
Contabilità alterata in una galassia di 17 società: il coindagato di papà Tiziano per false fatture finisce ai domiciliari. E c'è anche l'accusa d'intralcio alla giustizia.L'immobiliarista Luigi Dagostino, ex socio dei genitori di Matteo Renzi, è da ieri agli arresti domiciliari con l'accusa di emissione e utilizzo di false fatture al fine di evadere l'Iva e le imposte sui redditi. Dagostino, 51 anni, originario di Barletta ma trapiantato in Toscana, è noto alle cronache per essere indagato insieme con Tiziano Renzi e la moglie Laura Bovoli in un'altra inchiesta per emissione e utilizzo di fatture false per un valore di circa 200.000 euro, soldi che secondo l'accusa sarebbero stati incassati dai genitori dell'ex premier per prestazioni inesistenti. Il terzetto, nel 2015, diede vita a una società, la Party srl, quasi subito messa in liquidazione e oggi coinvolta nell'indagine. L'arresto di Dagostino, imprenditore attivo nel settore degli outlet del lusso, è scattato nell'ambito di un'indagine gemella condotta dai magistrati fiorentini Luca Turco e Christine von Borries, un fascicolo che divenne di pubblico dominio a causa di alcune perquisizioni ordinate nel gennaio 2017 e che ha portato Dagostino ad avviare un processo di ravvedimento operoso con l'Agenzia delle entrate per l'evasione di alcuni milioni di euro. Secondo l'accusa, però, la sua indole non è cambiata e il rischio di reiterazione del reato è attualissimo. Il gip Fabio Frangini ha rimarcato nella sua ordinanza le esigenze cautelari per Dagostino, il quale risulta formalmente amministratore o socio di almeno 13 società, senza contare le quattro riconducibili all'ex moglie Maria Emanuella Piccolo e all'attuale compagna Ilaria Niccolai (entrambe indagate), dove l'uomo riveste il ruolo di amministratore di fatto, mentre le signore hanno solo un compito «esecutivo e di appoggio» e per questo sono state lasciate a piede libero. Per l'accusa la mente di tutto è Dagostino e con lui «viene bloccata di fatto, la fonte e la guida dell'attività illecita». Per la toga la posizione dell'imprenditore è «dominante e assolutamente egemone (…) tale da influenzare e determinare anche terzi a commettere ulteriori reati». Il suo modus operandi sarebbe stato svelato anche attraverso intercettazioni. Dalle carte risulta che prendeva accordi via telefono con tale G.R. su trasferimenti di denaro che il secondo doveva portare dalla Puglia a Firenze e per il gip «è del tutto assimilabile al vero che G.R. restituisse a Dagostino l'importo delle fatture false emesse dal primo a favore delle società del secondo». Nell'ordinanza il gip sostiene che sarebbe «specifico e concreto il pericolo (…) che Dagostino possa reiterare, se lasciato in libertà, fatti analoghi». Il motivo? È presto detto: «Il fatto che Dagostino sia amministratore formale di 13 società e amministratore di fatto di almeno altre quattro (quelle con amministratrici formali le altre due indagate), rende assolutamente immanente il pericolo di reiterazione del reato, in relazione a tutte le società del suo gruppo, anche a fronte di un ben oliato meccanismo che ha creato una imponente evasione fiscale». Un buco ai danni dell'Erario che ieri ha portato gli uomini della Gdf a eseguire diverse perquisizioni, oltre al sequestro preventivo di beni per circa 3 milioni, pari all'importo delle imposte evase, nei confronti dei tre indagati. Il gip ha ordinato gli arresti domiciliari per Dagostino anche perché «i risultati delle intercettazioni, consentono di ritenere un notevole fermento di attività, sostanzialmente nella consapevolezza della pendenza del procedimento (nel gennaio del 2017 ci sono state le perquisizioni e quindi il disvelamento delle indagini, ndr) e nella direzione di cercare di aggirare il corso dello stesso e di continuare nella gestione non corretta delle società». Nel frattempo, in gran segreto, la Procura di Firenze ha avviato un altro filone d'indagine, questa volta per intralcio alla giustizia, in cui sono implicati, a quanto risulta alla Verità, alcuni personaggi insospettabili, oltre al solito Dagostino. Tra gli indagati ci sarebbero l'avvocato barlettano della Piccolo, R.S., e un noto magistrato, in passato in organico presso la Procura di Trani e già interessato da altri procedimenti. Ad aprile gli uomini della Guardia di finanza di Firenze hanno effettuato un blitz nell'ufficio del legale, dove hanno acquisito diverso materiale. «È vero, nel decreto di perquisizione mi è stato contestato il reato di intralcio alla giustizia», conferma il professionista pugliese al nostro giornale, «ma non ho ricevuto alcun avviso di conclusione delle indagini e mi auguro di ottenere una rapida archiviazione».I personaggi iscritti in questo stralcio sono evidentemente sospettati di aver cercato di addomesticare i verbali di testimoni e coindagati. In base al codice il reato di intralcio alla giustizia si verifica quando qualcuno «offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria» per indurla a dire il falso. Questo delicato fascicolo è stato trasmesso alla Procura di Lecce, l'ufficio giudiziario competente per i reati commessi dai magistrati di Trani, dove è stato istruito il procedimento sulle false fatture. In Puglia le investigazioni hanno coinvolto gli amministratori di alcune ditte individuali e di alcune società con sede legale a Barletta, aziende che avrebbero creato costi inesistenti attraverso fatture farlocche, abbattendo così il reddito, sia delle società barlettane, sia di quelle con sede legale nella provincia di Firenze, che risultavano tutte riconducibili a Dagostino, alla ex moglie e all'attuale convivente.Nel 2015 i magistrati pugliesi hanno iniziato a sentire i complici titolari delle «cartiere», innescando, probabilmente, le contromisure degli attuali indagati per intralcio alla giustizia. L.R.B. «ammetteva che, a causa della crisi economica, aveva emesso fatture false in favore di varie imprese e che riceveva per tale opera un compenso (…) che i pagamenti risultavano comunque attraverso bonifici». R.R. ha dichiarato di aver «fatto risultare dei lavori in subappalto che in gran parte non venivano realizzati e erano comunque sovrafatturati». Un altro soggetto, L.D., fatturava con una propria azienda e contemporaneamente era dipendente della Nikila Invest, una delle 17 società del sistema Dagostino. Lo stesso L.D., hanno evidenziato gli inquirenti, è cugino di D.D. «dipendente di un istituto bancario e anch'egli indagato dalla Procura di Trani per reati fiscali e riciclaggio». Una rete a cui forse mancano ancora alcuni nomi eccellenti.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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