemica su Firenze sembra sotto accusa. Sta scadendo la qualità architettonica? «Anche qui il ragionamento sarebbe molto complesso. Mi limito a osservare che l’architettura dipende molto dalla committenza pubblica o comunque dallo Stato, inteso nella sua accezione di potere decisionale. Influenza la qualità e anche lo scopo dell’architettura. Abbiamo una legge urbanistica che risale al 1942. L’80% del nostro patrimonio abitativo è influenzato dall’idea di questa architettura funzionale. Negli edifici pubblici, cosi come nelle case popolari conseguenti alla legge Fanfani, ogni edificio doveva accogliere un’opera d’arte ma questa norma che ancora esiste e quasi sempre disattesa. La concezione urbanistica secondo cui la città produttiva va separata dalla città dove si vive ha generato le periferie di cui oggi noi ci lamentiamo. Anche con il Pnrr non si sono colte tutte le opportunità. Resto legato all’idea di Franco Purini, che l’architettura è un’arte che ha una sua particolare modalità espressiva e che dobbiamo guardare alle periferie con occhi nuovi. A questo dovrebbe guardare la committenza pubblica. Succede in Spagna, in Francia e poi c’è un caso europeo che vivo quotidianamente con grande interesse: l’Albania».L’Albania? Possibile che sia un esempio per l’architettura? «Sì, lo è, e torniamo alla committenza pubblica come innesco del bello, esattamente come i Medici. Edi Rama ha riunito 300 architetti per progettare la nuova Albania e chiede ai migliori architetti del mondo, chiamati scherzosamente “Albanian arch army”, di aiutarlo nella costruzione del nuovo volto del Paese, aderente però alla cultura e all’identità albanese. Questo deve fare la committenza pubblica. In Italia, col pregiudizio sul fascismo, si è dimenticato che il regime ha prodotto una nuova immagine urbana che invece resta, relativamente all’architettura, una testimonianza di valore. Il compito della committenza pubblica è di generare occasioni per migliorare la vita delle persone, l’abitare, attraverso l’architettura. Rivelo un piccolo aneddoto. Ho chiesto a Edi Rama: come fai, tu, socialista, a dialogare così strettamente con Giorgia Meloni? Mi ha risposto: per noi l’Italia è un esempio di bellezza e di cultura, l’Italia per noi è casa, italiani sono gli architetti che hanno disegnato e dato vita alla nostra capitale». Viene in mente Paolo Conte che, dalla nebbia del Nord, guarda il mare: per molti l’Italia è un lampo giallo al parabrise.
Silvio Berlusconi e Claudio Lotito al Senato in una foto del 13 ottobre 2022 (Getty Images)
Nel giorno in cui Silvio Berlusconi avrebbe compiuto 89 anni, Claudio Lotito gli dedica una lettera affettuosa: «Il modo in cui hai amato gli italiani continua a sostenerci. Hai realizzato tutti i tuoi sogni, rendendo l’Italia riconoscibile nel mondo».
«Caro Presidente, caro Silvio, auguri. Oggi compi gli anni, e anche se non sei fisicamente presente non è un problema. Potrà sembrare poco ortodosso usare questa espressione, ma il modo e l’intensità con cui hai amato gli italiani, così tanto e così profondamente, continuano a sostenerci anche se tu non ci sei più. È una cosa che è rimasta in ognuno di coloro che hanno capito che il tuo valore, come politico e come uomo, dipendevano anzitutto dalla maniera in cui i tuoi sentimenti, i tuoi pensieri e le tue azioni contribuivano allo sviluppo dell’esistenza degli altri individui. Credo che muoia lentamente chi non vive le proprie passioni, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle ‘i’ piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi. Caro Presidente, caro Silvio, il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni. E tu hai vissuto tutti i tuoi sogni: da imprenditore, da uomo di sport e da politico, tutti realizzati rendendo l’Italia riconoscibile al mondo. Auguri Presidente! Auguri Silvio!». Lo dichiara il senatore Claudio Lotito.
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(Totaleu)
«Serve autonomia strategica Ue, batterie fondamentali». Lo ha dichiarato il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso durante un punto stampa al Consiglio Competitività di Bruxelles.