2024-06-02
Col marchio di genocidio c’è il nodo rifugiati
Il ministro iberico Albares lancia l’allarme sulla situazione di Israele: in caso di dichiarazione di crimini contro l’umanità siamo obbligati a portare in Spagna chi fa richiesta di asilo. A Tel Aviv temono per le conseguenze sull’export dell’industria militare. Protagonisti del lancio di bombe carta 300 universitari. Non avanzano i tentativi di pace. Lo speciale contiene due articoli. In Spagna c’è un ministro che sa fare i conti. Josè Manuel Albares, titolare degli Esteri, ha rilasciato l’altro ieri sera una dichiarazione, al di là delle assurde posizioni di Pedro Sanchez, di generale buon senso. Attenzione che se i giudici internazionali dovessero accusare formalmente Israele di genocidio si aprirebbe un flusso di profughi impossibile da fermare. Flusso tutto in direzione dell’Europa. Pur premettendo di parlare per sé, Albares ha ricordato che esiste una sentenza del Tribunal Supremo, datata 2020, che obbliga difronte a emergenze quali il genocidio di inviare immediatamente aerei militari per portare in salvo in Spagna tutti coloro che faranno richiesta di asilo. Senza filtro e senza esitazione. Stiamo parlando di quasi due milioni di persone palestinesi che vivono a Gaza. L’allarme lanciato dal ministro spagnolo non cade a caso. E purtroppo rischia di aprire una falla per l’intero Vecchio Continente. Basta ricordare le parole di Charles Michel, presidente del Consiglio Ue, sul diritto a difendersi di Israele ma solo fino a certi limiti. E al tempo stesso basta fare il conto nel numero crescente di Paesi che fanno a gara per riconoscere lo Stato di Palestina, qualsiasi cosa esso significhi. Per questo vale la pena, al di là delle opinioni di chi scrive e delle opinioni personali, lanciare un pre allarme. Attenzioni a ciò che si desidera. Gli effetti collatterali di una battaglia (più o meno astiosa contro Israele) potrebbero essere incontrollabili. Immaginate che cosa significhi avere anche solo un milione di profughi palestinesi tendenzialmente radicalizzati pronti a bussare ai nostri confini? La domanda è retorica fino a un certo punto, per lo più è realistica. Perché se la storia non è una opinione di Paesi arabi pronti ad accogliere un tale flusso ce ne saranno pochi. Certamente qualcosa l’Egitto, forse il Libano. Stop. D’altronde l’eventualità che l’opinione pubblica a sinistra e grandi gruppi di potere vicini all’Onu spinga ulteriormente per le accuse di genocidio è tenuto in grande considerazione anche dalle aziende israeliane. Soprattutto quelle del comparto della Difesa. In un report consultato dalla Verità viene analizzato lo stato di salute del comparto, principalmente quello dei tre grossi conglomerati: Elbit systems, Rafael asvanced defence systems e Israele aerospace industries. L’industria della difesa israeliana è una componente vitale della sua sicurezza nazionale e della sua strategia economica. Classificandosi tra i primi dieci esportatori mondiali di armi (circa 8 miliardi e il 2,8% del mercato globale) e mantenendo capacità tecnologiche avanzate, Israele si è affermato come un attore chiave nel mercato delle armi. Il recente spostamento verso la priorità delle esigenze di difesa interna (dopo il 7 ottobre), sostenuto dall’assistenza militare degli Stati Uniti, riflette un riorientamento strategico che bilancia le ambizioni di esportazione con gli imperativi di sicurezza nazionale. Il dato dell’export è fortemente crollato, ma i ricavi dei tre colossi sono schizzati all’insù grazie alle ovvie commesse interne dovute all’operazione di terra a Gaza. Tradotto in numeri, complessivamente quasi 15 miliardi di dollari di ricavi e un impressionante portafoglio ordini di 52,4 miliardi di dollari. «Sebbene i benefici economici a breve termine siano evidenti, i rischi diplomatici e politici a lungo termine posti dal conflitto di Gaza non possono essere trascurati». Gli analisti hanno sollevato diverse preoccupazioni: Earl Rasmussen, ex ufficiale dell’esercito americano, ha sottolineato che il prolungato impegno di Israele a Gaza potrebbe offuscare la reputazione dei suoi prodotti militari. «Il conflitto è stato descritto da alcuni osservatori internazionali come al limite del “genocidio” e della “pulizia etnica”, il che potrebbe scoraggiare i potenziali acquirenti preoccupati per le implicazioni etiche e politiche. Questa percezione rischia di isolare Israele nel mercato globale delle armi». Un concetto più volte ripetuto nel report israeliano. «Il futuro dell’industria della difesa israeliana sarà modellato dalla sua capacità di innovare, adattarsi alle richieste del mercato», si legge ancora nel documento, «e rafforzare le partnership strategiche». In altre parole, anche i produttori di armi sanno bene che l’impennata di ricavi lascerà spazio e incertezze già nel medio termine. Una delle incertezze sarà paradossalmente superabile proprio grazie alla guerra a Gaza. Sul terreno si stanno acquisendo importanti vantaggi tecnologici (dai droni alle munizioni a guida di precisione fino alla intrusione informatica) e quindi i tre colossi potranno ribaltare sul mercato quanto imparato a Gaza. L’altra incertezza sta tutto invece in come si spaccherà il mondo in caso di concrete accuse di genocidio. Non serve che siano vere, basta che l’Aja si muova in quella direzione. In quel caso Israele dovrà cercare nuovi alleati. Difficile ma non certo impossibile. E così si torna all’effetto non calcolato sull’Europa. Se Bruxelles e i Paesi membri dovessero allontanarsi da Israele perderebbero un bacino di tecnologia civile e militare e in compenso rischierebbero di riempirsi di profughi palestinesi in grado di destabilizzare un pezzo del Vecchio Continente. Il piano di pace per Gaza in molti sperano sia dietro l’angolo, ma attenti a desiderare qualcosa di cui non si conoscono con la precisione gli effetti collaterali.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/marchio-di-genocidio-nodo-rifugiati-2668436740.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gli-studenti-allattacco-della-polizia-al-corteo-pro-palestina-e-anti-meloni" data-post-id="2668436740" data-published-at="1717271179" data-use-pagination="False"> Gli studenti all’attacco della polizia al corteo pro Palestina e anti Meloni «Le condizioni di Israele per porre fine alla guerra non sono cambiate: la distruzione delle capacità militari e di governo di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi e la garanzia che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele». Così scrive su X il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu a proposito del nuovo piano di pace israeliano che si snoda in tre fasi sul quale stanno lavorando Usa, Qatar ed Egitto. Netanyahu ha poi aggiunto che «Israele continuerà a insistere che queste condizioni siano soddisfatte prima che venga messo in atto un cessate il fuoco permanente e l'idea che Israele accetterà un cessate il fuoco permanente prima che queste condizioni siano soddisfatte non è contemplata». Ieri, sempre su X il segretario di Stato americano Antony Blinken ha commentato questo nuovo sviluppo: «Abbiamo la possibilità di porre fine alla guerra a Gaza, riportare a casa gli ostaggi e alleviare le sofferenze del popolo palestinese con l’accordo di cessate il fuoco che è sul tavolo. Oggi ho parlato con diversi miei omologhi nella regione per sottolineare che Hamas dovrebbe accettare l’accordo». E con chi parlato Blinken? Il segretario di Stato americano ha avuto conversazioni telefoniche separate con i ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Turchia e Giordania per discutere la proposta di cessate il fuoco in cambio di ostaggi, con l’obiettivo di porre fine al conflitto tra Israele e Hamas a Gaza. Questo è quanto riportato da The Times of Israel che cita fonti del Dipartimento di Stato Usa. Il portavoce del dipartimento di Stato Matthew Miller ha riferito ai media che Blinken durante le telefonate effettuate dall’aereo di ritorno da una riunione della Nato a Praga «ha sottolineato che Hamas dovrebbe accettare l’accordo senza indugio». E cosa pensano i leader del gruppo jihadista? Hamas in una nota si dice pronta ad impegnarsi in modo positivo e costruttivo con qualsiasi proposta basata su un cessate il fuoco permanente e scrive che considerano «positivamente le osservazioni contenute nel discorso odierno del presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il suo appello per un cessate il fuoco permanente». Quindi è la volta buona per fermare la guerra? Attenzione a non cadere nell’ennesima trappola dei jihadisti perché in nota successiva Hamas ha specificato che i leader del gruppo terroristico che vivono come nababbi all’estero sono a favore del piano di pace ma hanno affermato che «la risposta definitiva sta a Yahya Sinwar e Mohammed Deif» i leader militari che sono nascosti nel sottosuolo a Gaza. Secondo Haaretz fonti interne di Hamas hanno affermato di essere in attesa di ricevere un documento ufficiale dal Qatar. Inoltre, il quotidiano israeliano ha riportato che la Jihad islamica l’altro gruppo jihadista che ha in mano ostaggi israeliani, ha fatto sapere che la proposta «è completamente sbilanciata verso l’entità sionista». Magari ci sbagliamo ma la sensazione è che Hamas e la Jihad islamica stanno nuovamente prendendo tempo. La guerra intanto continua. Nella notte tra venerdì e sabato sono stati lanciati 15 razzi dal sud del Libano verso il nord di Israele dopo una giornata di tensione. In risposta, durante la notte, caccia israeliani hanno attaccato «importanti obiettivi di Hezbollah. E anche a Roma non si scherza. Ci sono stati, infatti, scontri con lancio di lacrimogeni e bombe carta, al corteo contro il governo e contro la guerra organizzato nella Capitale che ha visto la partecipazione di 5.000 persone (per gli organizzatori erano 10.000). Protagonisti dei tafferugli circa 300 manifestanti partiti dalla Sapienza dietro scudi di plexiglass foderati di bandiere pro Palestina che hanno tentato di sfondare il cordone delle forze dell’ordine. E ne sono nati gli scontri con lancio di petardi, bombe carta e fumogeni. Gli agenti erano in netta minoranza, poche decine a fronteggiare circa 300 manifestanti.Tra gli slogan: «Intifada fino alla vittoria», «Palestina libera dal fiume al mare», «Pagherete caro, pagherete tutto». Alcuni dei manifestanti avevano il volto coperto dalla maschera di V come simbolo di Vendetta e hanno bruciato un aeroplanino di cartone davanti a uno degli ingressi del Palazzo dell’Aeronautica prima di proseguire.
Charlie Kirk (Getty Images)
Alan Friedman, Cathy Latorre e Stephen King (Ansa)